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Licenziamenti collettivi: quali novità dalla giurisprudenza?


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1. Definizione di licenziamento collettivo

Il licenziamento collettivo è il provvedimento cui un’impresa, gravata da un’eccedenza, può ricorrere per operare una riduzione del personale.

Fino al 1991, questo particolare e complesso istituto, era sprovvisto di una normativa ad hoc e la relativa disciplina era riservata – con tutte le ovvie difficoltà del caso – esclusivamente a taluni accordi sindacali. Il legislatore italiano è, quindi, intervenuto – anche al fine di dare attuazione alla Direttiva n. 75/129/CEE – emanando la legge 23 luglio 1991, n. 223.
Proprio quest’ultima norma, all’art. 24, fornisce una definizione di licenziamento collettivo, prevedendo che si integra detta fattispecie qualora le “imprese che occupino più di quindici dipendenti, compresi i dirigenti … in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell'arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia”.

 

2. Il computo dei lavoratori per il raggiungimento della soglia numerica

Come risulta evidente, quindi, per rientrare nell’ambito di applicazione del licenziamento collettivo è necessaria la combinazione di tre diversi elementi: occupazionale, causale e numerico-temporale. Proprio quest’ultimo elemento ha creato diversi problemi interpretativi ed applicativi, la cui soluzione è stata rimandata alla giurisprudenza, la quale – a dire il vero – si è espressa in maniera tutt’altro che univoca.

In particolare, gli interpreti della norma si sono chiesti quali fossero i licenziamenti da considerare al fine di raggiungere il numero minimo di cinque recessi necessario per l’attivazione della procedura collettiva.

Sul punto, come anticipato, la posizione della più recente giurisprudenza si è nettamente divisa.
Invero, dapprima, con l’ordinanza n. 15401 del 20.07.2020, la Cassazione ha affermato che nel numero minimo di cinque licenziamenti rientrano anche le risoluzioni consensuali (si veda: Cassazione: va computata anche la risoluzione consensuale ai fini del licenziamento collettivo).
Per, poi, invertire rotta e sostenere, nella sentenza n. 15118 del 31.05.2021, che in detto numero minimo di cinque licenziamenti non possono includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all'iniziativa del datore, quali i recessi per motivo oggettivo conclusi nell'ambito della procedura di cui all’art. 7 della L. 604/1966 (sul punto si veda: Cassazione: i recessi per motivo oggettivo conclusi nell'ambito della procedura di cui all’art. 7 della L. 604/1966 non si computano per il licenziamento collettivo).

 

3. La procedura di licenziamento collettivo

3.1. La comunicazione di avvio della procedura

L'impresa che intende avvalersi della procedura di licenziamento collettivo deve fornire preventiva comunicazione scritta alle RSA o RSU e alle rispettive associazioni di categoria.
In mancanza delle RSA o RSU, la comunicazione va fatta alle sole associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. La comunicazione alle associazioni di categoria può essere effettuata anche tramite l'associazione datoriale cui l'impresa aderisce o conferisce mandato (art. 4, comma 2, L. 223/1991).
La stessa comunicazione deve essere inviata anche al competente Ufficio della Regione (o della Provincia, se delegata dalla Regione) nel cui territorio insistono le unità aziendali interessate, ovvero alla Direzione Generale delle Relazioni Industriali e dei Rapporti di Lavoro presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, qualora l’eccedenza riguardi unità produttive ubicate in più regioni.

In detta comunicazione, l’azienda deve indicare:
• i motivi che determinano la situazione di eccedenza;
• i motivi tecnici, organizzativi o produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, il licenziamento collettivo; il numero, la collocazione aziendale e i profili professionali del personale eccedente, nonché del personale abitualmente impiegato;
• i tempi di attuazione del programma di riduzione del personale;
• le eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della attuazione del programma medesimo del metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali diverse da quelle già previste dalla legislazione vigente e dalla contrattazione collettiva (art. 4, comma 3, legge n. 223/1991).
Tale informativa, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. sentenza n. 28816 del 16.12.2020), non deve – invece – contenere il nominativo dei dipendenti da licenziare (si veda: Cassazione: quali dati deve contenere la comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo?).

