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Cassazione: quali diritti in caso di riqualificazione di un contratto di collaborazione con la PA?


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Con l’ordinanza n. 4360 del 13.02.2023, la Cassazione enuclea il seguente principio di diritto: “In tema di pubblico impiego privatizzato, in caso di stipulazione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa che, in seguito ad accertamento giudiziario, risulti avere la sostanza di contratto di lavoro subordinato, il lavoratore non può conseguire la conversione del rapporto in uno di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la P.A., ma ha diritto ad una tutela risarcitoria, nei limiti di cui all’art. 2126 c.c., nonché alla ricostruzione della posizione contributiva previdenziale ed alla corresponsione del trattamento di fine rapporto per il periodo pregresso”.

Il fatto affrontato

Il lavoratore ricorre giudizialmente al fine di chiedere la riqualificazione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa intercorso con un Ente pubblico non economico e la condanna dello stesso al pagamento delle differenze retributive e del trattamento di fine rapporto.
La Corte d’Appello accoglie parzialmente la predetta domanda, riconoscendo al ricorrente il diritto al solo TFR.

L’ordinanza

La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva, preliminarmente, che il TFR è una prestazione economica a cui il dipendente ha diritto al momento della cessazione del proprio rapporto di lavoro, a prescindere dal motivo della cessazione stessa e, quindi, sia in caso di licenziamento, che in caso di dimissioni o di raggiungimento dell'età pensionabile.

Secondo i Giudici di legittimità, nella base di calcolo del TFR vanno ricomprese tutte le somme che trovano la propria causa nel rapporto di lavoro, a prescindere dalla stretta correlazione con l'effettivo svolgimento della prestazione.
Vanno, dunque, conteggiati anche gli importi che, provenendo dal datore ed essendo causalmente collegati al rapporto, sono erogati materialmente da un soggetto diverso, nonché le somme corrisposte in forza di un contratto diverso da quello di lavoro che costituisce, tuttavia, uno strumento per conseguire il risultato pratico di arricchire il patrimonio del dipendente in correlazione con lo svolgimento del rapporto di lavoro.

In altri termini, per la sentenza, ai fini della ricomprensione di un certo compenso nella base di calcolo del TFR è sufficiente che il lavoratore, in corso e a causa del rapporto, ne abbia goduto quale corrispettivo della prestazione normale perché inerente al valore professionale delle mansioni espletate.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso della PA confermando la debenza del trattamento di fine rapporto nei termini quantitativi espressi correttamente dall’impugnata pronuncia di merito.

A cura di Fieldfisher