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Cassazione: la sussistenza di un g.m.o. legittima il licenziamento anche del dipendente affetto da una grave malattia


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Con la sentenza n. 23338 del 27.09.2018, la Cassazione afferma che l’effettiva soppressione del posto di lavoro dettata dal drastico calo del fatturato legittima il datore ad irrogare un licenziamento per g.m.o. anche ad un dipendente portatore di handicap.

Il fatto affrontato

La lavoratrice, affetta da una grave patologia, impugna giudizialmente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, irrogatole al rientro da un lungo periodo di assenza per malattia.
A fondamento della suddetta domanda, deduce la discriminatorietà del recesso, sostenendo che la società aveva deciso di espellerla dall’azienda a causa dello stato di handicap provocatole dalla patologia, con l’obiettivo di disfarsi di una dipendente che avrebbe avuto necessità di assentarsi frequentemente dal lavoro per cure e controlli.

La sentenza

La Cassazione, confermando quanto stabilito dalla Corte d’Appello, afferma, preliminarmente, che per handicap deve intendersi qualsiasi limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.
La suddetta condizione è foriera di discriminazione se il prestatore colpitone, per la sola appartenenza alla categoria protetta, subisce un trattamento deteriore a prescindere dalla volontà illecita del datore.

Secondo la sentenza, neanche la sussistenza di una finalità legittima del datore, quale un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, elide automaticamente il carattere discriminatorio del recesso irrogato ad un portatore di handicap.

In tali circostanze, secondo i Giudici di legittimità, sussiste un criterio di agevolazione del prestatore portatore di handicap che si esprime in una diversa ripartizione degli oneri di allegazione e prova.
Da un lato, il lavoratore deve, infatti, provare il fattore di rischio, il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, deducendo una correlazione significativa fra questi elementi che rende plausibile la discriminazione.
Dall’altro, il datore deve, invece, dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione.

Nel caso di specie, la Suprema Corte ritiene assolto il suddetto onere da parte dell’azienda, avendo la stessa provato sia la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento e, quindi, la necessità di riduzione di una unità di personale, sia la scelta necessitata della ricorrente quale persona da licenziare in ragione del divieto di recesso nei confronti dell'unica altra dipendente in forza, ai sensi dell'art. 54, comma 9, D.Lgs. 151/2001, avendo la stessa avuto in affidamento un bambino da pochi mesi.

A cura di Fieldfisher