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Il repechage nella giurisprudenza


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1. Il licenziamento come extrema ratio

Repechage, un diritto per il lavoratore e un obbligo per il datore di lavoro, spesso fonte di contenzioso tra le parti.

In Giurisprudenza, con l’espressione  “ Repechage “ ( ripescaggio ), si vuole indicare un’elaborazione ormai consolidata che obbliga il datore di lavoro, che intende procedere con un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, a verificare preventivamente se non sia possibile utilizzare il lavoratore in un’altra posizione lavorativa.

Intorno a questo principio del licenziamento quale extrema ratio, ruotano una serie di questioni oggetto di numerosi interventi giurisprudenza. Certamente il datore di lavoro per assolvere all'obbligo di repechage deve verificare le alternative al licenziamento, pur non essendo tenuto a creare un nuovo posto di lavoro.

Resta il fatto che l’ambito entro cui condurre la ricerca di alternative ha costituito oggetto di controversie giunte più volte all’attenzione della magistratura. 

2. Gli ambiti entro cui si considera operante l’obbligo del repechage

Se la società che pensa al licenziamento fa parte di un gruppo societario, la possibilità del cosiddetto repechage va verificata considerando anche le altre società del gruppo?

Al riguardo, come facilmente si comprende, viene di solito data una risposta negativa, anche se non sono mancate delle risposte diverse legate alla peculiarità di determinate situazioni societarie.

Il lavoratore rende la prestazione lavorativa all’interno di più società del gruppo e, da vari elementi, si ricava l’esistenza di un unico centro di imputazione dei rapporti giuridici: in una situazione del genere, la Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo in quanto la società recedente non aveva provato l’impossibilità di adibire il lavoratore presso altre società del gruppo (Cass., Sez. lav., 16 gennaio 2014, n. 798; Tribunale di Milano, 16 dicembre 2016, n. 3370).

Nella più recente sentenza n. 13809 del 31 maggio 2017, la Cassazione ha avuto modo di ribadire: “… non è sufficiente il collegamento economico-funzionale tra imprese rispetto al repechage, essendo necessario che ricorra la figura della cd. codatorialità secondo i canoni identificativi individuati dalla giurisprudenza di legittimità” ( su tale fenomeno v., ab imo, Cass. n. 4274/2004, conf. Cass. 8809/2009; Cass. n. 25270/2011; più di recente Cass. n.12817/2014, Cass. 26164/2017).

In una controversia spesso citata, il lavoratore ricorre contro il licenziamento per giustificato motivo oggettivo assumendo, da una parte, che il datore di lavoro non ha assolto all’onere di provare l’impossibilità di impiegarlo in altre mansioni all’interno dell’organizzazione aziendale e, dall’altra, che l’offerta di ricollocarlo in un’altra società del gruppo non è idonea a far considerare assolto l’obbligo di provare l’impossibilità di ricollocarlo.

A fronte di queste argomentazioni, la Corte sottolinea il principio secondo cui il repechage può estendersi alle società del gruppo ove il gruppo dia luogo ad un unico centro di imputazione dei rapporti giuridici in ragione dell’esistenza di un’unica struttura organizzativa e produttiva, dell’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese, del coordinamento tecnico, amministrativo e finanziario e delle svolgimento delle prestazioni lavorative in modo indifferenziato in favore delle varie imprese del gruppo.

Nel caso di specie, tuttavia, il principio vien fatto rilevare a favore del lavoratore e non del datore di lavoro.

Difatti, siccome il datore di lavoro non ha provato l’impossibilità di ricollocare il lavoratore nell’organizzazione a lui facente capo e nemmeno è provato che il gruppo si è posto come un unico centro di imputazione, la proposta di trasferimento in un’altra società del gruppo non soddisfa l’obbligo del repechage e, anche per questo, la Corte considera fondato il ricorso proposto dal lavoratore (Cass. , Sez. lav., 16 maggio 2003, n. 7717).

In molte decisioni sono emersi ulteriori profili riconducibili all’ambito del repechage con riferimento, in questi altri casi, alle mansioni da considerare al fine di verificarne la fattibilità o meno.