L’informativa di cui sopra rappresenta il primo passo della procedura e non può essere omessa in nessun caso, nemmeno – secondo l’ordinanza n. 89 del 04.01.2019 – in ipotesi di chiusura totale dell’azienda (si veda: Cassazione: anche in caso di chiusura dell’azienda il datore è obbligato a fare la comunicazione finale alle organizzazioni sindacali).

Giova sottolineare, infine, che la comunicazione di avvio della procedura è finalizzata, non a predeterminare i criteri di scelta, ma a consentire il corretto svolgimento del confronto tra azienda e organizzazioni sindacali, affinché queste ultime possano esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale (Cass. sentenza n. 5950 del 13.03.2018; si veda: Cassazione: le caratteristiche della comunicazione obbligatoria prevista dall’art. 4 della l. 223/1991).
Ne consegue che la comunicazione si può ritenere in contrasto con l'obbligo normativo di trasparenza quando:
- i dati comunicati dal datore di lavoro siano incompleti o inesatti;
- la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata;
- sussista un rapporto causale fra l'indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale (Cass. sentenza n. 21718 del 06.09.2018).

3.2. La consultazione sindacale

Entro 7 giorni dalla data di ricevimento della comunicazione dell’azienda, a richiesta delle RSA (o RSU) e delle rispettive associazioni di categoria, si procede ad un esame congiunto tra le parti, allo scopo di esaminare le cause che hanno contribuito a determinare l'eccedenza del personale e le possibilità di utilizzazione diversa di tale personale, o di una sua parte, nell'ambito della stessa impresa, anche mediante contratti di solidarietà (o programmi di CIGS) e forme flessibili di gestione del tempo di lavoro (art. 4, comma 5, L. 223/1991).
Qualora la riduzione del personale sia inevitabile, si procede ad un esame anche della possibilità di ricorrere a misure sociali di accompagnamento, dirette a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati.
Ferma restando la sussistenza di un onere a trattare secondo correttezza e buona fede, non sussiste alcun obbligo per le aziende di accettare eventuali soluzioni alternative ai licenziamenti prospettate dalle organizzazioni sindacali durante l’esame congiunto, atteso che imporre un siffatto obbligo significherebbe violare le prerogative riconosciute dall’art. 41 Cost.

Questa prima fase della procedura deve essere esaurita entro 45 giorni dalla data di ricevimento della comunicazione dell'impresa (termine ridotto alla metà qualora i lavoratori interessati siano meno di dieci).

La stessa impresa – alla scadenza del predetto termine – deve inviare all’Ufficio amministrativo regionale competente la comunicazione scritta sul risultato della consultazione sindacale e sui motivi dell’eventuale esito negativo.

3.3. La fase amministrativa

Qualora, nella precedente fase di consultazione in sede sindacale, non sia stato raggiunto l'accordo, l’Ufficio amministrativo competente convoca le parti per un ulteriore esame, anche formulando proposte per un accordo.
In particolare, detto esame congiunto deve svolgersi presso gli uffici della Regione se le unità interessate agli esuberi sono situate in una stessa regione (anche in province diverse) ovvero presso il Ministero del Lavoro se le unità operative sono ubicate in regioni diverse.

In questa sede, con l’autorità amministrativa, si può addivenire alla previsione di particolari incentivi finalizzati alla conclusione di un accordo.

Tale esame deve comunque esaurirsi entro 30 giorni dal ricevimento da parte dell'Amministrazione della comunicazione dell'impresa (termine ridotto della metà nel caso in cui la procedura coinvolga un numero di lavoratori inferiori a dieci).

3.4. La conclusione della procedura

La procedura descritta può, quindi, concludersi in due modi differenti, ovverosia con la sottoscrizione di un accordo nell’ipotesi in cui si sia pervenuti ad un’intesa oppure con esito negativo in caso di mancata sintonia tra le parti.

