Stampa

Sindacato comparativamente più rappresentativo: storia e prassi applicativa di un concetto di difficile definizione


icona

1. Un breve excursus storico

All’interno del nostro ordinamento sindacale, il canone della rappresentatività comparativa ha ampiamente preso il posto del criterio della maggiore rappresentatività.
Quest’ultimo era stato inserito dal legislatore nell’art. 19 della L. 300/1970, al fine di attribuire ai lavoratori la facoltà di iniziativa per la costituzione della rappresentanza sindacale aziendale, con l’esigenza di promuovere i sindacati ritenuti in grado di offrire, per i requisiti posseduti, adeguate garanzie di stabilità ed affidabilità.
Nonostante il criterio della maggiore rappresentatività abbia passato più volte il vaglio di legittimità costituzionale (Corte Cost. 22 Febbraio 1974, n. 54 e Corte Cost. 24 Marzo 1988, n. 334), lo stesso è stato criticato, in quanto attributivo di rendite di posizione a favore di associazioni sindacali che erano sottratte all’accertamento della loro effettiva rappresentatività solo perché aderivano alle tre più importanti confederazioni presenti a livello nazionale (CGIL, CISL e UIL).
Senonché, già nel corso degli anni ’80 e, sempre più, nei primi anni ’90, una serie concomitante di fenomeni hanno fatto sì che la maggiore rappresentatività di talune associazioni sindacali - presunta a livello confederale o nazionale - risultasse, spesso, in stridente contrasto con il rifiuto dell’operato di quelle stesse associazioni da parte dei lavoratori nelle singole aziende.
Ciò ha posto il problema della individuazione di nuovi e più attendibili criteri con i quali misurare il requisito della rappresentatività, in un quadro di “nuove regole ispirate alla valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia anche nell’ambito dei rapporti tra lavoratori e sindacato” (Corte Cost. 26 Gennaio 1990, n. 30).
Dell’elaborazione di dette regole ha cercato di farsi carico negli anni successivi la giurisprudenza, la quale ha considerato indici della maggiore rappresentatività: la consistenza numerica, l'equilibrata presenza di un ampio arco di settori produttivi, un’organizzazione estesa a tutto il territorio nazionale, l'effettiva partecipazione - con caratteri di continuità e di sistematicità - alla contrattazione collettiva (ex multis: Cass., Sez. Lav., 10 Luglio 1991, n. 7622; Cass., Sez. Lav., 22 Agosto 1991, n. 9027).
A metà degli anni ’90, la crisi di detta nozione ed il contestuale emergere di casi di compresenza di più contratti collettivi nel medesimo ambito - tutti astrattamente applicabili allo stesso rapporto di lavoro - hanno indotto il legislatore ad elaborare la nuova nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo.
Tale nuova dizione è stata introdotta per la prima volta, in relazione alla nozione di retribuzione imponibile a fini previdenziali, nella L. 549/1995, al fine di sconfiggere la prassi dei c.d. “contratti pirata”, stipulati da sindacati minori e volti a fissare retribuzioni sensibilmente inferiori rispetto a quelle individuate dalle OO.SS. tradizionali.

