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L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori nella giurisprudenza


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Dopo anni di diatribe e discussioni circa l’opportunità o meno di modificare l’art. 18 della legge 20 Maggio 1970 n. 300, nel 2012 la legge n. 92, meglio conosciuta come legge Fornero, ha apportato al testo del predetto articolo delle rilevanti modifiche, le quali hanno generato nuovi e numerosi problemi interpretativi, parzialmente risolti da recenti arresti giurisprudenziali.

1. Licenziamento nullo o inefficace perché intimato in forma orale

I commi 1°, 2° e 3° dell’art. 18, l. 300/1970, così come modificati dalla legge 92/2012, recitano testualmente:
“1. Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.

2. Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

3. Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione”.

Il legislatore equipara, pertanto, in ordine alle tutele previste, tipi di recesso diversi tra loro.

Il primo ad essere trattato è il licenziamento discriminatorio, dettato, cioè, da condizioni particolari e personali del lavoratore, quali, a titolo esemplificativo ma non certo esaustivo, la religione professata, la razza, il sesso, la lingua, l’età.
Tale tipo di licenziamento illegittimo è il riflesso della violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo, secondo le quali la discriminazione opera in modo oggettivo e consiste in un trattamento deteriore riservato al lavoratore in conseguenza del fatto di appartenere ad una categoria protetta tipizzata, a prescindere da ogni intenzione datoriale di vessare il lavoratore per le stesse ragioni.
Per la sua integrazione, pertanto, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito, né la discriminatorietà può essere esclusa per la concorrenza di un’altra finalità legittima.
Per ciò che concerne l’onere della prova, infine, il lavoratore deve dimostrare l’esistenza a suo danno di un trattamento deteriore rispetto a quello che astrattamente sarebbe stato riservato a un terzo soggetto privo dello stesso fattore di protezione, rispetto al quale operare il giudizio di comparazione.
Ed una volta che il lavoratore ha fornito tale prova (c.d. statistica), spetterà, poi, al datore l’onere di provare l’insussistenza oggettiva della discriminazione (Cass., Sez. Lav., 5 Aprile 2016, n. 6575).

Proseguendo nell’analisi del comma 1 dell’art. 18, ci si imbatte nel licenziamento irrogato per causa di matrimonio, ossia disposto nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio ad un anno dopo la celebrazione dello stesso.
Ogni licenziamento ricadente in tale lasso temporale si presume nullo, anche a prescindere dal momento in cui la decisione di recesso sia stata attuata (Cass., Sez. Lav., 3 Dicembre 2013, n. 27055).

Ugualmente nullo è il licenziamento irrogato in violazione delle disposizioni dettate a tutela della genitorialità, comminato dall'inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno d’età del bambino ovvero causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale.
In tale periodo, per ottenere la relativa efficacia, anche le dimissioni presentate dai genitori-lavoratori devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del Lavoro (Cass., Sez. Lav., 11 Luglio 2012, n. 11676).

Categoria più dibattuta è quella del licenziamento ritorsivo, integrato da un’ingiusta e arbitraria reazione del datore di lavoro ad un comportamento legittimo del lavoratore.
La fattispecie in questione ricorre quando il provvedimento espulsivo assume i connotati dell’ingiustificata vendetta ad un comportamento del lavoratore in realtà pienamente legittimo ed ammesso dalla normativa vigente.
Il suddetto motivo ritorsivo, previsto nell’ordinamento interno dall’art. 1345 c.c., deve essere illecito, esclusivo e determinante, profilo che quindi rende rilevante anche la volontà datoriale, ovvero l’intenzione posta a base del licenziamento.
Ai fini della declaratoria di nullità del licenziamento, il motivo ritorsivo deve, pertanto, aver animato il recesso ed il relativo onere della prova ricade per intero a carico del lavoratore, che deve dimostrare gli elementi oggettivi e soggettivi della condotta datoriale, in sé arbitraria ed improntata ad intento di rappresaglia, anche avvalendosi di presunzioni gravi, precise e concordanti (ex plurimis: Cass., Sez. Lav., 3 Dicembre 2015, n. 24648).

Ultimo tipo di recesso preso in considerazione dal 1° comma dell’art. 18 è il licenziamento intimato oralmente, il quale è radicalmente inefficace, per inosservanza dell'onere della forma scritta e come tale è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro.
Ne consegue che la radicale inefficacia del licenziamento orale prescinde dalla natura stessa del recesso, trovando applicazione l'ordinario regime risarcitorio, con obbligo di corrispondere, trattandosi di rapporto di lavoro in atto, le retribuzioni non percepite a causa dell'inadempimento datoriale (Cass., Sez. Lav., 24 Gennaio 2017, n. 1744).