Alla impostazione tradizionale, che portava a circoscrivere alle mansioni equivalenti la ricerca dell’alternativa al licenziamento, si sono affiancate decisioni che hanno mostrato particolare sensibilità verso l’interesse del lavoratore a conservare il posto di lavoro, ritenendo che il datore di lavoro non potesse esimersi dall’offrire al lavoratore l’impiego in mansioni inferiori, rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore, compatibilmente con l’organizzazione aziendale insindacabilmente stabilita dall’imprenditore e comunque con il consenso dello stesso lavoratore (Cass., Sez. lav., 8 marzo 2016, n. 4509).

Analoga impostazione è seguita da Cass., Sez. lav., 9 novembre 2016, n.22798, che, alla stregua di precedenti della stessa Corte, afferma: “ il mezzo di gravame fondato sull'assunto, errato in diritto, secondo cui l'obbligo di repechage gravante sul datore di lavoro "non si estenda anche alle mansioni inferiori a quelle del lavoratore licenziato", non può che essere respinto, atteso che, come riportato nello storico della lite, il lavoratore aveva segnalato sin dall'atto introduttivo del giudizio la circostanza delle nuove assunzioni di manovali e la mancata offerta datoriale di compiti equivalenti o anche di livello inferiore e che, nel corso del giudizio medesimo, tali fatti - secondo la Corte territoriale - avevano trovato conferma, conclamando la violazione dell'obbligo di repechage.” 

2.1. Il repechage alla luce del nuovo art. 2103 c.c.

L’entrata in vigore della nuova versione dell’art. 2103, dovuta all’art. 3 del d.lgs. 81/2015, non poteva non determinare dibattito anche per quanto riguarda i riflessi sul repechage. 

Successivamente a tale innovazione, si ritrovano alcune decisioni in cui dall’ampliamento dello ius variandi, esteso dalla nuova normativa a tutte le mansioni riconducibili al livello e categoria legale di inquadramento, si fa discendere una corrispondente estensione dell’obbligo di ricollocazione in alternativa al licenziamento (Tribunale di Milano 16 dicembre 2016, n.3370). 

Secondo il Tribunale di Roma, sentenza 24 luglio 2017, “… dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 81/2015, che ha introdotto il nuovo testo dell’art. 2103 del codice civile, l’aggravamento dell’onere gravante sul datore di lavoro in ordine all’impossibilità di repechage non può ritenersi assoluto: il datore di lavoro sarà tenuto ad allegare e dimostrare la mancata disponibilità di posizioni corrispondenti allo stesso livello e categoria di inquadramento del lavoratore, purché si tratti però di mansioni libere e che non necessitino di idonea formazione, in quanto l’obbligo formativo è stato configurato nel nuovo testo dell’articolo 2103 del codice civile come conseguenza della scelta unilaterale del datore di lavoro”. 

Permesso che è da verificare l’andamento che la giurisprudenza avrà al riguardo, rimane comunque rilevante che la Cassazione, con riferimento a procedimenti partiti in vigenza del vecchio art.2103 c.c., continui ad affermare: “ … l’eterogeneità del corredo di capacità e di esperienze professionali rispetto alla diversa posizione lavorativa libera in azienda può far venir meno il fondamento stesso dell’obbligo di repechage, che evidentemente postula che le energie lavorative del dipendente siano utilmente impiegabili nelle alternative mansioni che al medesimo debbano essere assegnate …”, aggiungendo che ciò non significa che si possa affidare la valutazione in merito alle possibilità della ricollocazione del lavoratore ad una “valutazione meramente discrezionale, riservata e insindacabile” del datore di lavoro (Cass., Sez. lav., 31 maggio 2017, n. 13809). 

Pur avendo presente che un posto comportante mansioni inferiori disponibile in azienda, nella sentenza n. 9467 del 10 maggio 2016 la Cassazione afferma che “non appare configurabile un obbligo di offrire al lavoratore tutte le mansioni anche quelle del tutto incompatibili con quelle svolte in precedenza dal lavoratore …” e che, nel caso di specie, l’obbligo non era stato violato in quanto la mansione disponibile “.. era del tutto avulsa dal bagaglio professionale e dalle competenze della lavoratrice”.

 

3. La prova della possibilità/impossibilità della ricollocazione

Profili delicati, di fatto in grado di incidere sulla portata pratica dell’obbligo di repechage, riguardano la distribuzione degli oneri di allegazione e di prova con riferimento all’impossibilità di ricollocare il lavoratore nella specifica realtà aziendale. 