2. La situazione attuale

Attualmente la nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo viene in rilievo in tutte quelle ipotesi nelle quali il legislatore delega specifiche funzioni alla contrattazione collettiva, onde la necessità, imposta dal pluralismo sindacale, di individuare il contratto abilitato all’attuazione della delega in caso di concorrenza tra più CCNL vigenti per la medesima categoria. Concetto, quest’ultimo, che - secondo la giurisprudenza della Suprema Corte - è da identificare nel “… settore produttivo in cui opera l’impresa …” (Cass., Sez. Lav., 20 gennaio 2012, n. 801).
L’identificazione della categoria in relazione all’attività dell’impresa in passato non ha presentato particolari difficoltà, perché i confini delle varie categorie erano relativamente assestati e così anche i perimetri contrattuali.
Tuttavia, le grandi trasformazioni intervenute nell’economia che hanno alterato le strutture produttive, hanno reso altrettanto mutevoli ed incerti i confini fra le varie attività, creando una moltiplicazione di varianti di settori all’interno delle categorie merceologiche storicamente unitarie.
In questo nuovo contesto la identificazione dei perimetri contrattuali si è rivelata problematica per le istituzioni competenti ed è diventata una questione critica per le parti sociali, oggetto di tensioni tuttora irrisolte.
L’unica certezza è che la classificazione delle imprese deve avvenire - atteso anche il rilievo pubblicistico delle previsioni in materia previdenziale ed assistenziale implicate da detta scelta - alla stregua di criteri oggettivi e predeterminati che non lascino spazio a scelte discrezionali o a processi di autodeterminazione normativa (Cass., Sez. Lav., 5 Novembre 1999, n. 12345).
Una volta individuata la categoria, laddove vi sia una coesistenza di più contratti collettivi astrattamente applicabili alla medesima, occorre selezionare quello che è stato stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, e cioè da quei sindacati che - all’esito della comparazione con le altre associazioni sindacali che hanno sottoscritto il CCNL concorrente - risultano più rappresentativi.
A tale scopo si utilizzano alcuni indici già in circolazione da tempo - applicati dalla giurisprudenza amministrativa e di merito (Cons. Stato, sez. VI, 22 Febbraio 2007, n. 971 [inerente alla scelta delle organizzazioni titolate a designare rappresentanti in organismi pubblici]; Trib. Pavia, 26 Febbraio 2019, n. 80) e richiamati in fonti amministrative (Decreto Ministero del Lavoro, 15 Luglio 2014, n. 14280 ter) - in grado di esprimere la capacità dell'associazione di porsi come valido interlocutore. I predetti indici sono identificabili:
• nella presenza di una significativa consistenza numerica degli associati e delle singole organizzazioni sindacali;
• nell’ampiezza e diffusione di un'organizzazione articolata su tutto il territorio nazionale;
• nella partecipazione alla formazione e stipulazione dei contratti collettivi di lavoro;
• nell'intervento nelle controversie di lavoro individuali, plurime e collettive.
Nonostante gli stessi siano speculari a quelli coniati in passato dalla giurisprudenza di legittimità, per determinare la maggiore rappresentatività (già visti nel precedente punto 1), è bene evidenziare le differenze intercorrenti con la rappresentatività comparativa.
Infatti, con la locuzione sindacato maggiormente rappresentativo il legislatore voleva attribuire specifiche prerogative e diritti alle associazioni sindacali operanti in determinati contesti lavorativi, rispetto alle quali l'analisi sulla rappresentatività doveva tenere adeguatamente conto della necessità di tutelare il principio del pluralismo, sì da evitare che un deficit in termini astratti di rappresentatività si traducesse in una sostanziale compromissione dell'esercizio delle libertà di azione sindacale costituzionalmente garantite.
Dunque, la nozione di maggiore rappresentatività riguarda una “accezione inclusiva”, non riferendosi ad una comparazione fra le varie confederazioni nazionali, ma ad una effettività della loro forza rappresentativa (Corte Cost., 23 Luglio 2013, n. 231).
Diversamente, la differente definizione di associazioni comparativamente più rappresentative presuppone una selezione delle associazioni sindacali, sulla base di una valutazione comparativa della effettiva capacità di rappresentanza di ciascuna di esse. E ciò al fine di subordinare il godimento di determinate prerogative alla effettiva capacità rappresentativa delle organizzazioni soggette al giudizio comparativo (TAR Lazio, 8 Febbraio 2018, n. 1522).
Alla luce di quanto sopra, oggi, il concetto di rappresentatività comparata (e non più presunta) risulta incompatibile con ogni riconoscimento aprioristico ed irreversibile della rappresentatività in capo ad un’organizzazione sindacale - ancorché tradizionalmente e storicamente rappresentativa - ed impone, di converso, una costante verifica ed un aggiornamento del confronto tra le organizzazioni sindacali sulla base degli indici oggettivamente verificabili e contendibili (Corte Cost., 4 Dicembre 1995, n. 492).