1.1. La tutela reale piena

I recessi presi in considerazione dal 1° comma dell’art. 18, siano essi nulli od inefficaci, portano tutti alla medesima conseguenza: la c.d. tutela reale piena.
Gli stessi, infatti, non hanno effetti estintivi, producendo solo una mera interruzione di fatto del rapporto.
Ciò è avvalorato dalla formulazione della norma, la quale opera una vera e propria ricomposizione tra il periodo antecedente e quello successivo alla sentenza, con continuità del rapporto e ricostruzione integrale degli effetti, ivi compresa la posizione previdenziale del lavoratore.

L’accertamento giudiziale della nullità od inefficacia del licenziamento comporta per il datore l’obbligo di reintegrare il prestatore nel proprio posto di lavoro.
La ratio sottesa alla suddetta disposizione è quella di assicurare al lavoratore illegittimamente estromesso una tutela in forma specifica, consistente, appunto, nella sua effettiva riammissione in azienda con conseguente ripresa della normale utilizzazione della prestazione.

Ai sensi del 2° comma dell’art. 18, la reintegra nel proprio posto di lavoro non è l’unica tutela che il legislatore riconosce al dipendente vittima di un recesso nullo od inefficace.
Il medesimo, infatti, ha diritto anche ad un risarcimento per il danno subito, consistente in un’indennità commisurata all’ultima retribuzione percepita, per il periodo che va dal giorno del licenziamento a quello dell’effettivo ripristino del rapporto di lavoro.
Tale somma ha una funzione sia reintegratoria delle utilità perdute che sanzionatoria, come dimostra il fatto che la norma prevede un minimo di 5 mensilità dovute, in ogni caso, quale penale irriducibile assistita da una presunzione assoluta di danno (Corte Costituzionale, 23 Dicembre 1998, n. 420).

Fermo restando il diritto al risarcimento del danno, il prestatore, ai sensi del comma 3 dell’art. 18, in luogo della reintegra nel proprio posto di lavora può optare, entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, per un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, che comporta la risoluzione del rapporto.

2. Licenziamento disciplinare illegittimo

I commi 4°, 5° e 6° dell’art. 18, l. 300/1970, così come modificati dalla legge 92/2012, recitano testualmente:
“4. Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest'ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d'ufficio alla gestione corrispondente all'attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma.

5. Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.

6. Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all'articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo”.

Il quadro delineato dal legislatore del 2012 prevede quale regola, in caso di licenziamenti disciplinari illegittimi, il riconoscimento di una tutela indennitaria risarcitoria (ricompresa nel range 12-24 mensilità) e quale eccezione una tutela reale ridotta (risarcimento fino ad un massimo di 12 mensilità) in caso di insussistenza del fatto contestato od in una riconducibilità dello stesso, da parte del contratto collettivo, tra le condotte punibili con sanzione conservativa.

Il Giudicante si trova, quindi, di fronte ad una duplice operazione.
In prima battuta, deve, infatti, verificare se sussiste o meno la giusta causa od il giustificato motivo soggettivo posto alla base del recesso datoriale.
Laddove tale operazione conduca ad una risposta positiva, nulla questio.
In caso contrario, invece, dinnanzi all’illegittimità della sanzione espulsiva, è necessario un approfondimento, da parte del Giudice, della prima verifica, al fine di stabilire quale sanzione sia applicabile al caso di specie.

2.1. Insussistenza del fatto contestato

Una delle ipotesi in cui il legislatore prevede la tutela reintegratoria è quella inerente alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento.
L’insussistenza si palesa non solo quando il datore abbia rivolto al lavoratore un’accusa infondata, basata, cioè, su un fatto non vero, ma anche quando il fatto contestato, pur essendo vero, non assuma rilevanza disciplinare.

La giurisprudenza, con una pronuncia (poi superata) in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento, ha stabilito che la stessa “si risolve e si esaurisce nell'accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato, stante la distinzione tra esistenza del fatto e sua qualificazione operata dall’art. 18” (Cass., Sez. Lav., 6 Novembre 2014, n. 23669).
La suddetta pronuncia distingue, quindi, il fatto materiale dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, riconoscendo la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, esulando dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato.

Successivamente la posizione della giurisprudenza si è evoluta.
La Cassazione, infatti, più recentemente ha statuito che l'insussistenza del fatto contestato comprende anche:
- il fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità e, quindi, sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare nonché il fatto non imputabile al lavoratore (Cass., Sez. Lav., 12 Maggio 2016, n. 10019);
- il fatto contestato, che presupponga anche un ulteriore elemento del quale non sia stata data la prova (come, ad esempio la gravità del danno, allorquando il CCNL consideri sanzionabili con il licenziamento determinati comportamenti che producano “un grave nocumento morale o materiale all’impresa) (Cass., Sez. Lav., 13 Ottobre 2015, n. 20545). 