Optandosi per la valorizzazione di circostanze di fatto , considerate valutabili come presunzioni semplici, si è in più occasioni la cassazione ha proceduto ad affermazioni del genere: “… l'onere del datore di lavoro di dimostrare l'impossibilità di un'altra utilizzazione del lavoratore licenziato va assolto, concernendo un fatto negativo, mediante la dimostrazione - fuori da un rigido prefissato schema di prova - di fatti positivi corrispondenti, come il fatto che i residui posti di lavoro, riguardando mansioni equivalenti, fossero al tempo del licenziamento stabilmente occupati da altri lavoratori, e il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non sia stata effettuata alcuna nuova assunzione nella stessa qualifica del lavoratore licenziato. Tale dimostrazione deve concernere tutte le sedi dell'attività aziendale, essendo sufficiente la limitazione alla sede cui era addetto il lavoratore licenziato solo nell'ipotesi preliminare di rifiuto del medesimo a trasferirsi altrove …” (Cass., Sez. lav., 16 maggio 2003, n. 7717). 

Di particolare rilievo è, poi, il modo in cui si è coinvolto il lavoratore attivatosi con l’impugnazione giudiziaria del licenziamento: “Costituisce parimenti principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che l'onere della prova relativo all'impossibilità di impiego del dipendente licenziato nell'ambito dell'organizzazione aziendale - concernendo un fatto negativo - deve essere assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi, come il fatto che i residui posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero, al tempo del recesso, stabilmente occupati, o il fatto che dopo il licenziamento non sia stata effettuata alcuna assunzione nella stessa qualifica (Cass. n. 10527/1996, Cass. n. 3030/1999); detto onere, ha precisato la Corte, deve essere comunque mantenuto entro limiti di ragionevolezza, sicché esso può considerarsi assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria (Cass. n. 3198/1987, Cass. n. 8254/1992), con l'ulteriore precisazione che il lavoratore, pur non avendo il relativo onere probatorio, che grava per intero sul datore di lavoro, ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di "repechage" (Cass. n. 8396/2002, Cass. n. 10559/1998, Cass. n. 8254/1992)” (Cass., Sez. lav., 9 agosto 2003, n. 12037). 

Non considerando i tanti (e anche diversamente orientati) pronunciamenti intervenuti in materia successivamente, si registra da ultimo un orientamento che responsabilizza maggiormente il datore di lavoro che ha proceduto al recesso: “questa Corte ha da ultimo … osservato che in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di "repechage" del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri (Cass. n. 5592/16), nonché che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il lavoratore ha l'onere di dimostrare il fatto costitutivo dell'esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l'illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del cd. "repechage", ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore (Cass. n. 12101/16)”(Cass. 22 novembre 2017, n. 27792). 

Presa di posizione, questa, che assume rilievo anche perché, nel processo scaturito nella sentenza n.27792, un esplicito argomento difensivo del datore di lavoro, che avrebbe potuto avere spazio alla luce di precedenti orientamenti, era che “… sarebbe stato onere del lavoratore indicare dove egli avrebbe potuto essere utilmente collocato”. 

L’orientamento in merito all’onere di deduzione ed allegazione, espresso dalla predetta Cassazione, si ritrova anche in altre recenti sentenza: Cass. 21 novembre 2017, n. 27654; Cass. 17 luglio 2017; n. 17631; Cass. 5 gennaio 2017, n. 160; Cass. 11 ottobre 2016, n. 20436. 

Ulteriori profili emersi a livello giurisprudenziale, su cui si registrano orientamenti diversi, ruotano intorno all’individuazione del tipo di tutela applicabile a favore del lavoratore licenziato ove venga accertato dal giudice il mancato rispetto dell’obbligo della ricollocazione. 

Il problema, in particolare, si pone con riferimento ai lavoratori a cui tuttora si applica l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. 

Tale articolo, come è noto, prevede la tutela reintegratoria (cosiddetta attenuata) nel caso in cui venga accertata la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” per giustificato motivo oggettivo oppure la tutela solo indennitaria (cosiddetta forte) nelle “altre ipotesi in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo …”. 

Da qui due tesi diverse emerse sia a livello dottrinale che giurisprudenziale, tesi che riflettono il modo diverso in cui viene concepito il repechage come componente strutturale del giustificato motivo oggettivo ovvero solo come un limite esterno frutto dell’elaborazione giurisprudenziale. 