2.1. L’applicazione del concetto in materia previdenziale

Una delle applicazioni pratiche più importanti del concetto di sindacato comparativamente rappresentativo è quella inerente alla determinazione della retribuzione da assumere ai fini del calcolo dei contributi previdenziali, secondo quanto previsto dalla L. 389/1989.
In particolare, l’art. 1 del D.L. 338/1989, convertito nella legge 389/1989, intitolato “Retribuzione imponibile, accreditamento della contribuzione settimanale e limite minimo di retribuzione imponibile”, stabilisce la regola generale secondo cui “la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”.
Detta disposizione è stata oggetto di interpretazione autentica ad opera dell'art. 2, comma 25, della citata L. 549/1995, il quale ha disposto che “L'art. 1 del D.L. n. 338 del 1989 convertito con modificazioni in L. n. 389 del 1989 si interpreta nel senso che in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative della categoria”.
L’importanza di detta interpretazione riguarda anche e soprattutto il richiamo operato dal legislatore del 1195 alla categoria.
Infatti, l'art. 1 del D.L. 338/1989 risultava essere piuttosto incompleto, non precisando che la contrattazione collettiva richiamata doveva essere quella propria del settore in cui l'impresa datrice di lavoro operava. Risulterebbe altrimenti incongruo - per quanto già sostenuto nel precedente paragrafo 2 - l'obbligo di applicazione, sia pure ai soli fini contributivi, di una contrattazione collettiva vigente in un settore diverso, stante il rilievo pubblicistico della materia, che non può consentire riserve a scelte soggettive, pena, diversamente, l'illogicità del sistema.
Su tale interpretazione sono, poi, intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali - nel risolvere un contrasto giurisprudenziale - hanno affermato che: “L'importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all'importo di quella che sarebbe dovuta, ai lavoratori di un determinato settore, in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale; si tratta del c.d. "minimale contributivo" secondo il riferimento ad essi operato, con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale, dall'art. 1 del D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito nella L. 7 dicembre 1989, n. 389” (Cass., Sez. Un., 29 Luglio 2002, n. 11199).
Sulla base di ciò, quale che sia la retribuzione dovuta o corrisposta al dipendente in forza del rapporto di lavoro, la contribuzione deve essere necessariamente commisurata alla retribuzione determinata dai CCNL stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria (Trib. Genova, 01 Febbraio 2019, n. 1064).
La legge determina, infatti, un imponibile minimo da sottoporre a contribuzione, al di sotto del quale non è possibile scendere, ancorché la retribuzione dovuta ed erogata al lavoratore sia inferiore, perché parte datoriale non è tenuta ad erogare una retribuzione uguale o superiore a quella individuabile a stregua del predetto CCNL.
È, pertanto, il contratto sottoscritto dalle associazioni comparativamente più rappresentative che funge da parametro per la determinazione dell'obbligo contributivo minimo e, per scelta legislativa, questo parametro viene ritenuto il più idoneo ad adempiere alla funzione di tutela assicurativa, nonché a garantire l'equilibrio finanziario della gestione.
La retribuzione contributiva è stata, quindi, ancorata ad una nozione di retribuzione "virtuale", poiché la retribuzione stabilita dal contratto collettivo non è sempre e necessariamente quella dovuta al dipendente. Quest'ultima, infatti, ben può essere legittimamente inferiore nel caso appunto in cui non sia obbligatoria l'applicazione della contrattazione collettiva di diritto comune (Cass., Sez. Lav., 9 Febbraio 2004, n. 2387).
L’importanza dell’individuazione degli accordi collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative è in tale ambito pacifica, dal momento che gli stessi pongono un limite minimo "incomprimibile" di retribuzione valevole ai fini previdenziali, al di sotto del quale non si può scendere ed è per questo che la valutazione non può che essere altamente rigorosa (a tal proposito si veda: Ministero del Lavoro Interpello, 15 Dicembre 2015, n. 27).
Infine, risulta doveroso ricordare che il rispetto di detti accordi è - ai sensi dell’art. 1, comma 1175, L. 296/2006 - indispensabile ai fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi, così come ribadito recentemente anche dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro nella circolare n. 9 del 10 Settembre 2019 (a tal proposito si veda: INL – Circ. n. 9 del 10.09.2019: Fruibilità degli incentivi e contrattazione).

2.2. Il caso emblematico delle cooperative

Un altro importante ambito di applicazione del concetto di rappresentatività comparativa è quello inerente la garanzia dei minimi di retribuzione per i lavoratori dipendenti dalle cooperative.
Infatti, ai sensi dell’art. 3 della L. 142/2001 e dell’art. 7 del D.L. 248/2007, ai lavoratori delle società cooperative deve essere assicurato un trattamento economico complessivo non inferiore ai minimi contrattuali previsti per analoghe mansioni dal CCNL di settore o della categoria affine, sottoscritto dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (Cass., Sez. Lav., 20 Febbraio 2019, n. 4951).
La Cassazione ha, quindi, individuato nella contrattazione collettiva delle associazioni comparativamente più rappresentative un parametro fondamentale ai fini dell’individuazione dei minimi salariali da applicare, in presenza di una pluralità di contratti collettivi nello stesso settore.
Ciò non risulta lesivo del principio-precetto di natura costituzionale - contenuto nell’art. 39, comma 1, della Cost. - del pluralismo sindacale (e di libertà di contrattazione collettiva), in considerazione della facoltà datoriale di applicare ai dipendenti un CCNL diverso, a patto che siano rispettati i minimi salariali dei contratti stipulati dalle associazioni comparativamente più rappresentative (Corte. Cost., 11 Marzo 2015, n. 51).
I contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative non hanno, infatti, efficacia erga omnes, ma i minimi salariali in essi previsti costituiscono il riferimento per garantire la retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’art 36 Cost. (Cass., Sez. Lav., 4 Agosto 2014, n. 17583).
Il criterio selettivo in materia di contrattazione collettiva, individuato nel sindacato comparativamente più rappresentativo, diventa, quindi, criterio-guida del trattamento economico complessivo e argine forte contro il dumping salariale generato dai c.d. “contratti pirata” (Cass., Sez. Lav., 28 Agosto 2013, n. 19832).

