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Rifiuto del vaccino ? La soluzione non è licenziare ma sospendere


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La recente ordinanza del Tribunale di Belluno del 19 marzo scorso offre lo spunto per affrontare un tema di fondamentale importanza pratica per le aziende e gli operatori del diritto, rimasto in ombra nella massima parte dei commenti, relativo alla possibilità di sospendere unilateralmente e senza retribuzione i dipendenti che non si siano vaccinati contro il covid-19, pur avendo la possibilità di sottoporvisi. 

Beninteso, il discorso non riguarda soltanto gli operatori socio-sanitari che, com’è noto, rientrano nella prima posizione dell’ordine di priorità previsto dal “piano strategico nazionale per vaccinazione” adottato con Decreto del Ministero della Salute del 12 marzo 2021, seguiti dagli over 80, dal personale e dagli ospiti delle R.S.A., dal personale docente e non docente scolastico e universitario, dalle Forze Armate e di Polizia, dai servizi penitenziari, dalle persone con elevata fragilità, dalle persone tra i 70 e 79 anni e, a scendere, tra i 60 e 69 anni, dalle persone con comorbilità con meno di 60 anni, ed infine dal resto della popolazione con più di 16 anni. 

Infatti, nelle “raccomandazioni ad interim dei gruppi target” adottate dal Ministero della Salute il 10 marzo 2021 si è ribadita la possibilità, “qualora le dosi di vaccino lo permettano, [di] vaccinare all’interno dei posti di lavoro, a prescindere dall’età, fatto salvo che la vaccinazione venga realizzata in sede, da parte di sanitari ivi disponibili, al fine di realizzare un notevole guadagno in termini di tempestività, efficacia e livello di adesione”. Questa possibilità non sembra destinata a restare sulla carta, ove si pensi che nel secondo trimestre del 2021 sono attesi in Italia, stando ai contratti sottoscritti dall’Unione Europea, 10 milioni di Astrazeneca, 23 milioni di Pfizer, 4 milioni di Moderna e 7 milioni del monodose J&J (in attesa di autorizzazione delle autorità regolatorie). 

Alcune regioni, come la Lombardia ed il Veneto, si sono già attivate con l’approvazione di Protocolli d’intesa per l’estensione della campagna vaccinale anti covid-19 alle attività economiche e produttive e ad oggi, secondo la mappatura di Confindustria, oltre 7.000 realtà imprenditoriali hanno già manifestato la propria disponibilità. 

1. Il licenziamento del dipendente che rifiuti il vaccino anti covid-19 non è una soluzione praticabile in concreto 

Il dibattito dottrinale in corso dal dicembre scorso si è polarizzato, con un approccio a volte alquanto astratto, sulla sussistenza o meno di un diritto del datore di lavoro di imporre ai propri dipendenti la vaccinazione anti covid-19 e sulla possibilità o meno di licenziare quelli che rifiutino di sottoporvisi senza giustificato motivo.

Così improntata la questione, nella conclamata assenza (allo stato) di una legge che imponga il vaccino anti covid-19 a tutti o almeno a determinate categorie di lavoratori, l’art. 32 della Costituzione rappresenta una «spada di Damocle» per gli eventuali provvedimenti datoriali: in effetti, pur teoricamente ipotizzabile, il licenziamento del dipendente renitente al vaccino non è in concreto una soluzione percorribile, per una serie di ragioni.

Cominciamo con l’ipotesi del licenziamento disciplinare.

Il primo problema si pone già per l’individuazione stessa dei potenziali destinatari della contestazione disciplinare, dato che l’acquisizione dell’informazione sull’avvenuta vaccinazione o meno dei dipendenti configura un trattamento di dati personali particolari, soggetto alle disposizioni dell’art. 9 del G.D.P.R.

In particolare, nelle FAQ del 17 febbraio 2021, aventi ad oggetto il “trattamento di dati relativi alla vaccinazione anti Covid-19 nel contesto lavorativo”, il Garante della Privacy ha precisato che il datore di lavoro “non può chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale”, né può chiedere al medico competente di “comunicare i nominativi dei dipendenti vaccinati”, aggiungendo che neppure il consenso del dipendente potrebbe legittimare il trattamento dei dati, “in ragione dello squilibrio del rapporto tra titolare e interessato nel contesto lavorativo”.