Nella prima ipotesi, l’accordo stipulato - prevedente il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti - può stabilire, anche in deroga al secondo comma dell'art. 2103 c.c., l’assegnazione dei dipendenti a mansioni diverse da quelle normalmente svolte e, quindi, anche inferiori (art. 4, comma 11, L. 223/1991).
Secondo la giurisprudenza, detto accordo può, inoltre, prevedere che l’indennità sostitutiva del preavviso normalmente dovuta sia ridotta (Cass. ordinanza n. 16917 del 15.06.2021; si veda: Cassazione: nel licenziamento collettivo, gli accordi sindacali possono ridurre l’indennità sostitutiva del preavviso) o addirittura eliminata (Cass. sentenza n. 19660 del 22.07.2019; si veda: Cassazione: in caso di accordo collettivo l’impresa può non pagare l’indennità di mancato preavviso).

Laddove, invece, neppure in sede amministrativa maturi un accordo – e dunque dopo un massimo di 75 giorni (45 + 30) – la procedura è definitivamente conclusa e le parti acquistano piena libertà d’azione.
Ciò significa che l’impresa può, quindi, licenziare ed è tenuta soltanto, entro 7 giorni dalla comunicazione dei recessi, a fornire l'elenco dei lavoratori licenziati alla Regione (o Provincia in caso di delega a quest’ultima), alla Commissione regionale per l'impiego, alle OO.SS. ed alle associazioni di categoria.
Risulta utile sottolineare che – secondo unanime giurisprudenza – detto termine ha carattere essenziale ed opera in maniera cogente (Cass. ordinanza n. 16145 del 19.06.2018; si veda: Cassazione: licenziamento collettivo illegittimo in caso di mancata comunicazione alle organizzazioni sindacali oltre il termine di 7 giorni), con la conseguenza che il mancato rispetto dello stesso comporta l’illegittimità de licenziamento (Cass. ordinanza n. 28034 del 02.11.2018; si veda: Cassazione: in caso di licenziamento collettivo la comunicazione alle OO.SS. deve essere spedita sempre entro 7 giorni dal recesso).

3.5. Conseguenze in caso di violazione della procedura

La violazione di aspetti procedurali ad opera di parte datoriale, comporta – in ipotesi di impugnativa giudiziale del recesso – l’applicazione di una tutela meramente risarcitoria sia per gli assunti prima del 07.03.2015 (cui si applica l’art. 18 della L. 300/1970), che per gli assunti successivamente a tale data (cui si applicano le norme del c.d. Jobs Act e, nello specifico, il D.Lgs. 23/2015).

In particolare, in tali ipotesi, i dipendenti sottoposti alla c.d. tutela reale hanno diritto, ex art. 18, comma 7, della L. 300/1970, al pagamento di un’indennità risarcitoria determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Diversamente, i lavoratori sottoposti al c.d. contratto a tutele crescenti si vedranno applicata, ex art. 10 del D.Lgs. 23/2015, una tutela economica crescente di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.

Anche la Suprema Corte, con la sentenza n. 30865 del 26.11.2019, ha avuto modo di affermare che, nel caso in cui la procedura di licenziamento collettivo sia affetta da vizi formali, deve trovare applicazione la tutela indennitaria, dovendosi riconoscere la tutela reintegratoria solo in presenza di vizi procedurali che abbiano, in concreto, determinato la violazione dei criteri di scelta (si veda: Cassazione: le conseguenze in caso di violazioni formali nel licenziamento collettivo).

 

4. I criteri di scelta

Al termine della fase amministrativa, in ipotesi di mancato accordo ovvero di accordo che preveda una parziale o totale riduzione di personale, onere dell’azienda – prima di adottare i singoli atti di recesso unilaterale – è quello di individuare i lavoratori da licenziare.
Detta scelta deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico produttive e organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti dagli accordi stipulati con i sindacati di cui all'art. 4, comma 2, della L. 223/1991.
Residualmente, invece, in mancanza di detti accordi, parte datoriale deve operare i licenziamenti nel rispetto dei seguenti criteri - previsti ex lege, dall’art. 5, comma 1, L. 223/1991 - in concorso tra loro:
a) carichi di famiglia;
b) anzianità;
c) esigenze tecnico produttive ed organizzative.