In tutte queste circostanze (fatto storico/materiale non sussistente; fatto storico/materiale sussistente ma privo del carattere della illiceità disciplinare; fatto storico/materiale sussistente ma non imputabile al lavoratore; fatto storico/materiale sussistente del quale non sia provato il richiesto grado di dannosità a carico dell’azienda) l’accertata insussistenza del fatto deve avere, a giudizio della Corte, quale conseguenza la reintegra del prestatore nel proprio posto di lavoro (Cass., Sez. Lav., 20 Settembre 2016, n. 18418).

2.1.1. Assenza, genericità ed intempestività della contestazione

La giurisprudenza di legittimità ha, da tempo, affermato che il radicale difetto di contestazione dell’infrazione, elemento essenziale di garanzia del procedimento disciplinare, determina l’inesistenza del procedimento stesso, con applicazione della tutela reintegratoria.
Vi sarebbe, infatti, un difetto assoluto di giustificazione del licenziamento poiché, non esistendo alcun fatto contestato, lo stesso non potrebbe in alcun modo ritenersi sussistente (Cass., Sez. Lav., 14 Dicembre 2016, n. 25745).

Per la Suprema Corte si rientra nell’ambito d’applicazione della tutela reintegratoria anche laddove la contestazione dell’addebito non assurga al carattere della specificità.
Infatti, qualora non siano fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto nel quale il datore di lavoro abbia ravvisato delle infrazioni disciplinari, lo stesso deve ritenersi non sussistente (Cass., Sez. Lav., 12 Maggio 2015, n. 9615).

Più complessa risulta, invece, la questione interpretativa in presenza di una contestazione disciplinare tardiva, che ha generato, negli anni, due orientamenti giurisprudenziali contrapposti.
Secondo un primo orientamento, l’immediatezza della contestazione costituisce un elemento essenziale del licenziamento, la cui mancanza consente l’applicazione della tutela reintegratoria, dal momento che il fatto non contestato idoneamente deve essere considerato insussistente in base all’articolo 18 l. 300/1970, non possedendo l’idoneità ad essere verificato in giudizio (Cass., Sez. Lav., 31 Gennaio 2017, n. 2513).
Secondo l’altro indirizzo, invece, si deve negare carattere sostanziale al vizio della contestazione tardiva, non essendo attinente all’insussistenza del fatto contestato in senso né materiale né giuridico.
Quest’ultima sarebbe, infatti, una mera violazione procedurale con applicazione, quindi, della sola tutela indennitaria (Cass., Sez. Lav., 13 Ottobre 2015, n. 20540), così come previsto anche in caso di durata del procedimento disciplinare eccedente i limiti della ragionevolezza (Cass., Sez. Lav., 26 Agosto 2016, n. 17371).
Tale contrasto è stato composto da una recente pronuncia con cui le Sezioni Unite hanno statuito che, diversamente da quanto affermato nei precedenti arresti, in caso di non tempestività dell’addebito disciplinare, deve trovare applicazione la tutela indennitaria c.d. forte, prevista dal comma 5 dell’art. 18 L. 200/1970, con conseguente riconoscimento al lavoratore di un’indennità ricompresa tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Ciò per due ordini di motivi: in primo luogo, perché la tardività della contestazione disciplinare pone a serio rischio l’esercizio del legittimo diritto di difesa del lavoratore, impedendo al medesimo di contrastare efficacemente il contenuto degli addebiti ricevuti; in secondo luogo, perché il decorso di un lasso temporale eccessivo tra la conoscenza dei fatti disciplinarmente rilevanti da parte del datore di lavoro e la contestazione dei medesimi al lavoratore compromette il legittimo affidamento che il prestatore può aver maturato in ordine all’assenza di rilevanza disciplinare dei fatti imputatigli e alla conseguente rinuncia del datore di lavoro a muovere nei suoi confronti una contestazione disciplinare (Cass., Sez. Unite, 27 Dicembre 2017, n. 30985; sul punto si veda: Cassazione: La contestazione intempestiva comporta l’applicazione della tutela indennitaria ex art. 18, c.5, L. 300/1970).

2.2. Il fatto contestato rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa

Il legislatore della riforma ha previsto l’illegittimità del licenziamento disciplinare, non solo nei casi, sovra descritti, in cui il fatto contestato sia insussistente, ma anche laddove l’addebito riguardi una condotta punibile con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari.
Il datore di lavoro, pertanto, non può irrogare un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo nell'ipotesi in cui lo stesso costituisca una sanzione più grave rispetto a quella contemplata dalle norme pattizie applicabile alla fattispecie in relazione ad una determinata infrazione (Cass., Sez. Lav., 18 Marzo 2014, n. 6222).
Sul punto la giurisprudenza ha statuito, altresì, che, laddove le tipizzazioni contrattuali siano generiche o ambigue, permane in capo al giudice un margine di valutazione residuale.
Qualora, invece, le previsioni del CCNL prevedano esplicitamente per il fatto oggetto di causa una sanzione conservativa, le stesse tipizzazioni vincolano il giudice, che non può derogarle in pejus nei confronti del prestatore (Cass., Sez. Lav., 6 Luglio 2016, n. 13787).