Vero è che, come sostenuto, la vaccinazione anti covid-19 potrebbe rientrare tra i fatti “rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”, e quindi esulare dal divieto di indagini sulle opinioni sancito dall’art. 8 St. Lav.; ma restano pur sempre “vietati [gli] accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore”, ai sensi dell’art. 5 St. Lav., a cui fa eccezione soltanto la sorveglianza sanitaria ad opera del medico competente, alla stregua degli artt. 41 ss. del D.Lgs. n. 81/2008.

Nel merito, si potrebbe tentare di ravvisare un illecito disciplinare nella condotta del dipendente che rifiuti il vaccino anti covid-19 con il richiamo all’art. 20 del D.Lgs. n. 81/2008, che impone ad “ogni lavoratore [di] prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”.

Ma il tema è controverso, tant’è che l’Inail, nella Nota n. 2402 del 1° marzo 2021, ha osservato, in senso contrario, che “non si rileva allo stato dell’attuale legislazione in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, un obbligo specifico di aderire alla vaccinazione da parte del lavoratore”. In analoga prospettiva, con una recente pronuncia il Tribunale di Messina ha disapplicato il decreto assessorile che prevedeva l’obbligo di vaccinazione antinfluenzale per gli operatori socio-sanitari, rilevando che “la normativa volta a contrastare la diffusione del Covid-19 non ha introdotto un obbligo vaccinale per il personale sanitario” ( Trib. Messina 12/12/2020, n. 23455 ).

Ancor più ardua, come ha riconosciuto la dottrina, è la configurabilità di un elemento psicologico tale da integrare una grave mancanza a carico del dipendente che rifiuta di sottoporsi al vaccino anti Covid-19, trattandosi, come ricordato dall’Inail nella citata Nota, di un “esercizio della libertà di scelta del singolo individuo rispetto ad un trattamento sanitario” che, pur fortemente raccomandato, non è per il momento obbligatorio.

Per tali ragioni, l’irrogazione di una sanzione disciplinare espulsiva (sia per giusta causa sia per giustificato motivo soggettivo) esporrebbe i datori di lavoro ad un elevato e grave rischio di causa: infatti, il licenziamento potrebbe esser ritenuto nullo, in quanto discriminatorio e fondato esclusivamente sulle convinzioni personali del dipendente, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena dell’art. 18, comma 1, St. Lav. (e dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015 per gli assunti dopo il marzo 2015), indipendentemente dal numero di dipendenti occupati. 

In subordine, il giudice potrebbe ravvisare l’insussistenza del fatto contestato, comprendente “sia l’ipotesi del fatto materiale che si riveli insussistente, sia quella del fatto che, pur esistente, nondimeno non presenti profili di illiceità” (Cass. 28/05/2019, n. 14500; Cass. 25/03/2019, n. 8293), con conseguente applicazione della tutela reintegratoria minore dell’art. 18, comma 4, St. Lav. (e dell’art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 23/2015 per gli assunti dopo il marzo 2015), laddove l’azienda occupi più di 15 dipendenti.

Passiamo ora all’ipotesi del licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione (che presuppone peraltro un rovesciamento della prospettiva accennata in apertura del presente paragrafo, su cui amplius infra, nel paragrafo successivo).

Tale ipotesi di recesso, ascrivibile alla fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (come confermato dalla Nota dell’I.N.L. n. 298 del 24 giugno 2020), sconta oggi un primo, insormontabile, ostacolo costituito dal cd. blocco dei licenziamenti introdotto dalla normativa emergenziale e da ultimo esteso, con l’art. 7 del D.L. n. 41/2021, attualmente in corso di conversione, fino al 30 giugno 2021 in via sostanzialmente generale, e fino al 31 ottobre 2021 per i datori di lavoro che, per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica, fruiscano dei trattamenti di assegno ordinario, di cassa integrazione salariale in deroga e di cassa integrazione salariale operai agricoli.

L’eventuale licenziamento intimato in costanza del blocco risulterebbe pertanto nullo, con applicazione della tutela reintegratoria piena, indipendentemente dal numero di dipendenti occupati ( Trib. Ravenna 07/01/2021 ).