4.1. I criteri di scelta concordati

Nell’ambito della consultazione sindacale, le parti possono quindi liberamente determinare i criteri ritenuti più coretti per l’individuazione dei lavoratori da licenziare.
Sul punto, è utile richiamare i seguenti principi emanati dalla giurisprudenza:
1) i criteri di scelta legati alla volontarietà e alla prossimità alla pensione sono di per sé legittimi ove concordati con il sindacato, a condizione che nella loro concreta applicazione sia esclusa qualsiasi discrezionalità da parte del datore di lavoro (Cass. sentenza n. 24755 del 08.10.2018; Cass. sentenza n. 12197 del 06.06.2011);
2) nella determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare occorre rispettare, non solo il principio di non discriminazione, sancito dall’art. 15 della L. 300/1970, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati - oltre a dover essere coerenti con il fine dell’istituto della mobilità dei lavoratori - devono avere i caratteri dell’obiettività e della generalità (Cass. sentenza n. 6959 del 20.03.2013);
3) nell’individuazione dei criteri è necessario tener conto anche del numero di donne licenziabili. Infatti - al fine di evitare una discriminazione indiretta - non è possibile licenziare una percentuale di donne superiore a quella della manodopera femminile impiegata nell’ambito sottoposto alla procedura (Cass. ordinanza n. 14254 del 24.05.2019; si veda: Cassazione: licenziamenti collettivi e discriminazione delle lavoratrici donne);
4) nelle procedure collettive, al fine di individuare i lavoratori da licenziare, il criterio dell’alta specializzazione in funzione delle esigenze aziendali, contenuto nell’accordo sindacale di cui all’art. 4 della L. 223/1991, deve prevalere su quelli, previsti per legge, inerenti l’anzianità ed i carichi di famiglia (Cass. sentenza n. 31872 del 10.12.2018; si veda: Cassazione: il criterio della competenza prevale su quelli di anzianità e carichi di famiglia);
5) i criteri concordati - oltre a dover essere coerenti con il fine dell'istituto della mobilità dei lavoratori - devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità, operando senza discriminazioni tra i dipendenti, cercando di ridurre al minimo il cosiddetto «impatto sociale», e scegliendo, nei limiti in cui ciò sia consentito dalle esigenze oggettive a fondamento della riduzione del personale, di espellere i lavoratori che, per vari motivi, anche personali, subiscono ragionevolmente un danno comparativamente minore. Occorre, quindi, garantire contemporaneamente sia la coerenza del licenziamento collettivo con la sua legittima finalità (evitare cioè un "eccesso" o "sviamento" del potere datoriale), sia l'obiettivo (complementare) della tendenziale riduzione al minimo del cosiddetto "impatto sociale" (Cass. sentenza n. 6959 del 20.03.2013).

Principio fondamentale è che il datore di lavoro, una volta stabiliti nell’accordo con le OO.SS. i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, non può derogare a tali criteri.
Ciò in quanto tale condotta non consentirebbe alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza e la trasparenza dell'operazione, non ponendo, dunque, il dipendente nella condizione di poter eventualmente contestare l'illegittimità della misura espulsiva (Cass. sentenza n. 23609 del 18.11.2015).

4.2. I criteri di scelta previsti dalla legge

Diversamente, come accennato, in mancanza di accordo sindacale sui criteri di scelta, l’azienda procede all’individuazione dei lavoratori da licenziare nel rispetto dei criteri di legge: carichi di famiglia; anzianità; esigenze tecnico-produttive ed organizzative.
Anche l’applicazione dei predetti criteri, ha creato non pochi problemi interpretativi, cui ha fatto fronte spesso la giurisprudenza di legittimità.

