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Cassazione: condizioni di illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto


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Con l’ordinanza n. 25535 del 12.10.2018, la Cassazione afferma che deve considerarsi illegittimo il recesso irrogato, ai sensi dell'art. 2110, comma 2, c.c., qualora tra la maturazione del periodo di comporto ed il licenziamento decorra un lasso di tempo eccessivo che, come tale, deve essere considerato incompatibile con la volontà datoriale di recedere dal contratto.

Il fatto affrontato

Il lavoratore impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli dalla società datrice per superamento del periodo di comporto.
A fondamento della propria domanda deduce che il lungo lasso temporale intercorso tra la maturazione del periodo di comporto (19 dicembre 2014) ed il licenziamento (6 febbraio 2015), unitamente ad altri fatti concludenti (quali l’accoglimento di una sua richiesta di ferie e l’accettazione della prestazione lavorativa al rientro dalle stesse), legittimava la propria convinzione circa la prosecuzione del rapporto e la rinuncia da parte del datore di avvalersi del diritto di recesso ai sensi dell'art. 2110, comma 2, c.c.

L’ordinanza

La Cassazione, confermando la statuizione della Corte d’Appello, afferma che la valutazione del tempo decorso fra la data del superamento del periodo di comporto e quella del licenziamento, al fine di stabilire se la durata di esso sia tale da risultare oggettivamente incompatibile con la volontà di porre fine al rapporto, deve essere condotta con criteri di minor rigore rispetto al licenziamento per giusta causa.

Tuttavia, per la sentenza, il giudizio sulla tempestività o meno del recesso non può conseguire alla rigida e meccanica applicazione di criteri temporali prestabiliti, ma va condizionato ad una compiuta considerazione di ogni significativa circostanza idonea ad incidere sulla valutazione datoriale circa la sostenibilità o meno delle assenze del lavoratore in rapporto, da un lato, con le esigenze del lavoratore medesimo alla certezza della vicenda contrattuale e, dall'altro, con le esigenze dell'impresa, in un'ottica delle relazioni aziendali improntata ai canoni della reciproca lealtà e buona fede.

Secondo i Giudici di legittimità, la valutazione dell'equo contemperamento delle summenzionate esigenze e, in definitiva, della congruità o meno del tempo intercorso tra la ripresa del lavoro ed il licenziamento in relazione alla possibilità di sperimentare in concreto (anche in relazione alle caratteristiche organizzative e dimensionali dell'impresa) se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all'interno delle struttura aziendale, compete al giudice del merito e non è sindacabile in Cassazione ove adeguatamente motivata.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ritiene incensurabile la pronuncia di merito intervenuta nel caso di specie, confermando la motivazione addotta dalla Corte territoriale, secondo la quale dalla presenza delle succitate circostanze (ritardo nella comunicazione del recesso, accoglimento di una richiesta di ferie del lavoratore successiva alla maturazione del periodo di comporto, accettazione del rientro in servizio e della prestazione lavorativa) si evince inequivocabilmente la volontà abdicativa della società, incompatibile con il licenziamento irrogato al proprio dipendente.

A cura di Fieldfisher