Ad ogni modo, nel merito, la strada per procedere a tale tipo di licenziamento appare piuttosto stretta, poiché l’inidoneità alla mansione può portare alla risoluzione del rapporto “soltanto quando realizzi una impossibilità sopravvenuta della prestazione, che deve essere valutata in relazione alla molteplicità dei possibili impieghi a cui il lavoratore può essere adibito in ambito aziendale; grava sul datore di lavoro l’onere di dedurre e provare la mancanza di mansioni confacenti” (Cass. 12/11/2019, n. 29289).

In tali casi, in particolare, la persistenza o meno di un interesse rilevante del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni deve esser oggetto di “una valutazione ex ante, e non già ex post, in cui si tenga conto delle dimensioni dell’impresa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva, della natura ed importanza delle mansioni del dipendente, del già maturato periodo di sua assenza, della ragionevole prevedibilità di ulteriore durata dell’impossibilità, della possibilità di affidare temporaneamente ad altri le mansioni senza necessità di nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell’assenza” (da ultimo Cass. 10/03/2021, n. 6714, in materia di carcerazione preventiva del dipendente; negli stessi termini già Cass. 07/06/2013, n. 14469).

Alla stregua di questi criteri non è agevole parlare di inidoneità alla mansione assoluta e permanente nel caso di un lavoratore che non si sottoponga al vaccino contro il covid-19: infatti, anche laddove dovesse persistere nel suo rifiuto, quest’ultimo ben potrebbe esser nuovamente ritenuto dal medico competente idoneo alla mansione, nell’arco di un tempo ragionevole, specialmente ove si pensi che il Covid-19, a detta degli scienziati, è auspicabilmente destinato a perder pericolosità e letalità con il progredire della vaccinazione di massa, il raggiungimento dell’immunità di gruppo e la messa in sicurezza delle persone a rischio.

Ad aggravare ulteriormente il rischio di causa per le aziende che, una volta cessato il blocco, volessero procedere al licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione, sta l’assenza di natura definitiva e vincolante del giudizio del medico competente, che potrebbe esser integralmente riformato, sia in sede di ricorso ex art. 41, comma 9, del D.Lgs. n. 81/2008, sia in sede giudiziaria. In effetti, “il legislatore, nell’affidare le operazioni di controllo della malattia del lavoratore ad organi pubblici per garantirne l’imparzialità, non ha inteso attribuire agli atti di accertamento compiuti insindacabile efficacia probatoria, tale da escludere il generale potere di controllo del giudice” (Cass. 10/10/2013, n. 23068; conformi Cass. 09/07/2019, n. 18399; Cass. 02/08/2018, n. 20468).

2. Il potere-dovere del datore di lavoro di intervenire nei confronti dei dipendenti non vaccinati per tutelare la salute e sicurezza degli stessi e dell’intero ambiente di lavoro

Rovesciando i termini di parte del dibattito dottrinario, ciò che occorre verificare non è tanto se il datore di lavoro abbia o meno il diritto di imporre la vaccinazione anti covid-19, bensì se abbia il potere-dovere, civilmente e penalmente sanzionato, di intervenire in caso di omessa vaccinazione, quale che ne sia il motivo, per tutelare la salute e sicurezza dei propri dipendenti e di eventuali terzi coinvolti.

La risposta è affermativa.

Il Tribunale di Belluno, con l’ordinanza in commento, ha infatti sancito che “la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. il quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei suoi dipendenti”, essendo “ormai notorio che il vaccino per cui è causa - notoriamente offerto, allo stato, soltanto al personale sanitario e non anche al personale di altre imprese, stante la attuale notoria scarsità per tutta la popolazione - costituisce una misura idonea a tutelare l’integrità fisica degli individui a cui è somministrato, prevenendo l’evoluzione della malattia”.

Né rileva, a detta del Tribunale di Belluno, il fatto che tutti gli altri dipendenti, o comunque la massima parte degli stessi, siano vaccinati contro il covid-19, in quanto permane pur sempre “il rischio per i ricorrenti di essere contagiati, essendo fra l’altro notorio che non è scientificamente provato che il vaccino per cui è causa prevenga, oltre alla malattia, anche l’infezione”.