In particolare, la Cassazione ha sostenuto che nell’interpretazione del criterio di scelta dei carichi di famiglia, deve tenersi conto della situazione economica effettiva dei singoli lavoratori, che non può limitarsi al numero di persone fiscalmente a carico (Cass. sentenza n. 20464 del 02.08.2018; si veda: Cassazione: nei licenziamenti collettivi il criterio dei carichi di famiglia va valutato sotto l’aspetto economico e non da un punto di vista fiscale).
Detto criterio implica una valutazione elastica, che tenga conto della concreta situazione economica dei dipendenti a tutela di quelli socialmente più deboli. Con la conseguenza che il riferimento ai carichi di famiglia va individuato in relazione al fabbisogno determinato dalla situazione familiare e, quindi, dalle persone effettivamente a carico e non da quelle risultanti da altri parametri che potrebbero non essere esaustivi (Cass. sentenza n. 10996 del 26.04.2021; si veda: Cassazione: il criterio dei carichi di famiglia deve essere interpretato in maniera elastica).

Per quel che riguarda il criterio dell’anzianità, occorre prendere a riferimento quella aziendale e non quella anagrafica.

Infine, quanto alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, le stesse devono risultare coerenti con quanto complessivamente illustrato nella comunicazione di avvio della procedura e, in particolare, con i motivi che determinano l’esubero di personale.
Sul punto, è utile richiamare i seguenti arresti giurisprudenziali:
1) nell’ambito dei licenziamenti collettivi, l’analisi della fungibilità dei profili professionali in esubero deve essere operata tenendo conto non delle mansioni affidate ai lavoratori, ma dell’esperienza e della professionalità dei medesimi (Cass. ordinanza n. 24882 del 04.10.2019; si veda: Cassazione: nei licenziamenti collettivi, la fungibilità dei lavoratori deve essere verificata in base alla loro professionalità);
2) nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo - a seguito di una riorganizzazione aziendale basata sulla soppressione di determinate posizioni - non è legittima la scelta del lavoratore da licenziare, se questi sia stato assegnato ad una di tali posizioni in violazione dell’art. 2103 c.c. (CdA Milano sentenza n. 301 del 08.02.2019; si veda: Corte d’Appello di Milano: illegittimo il licenziamento collettivo irrogato al lavoratore demansionato).

Sempre secondo la Suprema Corte, infine, nell’applicazione dei criteri previsti ex lege, l’azienda può anche legittimamente predisporre una griglia, basata su fattori o criteri oggettivi e predeterminati, per comparare i lavoratori al fine di scegliere quelli da licenziare (Cass. sentenza n. 7591 del 18.03.2019; si veda: Cassazione: nei licenziamenti collettivi legittima la scelta dei lavoratori basata su criteri oggettivi e predeterminati).

4.3. L’ambito aziendale di riferimento

Ulteriore problema cui deve far fronte l’azienda che intende avviare una procedura collettiva è quello di individuare la platea dei lavoratori che potrebbero essere interessati dal licenziamento.
In particolare due sono le situazioni che pongono dubbi su quali dipendenti debbano essere comparati in vista del recesso: da un lato, le ipotesi di ristrutturazione riguardanti soltanto una specifica unità o settore aziendale e, dall’altro, i licenziamenti irrogati da un’impresa facente parte di un gruppo.

