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Cassazione: corretto l’annullamento del contratto a termine se la lavoratrice nasconde di essere incinta


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Con l’ordinanza n. 16785 del 13.06.2023, la Cassazione afferma che la PA può legittimamente annullare, in autotutela, la nomina ed il contratto di lavoro a tempo determinato siglato con una lavoratrice che, solo all’esito della firma, ha comunicato di essere in gravidanza e, in quanto tale, impossibilitata allo svolgimento delle mansioni per l’intera durata del rapporto.

Il fatto affrontato

La lavoratrice, dopo aver firmato un contratto a temine per la sostituzione di un medico ed ancor prima di prendere servizio, comunica alla ASL di essere incinta.
In conseguenza di ciò, l’Ente datore dispone l’annullamento del contratto in ragione della inidoneità della lavoratrice alle mansioni.
A seguito dell’impugnazione giudiziale di detto provvedimento da parte della dipendente, la Corte d’Appello rigetta la relativa domanda, ritenendo legittima la condotta della PA, peraltro, tratta in errore dal comportamento della ricorrente.

L’ordinanza

La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva, preliminarmente, che l'assunzione sulla base di dati non veritieri è causa di decadenza, con conseguente nullità del contratto, allorquando ciò comporti la carenza di un requisito che avrebbe, in ogni caso, impedito l'instaurazione del rapporto di lavoro con la P.A.

Secondo i Giudici di legittimità, in presenza di tali circostanze, non si integra la fattispecie del licenziamento, essendo semplicemente presente un rifiuto dell'Amministrazione di continuare a dare esecuzione al rapporto di lavoro a causa della nullità del contratto.

Invero, per la sentenza, la fattispecie si pone all'intersezione tra l'ipotesi di una sostanziale impossibilità giuridica dell'oggetto (la prestazione non poteva infatti essere resa) ed al contempo di una illiceità della causa in concreto (perché l'attuazione di quello scambio si sarebbe posta in contrasto con il divieto di legge), in ogni caso ipotesi tutte destinate ad integrare la nullità.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla lavoratrice, ritenendo indenne da censure la condotta della PA datrice.

A cura di Fieldfisher