Tribunale Reggio Calabria, ordinanza 3 giugno 2013, ha ritenuto che la mancata prova da parte del datore di lavoro circa il fatto che l’esubero sussistesse rispetto all’intero organico aziendale integri la “insussistenza del fatto” e, quindi, l’applicazione della tutela reintegratoria (questo Giudice muove dalla convinzione che il repechage si configuri come “un attributo normativo sostanziale nella definizione del giustificato motivo oggettivo”). 

Tribunale Milano, ordinanza 27 febbraio 2017 n.5525, dopo aver rilevato che nel caso di specie la riorganizzazione addotta era sta più formale che sostanziale e che al lavoratore era stato negato “… un collocamento in qualsiasi altra posizione aziendale (compresa quella proposta dallo stesso lavoratore …)”, a stregua dell’art. 18, comma 4, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento dell’indennità risarcitoria.

Da parte sua, Tribunale di Milano, sentenza 16 dicembre 2016 n.3370, dopo aver osservato che “… il datore di lavoro deve verificare la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni nell’ambito dell’organizzazione aziendale (c.d. obbligo di repechage), con riguardo all’intera struttura aziendale e non solo alla sede presso la quale il lavoratore era adibito” e che la lavoratrice licenziata poteva essere adibita ad altre mansioni, ritiene che la disciplina applicabile al licenziamento intervenuto è quella di cui alle “altre ipotesi” in cui si accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, si dichiara risolto il rapporto di lavoro e si condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva (art. 18, comma 5). Allo stesso orientamento vengono ricondotte anche Tribunale Milano 27 febbraio 2017; Tribunale Torino 5 aprile 2016. 

 

4. Gli ambiti di esclusione dell’obbligo del repechage

Due sono gli ambiti principali in cui l’obbligo di repechage viene escluso: </non>

a. Licenziamenti collettivi: in tali situazioni non esiste in capo al datore di lavoro alcun obbligo legale di repechage, neppure nel caso in cui il datore di lavoro, in sede di accordo sindacale, abbia assunto l’impegno di favorire la ricollocazione dei dipendenti coinvolti nella procedura. A questa conclusione è giunta la Corte di Appello di Milano, sentenza 20 gennaio 2017 n. 131, secondo cui: “Deve escludersi che la violazione dell'impegno assunto contrattualmente dal datore di lavoro, nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo, di ricollocare i lavori licenziati presso futuri ed eventuali posti di lavoro, possa integrare gli estremi della violazione dell'obbligo di repêchage con conseguente invalidità dell'intimato licenziamento. La natura giuridica dell'impegno assunto viene così individuata in un'obbligazione meramente contrattuale, la cui violazione può comportare esclusivamente conseguenze di natura risarcitoria, senza poter incidere in alcun modo sulla legittimità del licenziamento”. La pronuncia ha, pertanto, statuito che l’impegno a favorire la ricollocazione dei lavoratori in posizioni future non è un obbligo previsto dalla legge, ma costituisce solo una opportunità eventuale a cui il datore di lavoro si vincola contrattualmente. 

Alla base di questo impegno vi è ovviamente una valutazione effettuata circa l’inesistenza di attuali posizioni lavorative in cui collocare i prestatori coinvolti. 

L’obbligo di repechage, vigente in caso di licenziamento per g.m.o., non sussite in presenza di un licenziamento collettivo, ove il mancato rispetto dell’impegno assunto in sede sindacale può comportare solo eventuali conseguenze risarcitorie a carico della società, ma non può incidere sulla legittimità del recesso stesso, vincolata al rispetto della procedura ed ai criteri di scelta. 

b. Licenziamento del dirigente: stante la particolare posizione del lavoratore avente la qualifica di dirigente, il quale non è assistito dalle stesse tutele previste, in caso di licenziamento, per operai, impiegati e quadri, la giurisprudenza ha elaborato il principio secondo cui l’obbligo di repechage non trova applicazione in caso di recesso datoriale nei confronti di un dirigente, mal conciliandosi tale onere con il regime di libera recedibilità. 

Nello specifico, la Cass., Sez. Lav., 12 luglio 2016 n. 14193, ha affermato che: “Nel caso di recesso motivato da ragioni organizzative, l'obbligo di repêchage - operante per quanto riguarda operai, impiegati e quadri in base al costante orientamento giurisprudenziale - non trova invece applicazione nei confronti del personale inquadrato con qualifica dirigenziale, nei cui confronti vige il regime della libera recedibilità” (Conf. Cass., Sez. Lav., 11 febbraio 2013, n. 3175).

 

A cura di Fieldfisher