Venendo all’analisi della prima fattispecie, si rileva che la giurisprudenza di legittimità ha assunto una posizione pressoché univoca, affermando a più riprese:
1) l’ambito di applicazione dei criteri di scelta può essere anche circoscritto rispetto all’intero complesso aziendale, limitandolo ad una singola unità produttiva, settore o ufficio dell’azienda, qualora ciò non sia frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma sia obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale (Cass. sentenza n. 12040 del 06.05.2021; Cass. sentenza n. 6147 del 14.03.2018; si veda: Cassazione: legittimo il licenziamento collettivo limitato solo ai dipendenti di alcune sedi);
2) ove la ristrutturazione interessi una specifica unità produttiva o settore, la comparazione dei lavoratori per individuare quelli da avviare a mobilità può essere limitata al personale addetto a quella unità o settore, salvo l'idoneità dei dipendenti del reparto, per il pregresso impiego in altri reparti, a occupare le posizioni lavorative dei colleghi a questi ultimi addetti, spettando ai lavoratori l'onere della deduzione e della prova della fungibilità nelle diverse mansioni (Cass. sentenza n. 349 del 10.01.2018);
3) la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale (Cass. ordinanza n. 25389 del 11.11.2020; si veda: Cassazione: il licenziamento collettivo può riguardare una sola sede aziendale?). Di contro, il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (Cass. sentenza n. 7591 del 18.03.2019; CdA Milano sentenza n. 1491 del 04.09.2019; si veda: Corte d’Appello di Milano: la limitazione della platea dei lavoratori destinatari del licenziamento collettivo);
4) l’individuazione dei lavoratori da licenziare nella sola unità produttiva soppressa (escludendo le altre sedi) richiede che le ragioni fondanti tale scelta - di carattere organizzativo e non frutto di unilaterale decisone del datore - siano individuate nella lettera di avvio della procedura, per garantire un effettivo confronto con le OO.SS. destinatarie della comunicazione, salva sempre la loro verifica (Cass. ordinanza n. 21306 del 05.10.2020; Cass. sentenza n. 31525 del 03.12.2019; si veda: Cassazione: quando è possibile limitare il licenziamento collettivo ad una sola unità produttiva).

Per ciò che concerne la seconda fattispecie – licenziamento collettivo irrogato da una società appartenete ad un gruppo – la giurisprudenza ha avuto modo di sostenere che, laddove sia ravvisabile una codatorialità da parte di più imprese facenti parte del medesimo gruppo, i criteri di scelta dei lavoratori da espellere devono essere estesi ai dipendenti di tutte le realtà aziendali coinvolte (Cass. sentenza n. 267 del 09.01.2019; si veda: Cassazione: gruppi di aziende, codatorialità e licenziamento collettivo).
Affermando, altresì, l’onere di redigere una graduatoria unica a livello nazionale al fine di scegliere i lavoratori in esubero, sulla base dei criteri concordati con le OO.SS. o previsti ex lege (Trib. Roma sentenza n. 673 del 30.01.2018; si veda: Tribunale di Roma: obbligo di redigere una graduatoria unica nazionale per l’individuazione dei dipendenti da licenziare ai sensi della l. 223/1991).

4.4. Conseguenze in caso di violazione dei criteri di scelta

In caso di violazione dei criteri di scelta opera una duplice tutela, a seconda che il dipendente illegittimamente licenziato sia stato assunto antecedentemente o successivamente al 07.03.2015.

Nel primo caso è, infatti, prevista, una tutela reintegratoria c.d. attenuata, che – ai sensi dell’art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori – prevede la reintegrazione nel posto di lavoro ed il riconoscimento di un’indennità risarcitoria che non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.

Diversamente nel secondo caso, è prevista una tutela meramente indennitaria, che – ai sensi degli artt. 3 e 10 del D.Lgs. 23/2015 – è pari a due mensilità per ogni anno di anzianità aziendale, con un range compreso tra un minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità.
È bene sottolineare che sia la Corte Costituzionale che la Corte di Giustizia europea si sono recentemente pronunciate in favore della correttezza del regime sanzionatorio previsto dal Jobs Act.
In particolare, la Consulta ha affermato che la legittimità della disciplina relativa al regime sanzionatorio nei recessi collettivi che prevede due regimi differenziati, in caso di violazione dei criteri di scelta (reintegra e tutela indennitaria) a seconda che i lavoratori licenziati siano stati assunti prima o dopo il 7.3.2015 (Corte Cost. sentenza n. 254 del 26.11.2020; si veda: Corte Costituzionale: inammissibili le questioni sul regime sanzionatorio previsto dal Jobs Act per i licenziamenti collettivi).
La Corte di Giustizia ha, invece, sostenuto che non è lesivo del diritto comunitario il doppio regime di tutela stabilito dal c.d. Jobs Act tra lavoratori assunti a tempo indeterminato prima e dopo il 7 marzo 2015, essendo tale scelta dettata dalla volontà di incentivare la stabilizzazione dei rapporti a termine (CGUE sentenza emessa, il 17.03.2021, nella causa C-652/19; si veda: Corte di Giustizia Europea: il regime di tutela previsto dal Jobs Act non è contrario al diritto comunitario).