2.3. Il caso degli appalti pubblici

Altro caso di frequente utilizzo del concetto di rappresentatività comparativa è quello inerente agli appalti pubblici, ove - ai sensi dell’art. 50 del D.Lgs. 50/2016 (Codice dei Contratti Pubblici) - è necessario che la stazione appaltante individui il c.d. “contratto leader”.
Secondo la giurisprudenza amministrativa, tale deve essere considerato il CCNL sottoscritto dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative.
Al fine dell’individuazione delle stesse, è necessario utilizzare i sopracitati indici sintomatici del numero complessivo dei lavoratori iscritti, del numero totale delle imprese associate, della diffusione territoriale (numero di sedi presenti sul territorio e ambiti settoriali), del numero dei contratti collettivi nazionali sottoscritti, della partecipazione effettiva alle relazioni industriali ed, infine, del numero delle controversie trattate ai sensi dell’art. 411 c.p.c. (TAR Lazio, 7 Agosto 2014, n. 8865, ripreso anche da Ministero del Lavoro Interpello, 15 Dicembre 2015, n. 27).
L’individuazione di un contratto collettivo effettivamente rappresentativo risponde tra l’altro alla più generale necessità di preservare le dinamiche occupazionali dal fenomeno del dumping contrattuale, pericoloso - in presenza di più contratti collettivi riferibili contemporaneamente allo stesso settore - per la possibilità dell’insinuazione di regolamentazioni, pattuite con organizzazioni non rappresentative, che abbiano come fine, o comunque conseguenza, il detrimento delle condizioni generali dei lavoratori.
È utile rilevare, altresì, che, nell’ambito delle procedure di appalto pubblico, il contratto siglato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative assume una particolare rilevanza, posto che viene individuato quale parametro di riferimento per la determinazione del costo del lavoro sia nella fase progettuale dell'appalto ai fini della determinazione dei relativi costi (art. 23, comma 16, D.Lgs. 50/2016), sia nella successiva fase di aggiudicazione ai fini della individuazione delle c.d. offerte anomale (art. 97 D.Lgs. 50/2016).
Ai sensi del predetto art. 97, infatti, viene considerata anormalmente bassa con conseguente esclusione del partecipante alla gara, l’offerta che contempli un costo del personale inferiore ai minimi salariali retributivi indicati in apposite tabelle predisposte annualmente “dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali sulla base dei valori economici definiti dalla contrattazione collettiva nazionale tra le organizzazioni sindacali e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali” (art. 23, comma 16, D.Lgs. 50/2016).
Ulteriormente, la mancata applicazione dei predetti CCNL assume rilevanza anche ai fini della responsabilità solidale prevista dall'art. 105 del D.Lgs. 50/2016 - oltre che, in termini generali, dall'art. 1676 c.c. - con riferimento agli obblighi contributivi e retributivi non correttamente assolti da parte dell'appaltatore o del subappaltatore (a tal proposito si veda: Nota Ministero del Lavoro 26 Luglio 2016, n. 14775).

3. Conclusione e prospettive di riforma

Come anticipato già nel titolo della presente trattazione, il concetto di sindacato comparativamente più rappresentativo risulta essere di difficile definizione.
In particolare, la varietà e l’incertezza dei criteri impiegati impediscono di addivenire a valutazioni e conclusioni univoche su quali sia il CCNL da utilizzare, in quanto sottoscritto dalle associazioni che risultano essere le più rappresentative all’esito di un’indagine comparativa.
Una prima ed auspicabile soluzione a tale problema potrebbe rinvenirsi nell’utilizzo dei criteri quantitativi definiti da tempo negli accordi interconfederali, ed in particolare nel TU sulla rappresentanza del 2014 (via seguita per adesso da Trib. Roma, 3 Giugno 2019).
In attesa magari di una legge sulla rappresentanza - inclusa tra le priorità che si è dato l’attuale governo in materia giuslavoristica - che definisca meglio i nebulosi confini della materia.

Avv. Matteo Farnetani - Fieldfisher