2.3. La tutela reale ridotta

Conseguenza dell’illegittimità del licenziamento disciplinare, in caso insussistenza del fatto contestato ovvero perché lo stesso rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, è la c.d. tutela reale ridotta. Spetta, pertanto, al dipendente vittima dell’illecito recesso datoriale sia la reintegra nel proprio posto di lavoro che un’indennità risarcitoria (vale a dire con funzione risarcitoria, ma non connessa al danno effettivo), commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto percepita.
L'indennità, però, trova una limitazione nella lettera del 4° comma dell’art. 18, il quale prevede che non possa essere superiore a 12 mensilità: da qui l’accezione di tutela reale ridotta per contraddistinguerla da quella piena, che non soffre di alcuna limitazione, prevista, invece, come detto, dalla medesima norma in caso di licenziamento nullo od inefficace perché intimato in forma orale.
La tutela reale ridotta è prevista, altresì, ai sensi del 7° comma dell’art. 18, in caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto (in violazione dell’art. 2110 c.c.) o motivato da inidoneità fisica o psichica del lavoratore, che seppur qualificati espressamente in termini di giustificato motivo oggettivo godono della medesima tutela dei recessi disciplinari (Cass., Sez. Lav., 5 Aprile 2017, n. 8834).

2.4. La tutela indennitaria forte

Al di fuori delle due ipotesi di cui sopra, ovvero allorquando sia assodato che il fatto addebitato al lavoratore sussiste e non rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, il giudice deve valutare se gli elementi fattuali forniti dal datore, che ha l’onere della prova in ordine alla giustificazione del recesso, integrino o meno gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo.
In caso di risposta affermativa ovviamente vi sarà una declaratoria di legittimità della sanzione espulsiva.
Contrariamente, qualora la giustificazione addotta non sia ritenuta sufficiente a legittimare il licenziamento, il giudice dovrà dichiarare comunque risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del recesso, che sarà, quindi ritenuto valido.
A fronte dell’ingiustificatezza del licenziamento, il legislatore riconosce al lavoratore il diritto ad ottenere un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La quantificazione dell’indennità deve tener conto di un pluralità di fattori, nello specifico: dell’anzianità del lavoratore (criterio prevalente, presumibilmente riferito alla anzianità di servizio), del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.
La tutela indennitaria forte, che nella complessiva disciplina dell'art. 18 rappresenta la regola, ricomprende, anche secondo la giurisprudenza, tutte le altre ipotesi di licenziamento disciplinare inefficace non riconducibili nell’alveo delle tutele previste dal precedente comma 4 dell’art. 18 (Cass., Sez. Lav., 25 Maggio 2017, n. 13178).

2.5. Vizi formali e procedurali

Il 6° comma dell’art. 18 prevede, infine, un’ulteriore ipotesi di licenziamento disciplinare inefficace.
Nello specifico, la succitata disposizione opera esclusivamente in tre distinte ipotesi:
- una formale, attinente al caso in cui il giudice accerti la violazione del requisito della contestuale comunicazione della motivazione posta alla base del recesso,ai sensi dell’art. 2, comma 2, della l. 604/1966 e successive modificazioni;
- due procedurali, per violazione, da un lato, della procedura conciliativa prevista obbligatoriamente, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dall' art. 7 della l. n. 604/1966 (così come modificato dalla l. 92/2012) e, dall’altro, della procedura di cui all'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, relativa all’applicazione delle sanzioni disciplinari (Cass., Sez. Lav., 18 Dicembre 2017, n. 30323).
In ordine a quest’ultima circostanza, è, a titolo esemplificativo, interessante notare come la giurisprudenza di legittimità abbia statuito che vi sia una violazione dell’art. 7 della l. 300/1970 ogni qualvolta sia stato irrogato un licenziamento disciplinare da un’azienda che non abbia affisso il codice disciplinare, a meno che il comportamento sanzionato sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, in quanto in tal caso il dipendente ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta (Cass., Sez. Lav., 29 Agosto 2014, n. 18462).

2.5.1. La tutela indennitaria debole

Conseguenza della declaratoria di inefficacia del licenziamento per vizi formali o procedurali, di cui al 6° comma dell’art. 18 della l. 300/1970, così come modificato dalla riforma Fornero, è la risoluzione del rapporto ed il riconoscimento a favore del lavoratore di un’indennità onnicomprensiva.
La stessa definita tutela indennitaria debole, perché ridotta rispetto all’ammontare dell’indennità prevista dal precedente comma 5, è determinata tra un minimo di 6 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal dipendente, con determinazione da parte del giudice, sul quale la legge fa gravare l’onere di specifica motivazione.
La disciplina in esame si chiude, comunque, con una clausola di salvaguardia, posto che il legislatore della riforma prevede che laddove al vizio formale-procedurale si sovrapponga un vizio sostanziale, debbano trovare applicazione le tutele più favorevoli per il prestatore previste dai precedenti commi dell’art. 18.

3. Licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo

Il comma 7° dell’art. 18, l. 300/1970, così come modificato dalla legge 92/2012, recita testualmente:

7. Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo”.

Il richiamato motivo oggettivo di licenziamento è integrato, a mente dell’art. 3 della legge 604/1966, da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Si tratta evidentemente di una clausola generale di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa ed in ultima istanza dal giudice.

Il primo problema emerso, a tal proposito, riguarda la possibilità, o meno, per il giudice di sindacare, ai fini della valutazione della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di recesso, il merito della scelta imprenditoriale posta alla base della decisione datoriale.
La giurisprudenza, ormai da tempo, si è assestata sulla posizione secondo la quale deve essere preclusa al giudicante la valutazione dell’opportunità economico-organizzativa della scelta dell’imprenditore, in nome della garanzia costituzionale della libertà di iniziativa economica privata (art. 41, comma 1, Cost.), che consente al medesimo di decidere di ristrutturare/riorganizzare o cessare la propria attività (ex multis: Cass., Sez. Lav., 10 Maggio 2016, n. 9467).
Detto concetto è stato ribadito anche dal legislatore nel primo comma dell’art. 30 della legge 183/2010, secondo cui “… il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro …”.

Pertanto, attualmente, la verifica che il giudice deve compiere attiene a:
a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente;
b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali, insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati, diretti ad incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa;
c) l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse (Tribunale Roma, Sez. Lav., 13 Marzo 2018).

Andando per ordine, dunque, il datore deve in primis provare la reale soppressione del posto cui era addetto il lavoratore licenziato.
Ciò per la giurisprudenza di legittimità non significa necessariamente soppressione di tutte la mansioni svolte da quest’ultimo (Cass., Sez. Lav., 6 Luglio 2012, n. 11402), potendo la scelta organizzativa consistere nella loro distribuzione tra altri dipendenti già in servizio, anche mediante l’accorpamento in una diversa posizione lavorativa (Cass., Sez. Lav., 21 Luglio 2016, n. 15082), ovvero nella loro esternalizzazione, con affidamento a soggetti terzi con i quali l’azienda stipula un contratto d’appalto (Cass., Sez. Lav., 6 Dicembre 2016, n. 24983).

Il datore, inoltre, deve provare l’effettività e non pretestuosità della riorganizzazione aziendale oltre all’esistenza del nesso causale tra tale scelta ed il licenziamento.
Effettive e non pretestuose risultano, ovviamente, tutte quelle situazioni ove sia possibile accertare uno stato di crisi economica connessa alla contrazione dell’attività produttiva, come può accadere, ad esempio, per la scadenza di un contratto d’appalto (Cass.,Sez. Lav., 11 aprile 2018, n. 8973; sul punto si veda: Cassazione: legittimo il licenziamento per g.m.o. irrogato alla scadenza del contratto d’appalto).
Tuttavia, l’imprenditore non ha l’onere di dimostrare l'andamento economico negativo dell'azienda, che non costituisce un presupposto fattuale da accertare. È sufficiente, invece, che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro determinino un effettivo ridimensionamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa (Cass., Sez. Lav., 20 Aprile 2018, n. 9895; sul punto si veda: Cassazione: requisiti di validità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo).
Secondo la giurisprudenza tra le suddette ragioni produttive - organizzative, legittimanti il recesso, devono essere ricomprese anche quelle dirette a:
- ottenere una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa (Cass., Sez. Lav., 12 Aprile 2018, n. 9127; sul punto si veda: Cassazione: legittimo licenziamento per g.m.o. fondato non sulla crisi aziendale, ma su una ristrutturazione che porta alla soppressione del posto);
- salvaguardare la competitività nel settore in cui l’impresa opera (Cass., Sez. Lav., 7 Dicembre 2016, n. 25201);
- ridurre i costi di gestione al fine di incrementare i profitti (Cass., Sez. Lav., 17 Febbraio 2017, n. 4015).
Inoltre, come innanzi accennato, il datore deve provare che dalla ragione addotta sia effettivamente derivato, come conseguenza necessaria o comunque plausibile, il licenziamento di uno specifico lavoratore, ossia deve dimostrare la sussistenza di un nesso causale tra la scelta imprenditoriale ed il recesso disposto nei confronti del dipendente (ex ultimis: Cass., Sez. Lav., 9 Luglio 2018, n. 17984; sul punto si veda: Cassazione: condizioni di illegittimità del licenziamento per g.m.o.).