La giurisprudenza, sul punto, ha avuto modo di sostenere - con la sentenza n. 9828 del 14.04.2021 -che l’annullamento del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati, ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione (si veda: Cassazione: legittimo il licenziamento collettivo se l’accordo sindacale penalizza gli addetti al reparto soppresso).
In altri termini, non può essere sollevata alcuna contestazione in merito dai dipendenti che, in ogni caso, sarebbero stati posti in mobilità (Cass. ordinanza n. 13871 del 22.05.2019; si veda: Cassazione: chi può chiedere l’annullabilità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta?).

Circa la prova della violazione dei criteri di scelta, la Suprema Corte ha, invece, affermato che grava sul datore l'onere di allegazione dei criteri e la prova della loro piena applicazione nei confronti dei dipendenti licenziati, incombendo, invece, sul prestatore l'onere di dimostrare l'illegittimità della scelta, con indicazione dei colleghi in relazione ai quali la stessa sarebbe stata falsamente o legittimamente realizzata (Cass. sentenza n. 20335 del 25.08.2017).

Infine, merita di essere citato un interessante precedente giurisprudenziale (Cass. ordinanza n. 22366 del 06.09.2019), secondo cui anche l'omessa indicazione dei criteri di scelta del personale in eccedenza da parte datoriale nella fase di consultazione, determina una violazione tale da riverberare i propri riflessi sulla legittimità del provvedimento espulsivo irrogato ed integra una violazione grave che porta alla reintegra del lavoratore licenziato (si veda: Cassazione: reintegra del lavoratore in caso di mancata indicazione dei criteri di scelta).

 

5. La comunicazione di chiusura della procedura

Una volta individuati i lavoratori eccedenti, l’azienda deve comunicare per iscritto a ciascuno di essi il recesso, nel rispetto dei normali termini di preavviso.
È bene sottolineare che la facoltà di licenziare deve essere esercitata da parte datoriale entro 120 giorni dalla conclusione della procedura.

In ogni caso – come già accennato nel precedente punto 3.4 – entro 7 giorni dalla comunicazione dei licenziamenti, l’azienda è tenuta ad inviare, all’Ufficio amministrativo competente, alla commissione regionale per l’impiego nonché alle organizzazioni sindacali interessate, l’informativa contenente l’elenco dei lavoratori licenziati, con l'indicazione per ciascun soggetto del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell'età, del carico di famiglia, nonché con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta (art. 4, comma 9, L. 223/1991).

In particolare, il datore deve indicare puntualmente i criteri di scelta dei lavoratori licenziati e le modalità applicative dei criteri stessi, in modo che l’informativa in questione raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre il lavoratore in grado di percepire perché lui - e non altri dipendenti - sia stato destinatario del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva, sostenendo che, sulla base dei comunicati criteri di selezione, altri colleghi - e non lui - avrebbero dovuto essere licenziati (Cass. sentenza n. 19576 del 26.08.2013).

Inoltre, a detta dei Giudici di legittimità, non è sufficiente la trasmissione dell'elenco dei lavoratori licenziati e la comunicazione dei criteri di scelta concordati con le organizzazioni sindacali, mentre è necessario verificare se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti siano stati inseriti nella categoria da scrutinare e, nel caso in cui gli stessi siano in numero superiore ai previsti licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa per l'individuazione dei dipendenti da licenziare (Cass. sentenza n. 2298 del 03.03.2014).

