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Cassazione: l’accordo collettivo aziendale non può derogare alla normativa sull’orario di lavoro


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Con la sentenza n. 27920 del 13.10.2021, la Cassazione afferma che la contrattazione collettiva aziendale non può neutralizzare la normativa inderogabile in materia, prevedendo la non computabilità nell’orario di lavoro del periodo necessario per raggiungere i luoghi di intervento e fare ritorno in sede.

Il fatto affrontato

Il lavoratore, impiegato con mansioni di tecnico esterno, impugna giudizialmente l'Accordo collettivo aziendale del 27.02.2013, nella parte in cui pone a carico del dipendente il periodo di franchigia di 15 o 30 minuti - necessari per raggiungere il primo punto di intervento e rientrare in sede a fine giornata - sottraendoli al computo dell'orario di lavoro.
La Corte d’Appello accoglie la predetta domanda e condanna la società datrice a corrispondere al ricorrente le differenze retributive commisurate a 30 minuti in più di attività lavorativa per ogni giornata di servizio, oltre accessori, come per legge.

La sentenza

La Cassazione - confermando quanto stabilito dalla Corte d’Appello - rileva, preliminarmente, che il tempo necessario al dipendente per recarsi sul luogo di lavoro deve essere considerato come lavorativo, ogniqualvolta lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione.

Secondo i Giudici di legittimità, anche alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria, il tempo occorrente per raggiungere il luogo di primo intervento e, di converso, per rientrare in sede dopo l'ultimo intervento è da computare nell’orario di lavoro, essendo strettamente funzionale all'esecuzione della prestazione.
Riguarda, infatti, il corretto adempimento di un obbligo nascente dal rapporto, in quanto attività preparatoria all'adempimento della prestazione lavorativa.

Per la sentenza, alla luce di tale chiaro principio, non può essere consentito alla contrattazione collettiva di neutralizzare, sia pure ai soli fini retributivi e contributivi, un periodo di lavoro in cui il dipendente sia stato effettivamente a disposizione del datore.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso della società, confermando la condanna della stessa a corrispondere le differenze retributive.

A cura di Fieldfisher