La prova delle suddette circostanze non è, tuttavia, sufficiente da sola ad integrare gli estremi del giustificato motivo oggettivo, essendo necessaria anche la dimostrazione, da parte del datore, della inutilizzabilità del lavoratore in altre posizioni equivalenti e comunque compatibili con la qualifica rivestita e con il contenuto professionale dell’attività cui era adibito o, in presenza del consenso del prestatore, anche inferiori rispetto a quelle svolte in precedenza (c.d. repechage; sul punto si veda la rassegna: Il repechage nella giurisprudenza).
Questo insieme di regole, se rigidamente inteso, potrebbe condurre a configurare il licenziamento per g.m.o. come una extrema ratio.
Tuttavia, l’impossibilità di utilizzare altrimenti il lavoratore è interpretata dai Giudici in senso relativo, posto che l’onere della prova gravante sul datore, che può adempierlo anche mediante il ricorso a presunzioni, viene considerato assolto ogniqualvolta lo stesso dimostri che il repechage comporterebbe misure di riorganizzazione complesse ed eccessivamente costose od ancora che la professionalità del dipendente licenziato non sia utilizzabile in alcun modo nell’organizzazione produttiva (da ultimo: Cass., Sez. Lav., 11 Maggio 2018, n. 11413; sul punto si veda: Cassazione: niente obbligo di repechage se le posizioni libere in azienda prevedono l’uso di tecnologie diverse da quelle conosciute dal lavoratore licenziato per g.m.o.).
In un recentissimo arresto, poi, la giurisprudenza si è spinta anche oltre, affermando che non incide nell’assolvimento del suddetto onere neanche la circostanza che, dopo il recesso, la società abbia provveduto ad assumere nuove risorse, a condizione che l’utilizzo delle stesse sia circoscritto ad un breve lasso di tempo (Cass., Sez. Lav., 25 Luglio 2018, n. 19731; sul punto si veda: Cassazione: licenziamento per g.m.o. legittimo anche se datore assume nuove risorse per circoscritti periodi di punta).

Il medesimo onere probatorio, secondo quanto statuito dai Giudici di legittimità, è previsto anche nel caso in cui il lavoratore sia dipendente di una piccola impresa, esclusa, in quanto tale, dall’alveo di applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (Cass., Sez. Lav., 22 Giugno 2018, n. 16572; sul punto si veda: Cassazione: le condizioni di legittimità del licenziamento per g.m.o. nelle piccole imprese).

3.1. Ipotesi di illegittimità

Il legislatore della riforma del 2012 ha previsto due differenti motivi di illegittimità dei licenziamenti irrogati per motivo oggettivo.
Nello specifico, nel novellato comma 7 dell’art. 18 in commento, sono previste due differenti tutele, graduate a seconda della gravità dell’infrazione commessa dalla parte datoriale, inerenti alla manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento ovvero a tutte le altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo.

Si rientra nella prima ipotesi qualora vi sia una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei sopra citati presupposti legittimanti il recesso per g.m.o.
La manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento concerne, infatti, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (Cass., Sez. Lav., 02 Maggio 2018, n. 10435).
Non vi è dubbio che rientri nell’alveo di detta clausola il caso di scuola in cui il licenziamento sia stato irrogato per la soppressione di un determinato posto di lavoro mai avvenuta nella realtà.
Decisamente più difficile, invece, l’interpretazione della citata formula utilizzata dal legislatore nella maggior parte dei casi concreti.
Pertanto, l’arduo compito dell’esegesi della norma è ricaduto sui Giudici di legittimità, i quali hanno statuito che rientrano in tale categoria soltanto i casi estremamente gravi in cui il fatto posto a base del licenziamento non sussiste in maniera manifesta, sì da evidenziare la chiara pretestuosità del recesso (Cass., Sez. Lav., 19 Gennaio 2018, n. 1373).
All’esito di tale interpretazione non pare dubitabile, dunque, che l'intenzione del legislatore della riforma del 2012 sia quella di riservare alla suddetta categoria una posizione residuale ed eccezionale.