Infine, giova rilevare che l’azienda è tenuta ad allegare alla comunicazione in questione l’elenco di tutti i dipendenti fra i quali è stata operata la scelta. Allegazione non necessaria qualora il criterio di scelta, individuato in sede di accordo sindacale, sia unico e consista nel possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione di anzianità o vecchiaia. In tale ipotesi, infatti, la natura oggettiva del predetto criterio rende superflua la comparazione con i lavoratori privi del requisito stesso (Cass. sentenza n. 22873 del 08.10.2013).

 

6. La posizione dei dirigenti

Per molti anni i dirigenti sono stati esclusi dall’ambito di applicazione delle procedure di licenziamento collettivo di cui agli artt. 4 e 24 della L. 223/1991. Ciò, ha portato l’Italia a subire una condanna ad opera della Corte di Giustizia Europea, la quale ha sostenuto che l’esclusione dei dirigenti dalla procedura - con particolare riferimento alle fasi di comunicazione preventiva e consultazione (esame congiunto) dei rappresentanti dei lavoratori per il raggiungimento di un accordo - determina il non corretto recepimento della Direttiva n. 98/1959 (CGUE sentenza del 13.02.2014 emessa nella causa C-596/12).

A partire dal 25.11.2014, dunque, come chiaramente affermato dalla Suprema Corte (Cass. sentenza n. 5513 del 08.03.2018), la materia è regolata dai seguenti principi:
a) i dirigenti vanno conteggiati sia nel calcolo dei 5 lavoratori per i quali l’impresa intende procedere al licenziamento, sia nel calcolo dell’organico che determina il superamento della soglia dei 15 dipendenti;
b) nei confronti dei dirigenti devono essere applicate le regole che stabiliscono l’obbligo di avviare la procedura mediante una comunicazione scritta, diretta al sindacato, nella quale sono descritti gli aspetti salienti della riduzione di personale: ne deriva che la lettera di avvio deve essere inviata anche alle organizzazioni sindacali che, nel settore in cui opera il datore di lavoro, sono comparativamente più rappresentative per il personale dirigenziale;
c) anche l’individuazione dei dirigenti da licenziare dovrà essere operata tenendo conto, in concorso tra loro, dei criteri delle esigenze tecnico-organizzative, dell’anzianità aziendale e dei carichi di famiglia (gli eventuali accordi sindacali stipulati all’esito della procedura di riduzione del personale potranno definire criteri di scelta diversi da quelli legali, che avranno priorità su questi);
d) per i casi di violazione delle procedure o dei criteri di scelta, il datore di lavoro è tenuto al pagamento in favore del dirigente di un’indennità in misura compresa tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
e) continuano invece a non applicarsi nei confronti dei dirigenti le norme in materia di contributo di ingresso, iscrizione nelle liste di mobilità e godimento dei relativi trattamenti (art. 24 della L. 223/1991; art. 16 della L. 161/2014).

Risulta interessante notare che la giurisprudenza di merito ha ritenuto che il licenziamento del dirigente a causa di riorganizzazione o riduzione dell'attività aziendale che comporti almeno 5 recessi, debba essere intimato all'esito della procedura ex art. 4 della L. 223/1991, anche se irrogato prima del 24.11.2014 (data di pubblicazione della citata sentenza della Corte di Giustizia UE) (Trib. Vicenza sentenza del 05.07.2016).

 

7. La situazione attuale

In conclusione, è bene ricordare che le procedure collettive sono attualmente vietate dal marzo 2020 e fino (ad almeno) il 30 giugno prossimo, in ragione della normativa emergenziale.
Allorquando il blocco dei licenziamenti cesserà, le aziende che si vedranno costrette ad avviare procedure collettive dovranno tenere conto dei su indicati principi, al fine di evitare di incappare in declaratorie di illegittimità dei recessi.

Avv. Matteo Farnetani - Fieldfisher