La Cassazione, Sezione lavoro, con la sentenza n. 6147 del 14.03.2018, ha confermato il proprio precedente orientamento in tema di applicazione dei canoni di ermeneutica contrattuale degli accordi sindacali raggiunti nell’ambito di procedure di mobilità ex legge n. 223 del 1991.
Il fatto affrontato
La datrice di lavoro impugna la sentenza di secondo grado di conferma dell’illegittimità del licenziamento operato nell’ambito di una procedura collettiva, sull’assunto di una violazione dei criteri di scelta determinati con accordo sindacale.
La sentenza
La Cassazione conferma il proprio precedente orientamento in tema di procedure per riduzione del personale e criteri di scelta definiti con accordo sindacale, dando in particolare continuità alla pronuncia n. 13698 del 2015.
In tale precedente pronuncia, la Corte ha già osservato che l’espresso richiamo al carattere fungibile delle mansioni, contenuto nella premessa alle modalità di scelta di cui all’accordo sindacale, non può che ritenersi come voluto dalle parti sociali “… nel senso che queste non intendevano escludere la comparazione tra i lavoratori fungibili, ma solo escluderla tra i lavoratori infungibili …”.
Secondo la Corte, ove il progetto di ristrutturazione aziendale riguardi in modo esclusivo una unità produttiva, oggettive esigenze aziendali legittimano la scelta dei lavoratori da porre in mobilità tra coloro che risultino addetti al reparto /settore oggetto di ristrutturazione. Tuttavia, qualora tali lavoratori siano idonei ad occupare posizioni di colleghi addetti ad altri reparti in ragione della propria precedente esperienza, la possibilità di concentrarsi sui medesimi prestatori viene meno.
La Corte ha poi offerto una precisazione in merito alla quantificazione del risarcimento economico per licenziamento considerato illegittimo per violazione dei citati criteri di scelta nonché in merito ai riflessi sull’aliunde perceptum eventualmente determinati dal rifiuto opposto dal dipendente licenziato ad una offerta di lavoro a tempo determinato.
Nel caso in esame, infatti, il Tribunale aveva considerato l’offerta di lavoro a tempo determinato, avanzata al dipendente dopo il licenziamento, come non attuabile e non quantificabile per assenza di una specifica indicazione del periodo di durata contrattuale. La Corte di appello, confermando la sentenza di primo grado, aveva ritenuto che con riferimento all’obbligo di collaborazione ex art. 1227 c.c., volto ad evitare l’aggravarsi del danno, potessero essere ricomprese solo quelle attività che non fossero gravose ed eccezionali o tali da comportare notevoli rischi e sacrifici al creditore.
Per tali vie, la Suprema Corte rigetta tutti i motivi perché infondati e conferma quanto stabilito dal Tribunale e dalla Corte d’appello.
A cura di Fieldfisher