La regola è rappresentata, invece, dalla seconda specie di illegittimità del licenziamento per g.m.o. inserita all’interno del novellato 7° comma dell’art. 18, ricomprendente “tutte le altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo”.
Si tratta evidentemente di una categoria generale nella quale rientrato tutte le ipotesi di recesso meno gravi, tra le quali, a titolo esemplificativo:
- il mancato assolvimento dell’onere probatorio unicamente sull’obbligo di repechage e non anche sull’altro presupposto (ragione produttiva/organizzativa) fondante il recesso (ancora Cass., Sez. Lav., 02 Maggio 2018, n. 10435; sul punto si veda: Cassazione: licenziamento per g.m.o., il mancato assolvimento dell’onere probatorio sull’obbligo di repechage comporta l’applicazione della sola tutela indennitaria);
- la carenza di prova in ordine alle ragioni oggettive poste a base del licenziamento, che non può rientrare nella manifesta insussistenza del fatto, integrata, invece, da una chiara ed evidente assenza delle ragioni de quibus (Cass., Sez. Lav., 25 Giugno 2018, n. 16702; sul punto si veda: Cassazione: in caso di mancata prova dei fatti posti alla base del licenziamento per g.m.o. scatta solo il risarcimento a favore del lavoratore);
- l’omessa applicazione, nella scelta del lavoratore da licenziare, dei criteri dei carichi di famiglia e dell’anzianità di sevizio, che seppur previsti in tema di licenziamento collettivo, per parte della giurisprudenza devono essere analogicamente applicati nell’ipotesi in cui il recesso per g.m.o. sia fondato sulla generica esigenza di riduzione di personale fungibile ed omogeneo (Cass., Sez. Lav., 25 Luglio 2018, n. 19732 e Cass., Sez. Lav., 25 Ottobre 2018, n. 27094; sul punto si veda: Cassazione: nel recesso per g.m.o. per riduzione del personale fungibile si applicano i criteri di scelta previsti per i licenziamenti collettivi e Cassazione: i criteri di scelta previsti per i licenziamenti collettivi si applicano per analogia anche ai recessi per g.m.o.).

3.1.1. Le tutele applicabili

Come innanzi accennato, le tutele previste a favore del lavoratore illegittimamente estromesso dall’azienda per motivo oggettivo, si differenziano a seconda che il giudice accerti la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” ovvero che riconduca il recesso nell’alveo delle “altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo”.
Soltanto nel primo caso il Giudicante può applicare la tutela reintegratoria (art. 18, comma 4, l. 300/1970: cfr. supra punto 2.3.), disponendo, altrimenti, la mera tutela indennitaria (art. 18, comma 5, l. 300/1970: cfr. supra punto 2.4.).

La prima è, pertanto, residuale rispetto alla seconda e viene applicata soltanto laddove il fatto posto a base del licenziamento non solo non sussista, ma anche a condizione che detta insussistenza sia manifesta.
L'intenzione del legislatore è quella quindi di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungano da eccezione alla regola (Cass., Sez. Lav., 18 Dicembre 2017, n. 30323).
Tuttavia, anche nell’ipotesi in cui venga accertato il requisito della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, residua in capo al giudice una certa discrezionalità in ordine alla possibilità di applicare o meno la tutela reintegratoria di cui al comma 4 dell’art. 18. Infatti, il medesimo, se al momento dell’adozione del provvedimento giudiziale, ritiene tale regime sanzionatorio non compatibile con la struttura organizzativa dell'impresa, reputandolo, dunque, eccessivamente oneroso per il datore, può optare per l'applicabilità della tutela indennitaria di cui al comma 5 (Cass., Sez. Lav., 10 Gennaio 2018, n. 331; sul punto si veda: Cassazione: Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: la tutela reintegratoria ha carattere residuale).

In tutti gli altri casi in cui, pur difettando il requisito della manifesta insussistenza del fatto, non ricorrano gli estremi del giustificato motivo di licenziamento, il giudice deve applicare la tutela prevista dal 5° comma dell’art. 18.
Per cui, dichiarato risolto il rapporto con effetto dalla data del recesso, condanna il datore a pagare al dipendente illegittimamente estromesso un'indennità risarcitoria onnicomprensiva compresa tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Ai fini della determinazione della suddetta indennità, tra il minimo ed il massimo previsti, deve tener conto, oltre che dei criteri di cui al citato 5° comma (anzianità del lavoratore, numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti), delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di conciliazione preventiva obbligatoria (Tribunale Milano, Sez. Lav., 20 Giugno 2017).

3.2. L’inidoneità fisica o psichica del lavoratore

Il legislatore ha esteso la disciplina prevista in caso di giustificato motivo oggettivo anche a vicende che, pur inerenti alla persona del lavoratore, incidono sull’organizzazione aziendale.
La prima ipotesi richiamata dalla norma in commento si sostanzia nell’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, in concreto incompatibile con la prosecuzione del rapporto per la sua definitività o per l’imprevedibilità della sua durata.
Trattandosi della perdita da parte del prestatore dell’idoneità fisica o psichica necessaria per svolgere le mansioni cui era adibito, la stessa non può essere qualificata come inadempimento imputabile a colpa del medesimo.
Pertanto, non potendo essere utilizzata la giustificazione soggettiva, il recesso deve essere basato su ragioni oggettive e come tale deve seguire i principi, innanzi citati, inerenti al g.m.o., ivi incluso l’obbligo di repechage.
Ne consegue che qualora, nonostante l’infermità, il lavoratore possa essere adibito a mansioni equivalenti o, se impossibile, anche inferiori, il recesso risulta ingiustificato.
Tuttavia, tale principio subisce una duplice limitazione: da un lato, tale diversa attività deve essere utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore, e, dall'altro, l'adeguamento deve essere sorretto dal consenso, nonché dall'interesse dello stesso lavoratore.
Nel caso in cui, quindi, il dipendente abbia manifestato, sia pure senza forme rituali, il suo consenso a svolgere mansioni inferiori, il datore di lavoro è tenuto a giustificare l'eventuale recesso, considerato comunque che egli non è tenuto ad adottare particolari misure tecniche per porsi in condizione di cooperare all'accettazione della prestazione lavorativa di soggetti affetti da infermità, che vada oltre il dovere di sicurezza imposto dalla legge (ex ultimis: Cass., Sez. Lav., 05 Aprile 2018, n. 8419; sul punto si veda: Cassazione: licenziamento legittimo per il lavoratore inidoneo alla prestazione se datore dimostra di non potergli mutare le mansioni senza particolari modifiche all’organizzazione aziendale).

A differenza di quanto visto nel paragrafo precedente, per quanto riguarda le tutele applicabili, il legislatore, in difetto della giustificazione oggettiva del recesso, consistente nell'inidoneità fisica o psichica del prestatore, ha previsto espressamente ed unicamente la reintegra nel posto di lavoro, senza attribuire al giudice alcuna discrezionalità (Cass., Sez. Lav., 21 Luglio 2017, n. 18020).

3.3. Superamento del periodo di comporto

Altra ipotesi che il legislatore riconduce nell’alveo del giustificato motivo oggettivo di licenziamento è il superamento del periodo di comporto.
Trattasi dell’ipotesi del protrarsi dell’assenza dal lavoro dovuta a malattia del lavoratore (per Cass., Sez. Lav., 27 Giugno 2017, n. 15972 anche derivante da infortunio o malattia professionale) oltre il periodo di comporto, durante il quale il rapporto è sospeso, con diritto del dipendente alla conservazione del posto.
A tal proposito, in un recente arresto a Sezioni Unite, la Cassazione ha affermato la nullità per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110, comma 2, c.c., del licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità (Cass., Sez. Lav., 22 Maggio 2018, n. 12568; sul punto si veda: Cassazione: nullo il licenziamento intimato durante la malattia prima della fine del periodo di comporto).

Ai fini della giustificazione di detta tipologia di recesso, secondo la giurisprudenza di legittimità, non è necessaria la completa e minuta descrizione delle circostanze di fatto relative alla causale, trattandosi di eventi (l'assenza per malattia) di cui il lavoratore ha conoscenza diretta.
Ne consegue che il datore di lavoro non deve indicare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, idonee ad evidenziare un superamento del periodo di comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, come l'indicazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato (Cass., Sez. Lav., 23 Gennaio 2018, n. 1634).
Stante il fatto che qualora tra la maturazione del periodo di comporto ed il licenziamento decorra un lasso di tempo eccessivo, la sanzione espulsiva viene considerata illegittima in quanto intempestiva (Cass., Sez. Lav., 12 Ottobre 2018, n. 25535 e Cass., Sez. Lav., 15 Novembre 2018, n. 29402; sul punto si veda: Cassazione: condizioni di illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto e Cassazione: l’intempestività del licenziamento per superamento del periodo di comporto).

Venendo, infine, alle tutele applicabili, anche in caso di licenziamento irrogato in violazione del precetto di cui al 2° comma dell’art. 2110 c.c., il legislatore della riforma del 2012 ha espressamente previsto quale unica soluzione l’applicazione, ex art. 18, comma 4, l. 300/1970, della c.d. tutela reale ridotta (reintegra nel posto di lavoro e indennità limitata nel massimo a dodici mensilità di retribuzione).

3.4. Altre ipotesi collocate nell’alveo del giustificato motivo oggettivo

Nell’alveo del giustificato motivo oggettivo di licenziamento vengono ricondotte, altresì, dalla giurisprudenza ipotesi non prese espressamente in considerazione dal legislatore, inerenti il venir meno di determinati requisiti indispensabili per l’esecuzione della prestazione, quali:
- la sospensione del porto d’armi od il ritiro del titolo per la guardia giurata (Cass., Sez. Lav., 25 Luglio 2006, n. 16924);
- il ritiro del tesserino doganale per il lavoratore aereoportuale (Cass., Sez. Lav., 17 Settembre 2014, n. 19613);
- la carcerazione preventiva del lavoratore, ma solo se, in relazione alla sua prevedibile durata ed alle dimensioni dell’azienda, l’assenza del dipendente coinvolto determini problemi organizzativi non fronteggiabili con il restante personale (Cass., Sez. Lav., 1 Dicembre 2010, n. 24366).

Infine, seguendo lo schema utilizzato dal legislatore, è utile rilevare che nel caso in cui nel corso del giudizio il licenziamento, apparentemente irrogato per motivi oggettivi, risulti in realtà determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le rispettive tutele previste dai commi 1-3 e 4-5 dell’art. 18 in commento, supra analizzate.

Avv. Matteo Farnetani - Fieldfisher