A dir il vero il Tribunale di Belluno non ha detto niente di sorprendente, né occorre scomodare la normativa emergenziale, essendo la responsabilità datoriale in tali casi già prevista dal nostro ordinamento.

In particolare, con una recente pronuncia la Corte costituzionale, nell’escludere la denunciata invasione della competenza esclusiva statale ad opera della scrutinata legge regionale - non prevedendo la stessa alcuna sanzione per “l’eventuale rifiuto opposto da[gli] operatori sanitari di sottoporsi ai trattamenti vaccinali raccomandati dal PNPV per i soggetti a rischio per esposizione professionale” - ha precisato: “il che ovviamente non incide sugli ordinari obblighi ricadenti sul datore di lavoro in tema di sicurezza che restano, appunto, quelli delineati dalla disciplina statale sul punto, dettata in primo luogo dalla clausola generale di cui all’art. 2087 del codice civile e dalle previsioni contenute nel decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 … e, nell’ambito di queste, in particolare … dall’art. 279 in combinato disposto con gli artt. 17, 18 e 41” (Corte cost. 06/06/2019, n. 137, in stretta connessione con Corte cost. 18/01/2018, n. 5, entrambe redatte dall’attuale Ministro della Giustizia Marta Cartabia; sulla possibile responsabilità del datore di lavoro v. anche la citata Nota dell’Inail).

Il richiamato art. 279 del D.Lgs. n. 81/2008, relativo ai “lavoratori esposti ad agenti biologici”, è assurto in questi mesi agli onori della cronaca, specie dopo l’inserimento del Covid-19 tra gli agenti biologici di categoria 3 ad opera della Direttiva UE n. 739/2020, recepita dall’art. 4 del D.L. n. 125/2020, che implica la possibilità di un’applicazione generalizzata della norma del T.U.S:, non solo alle attività che espongano ad un rischio specifico endogeno (come le aziende sanitarie), ma ad ogni altro ambiente di lavoro a rischio di diffusione del Covid-19 (per esempio, in ragione dell’esercizio di attività a contatto con il pubblico).

In forza di tale norma - “qualora l’esito della valutazione del rischio ne rilevi la necessità”, come ben può diffusamente essere considerando che le aziende hanno provveduto ad aggiornare il D.V.R. con una specifica valutazione del rischio epidemico, prendendo atto della opinione prevalsa nel dibattito dottrinale e nella prassi degli enti pubblici competenti - il datore di lavoro deve:

• provvedere che “i lavoratori esposti ad agenti biologici siano sottoposti alla sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41”;
• nonché adottare, “su conforme parere del medico competente”, “misure protettive particolari”, tra cui “a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente; b) l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42 [del D.Lgs. n. 81/2008]”.

Inoltre, e comunque, restano i doveri di protezione imposti al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c., che “non si riferiscono solo alle attrezzature, ai macchinari ed ai servizi che egli fornisce o deve fornire, ma si estendono alla fase dinamica dell’espletamento del lavoro ed all’ambiente lavorativo, in relazione al quale le misure e le cautele da adottare devono prevenire sia i rischi insiti in quell’ambiente, sia i rischi derivanti dall’azione di fattori ad esso esterno ed inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova” (così, da ultimo, Cass. 20/11/2020, n. 26512 e App. Potenza 12/05/2020, n. 281, entrambe in materia di infezione contratta sul luogo di lavoro; cfr. anche Cass. 04/12/2020, n. 27913).

La responsabilità che discende dall’art. 2087 c.c. non ha, com’è noto, natura oggettiva; tuttavia, la stessa “non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psico-fisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio” (da ultimo Cass. 25/02/2021, n. 5255 e Cass. 15/07/2020, n. 15105).

In particolare, come ricorda la Cassazione, la responsabilità del datore di lavoro “è configurabile non solo allorquando la lesione del bene salute derivi dalla violazione di determinati obblighi imposti da specifiche norme di legge, ma anche allorquando detti obblighi siano suggeriti da conoscenze sperimentali o tecniche” (da ultimo Cass. 25/01/2021, n. 1509; negli stessi termini già Cass. 30/08/2000, n. 11427).

Alla luce di quanto sopra, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, può senz’altro rientrare tra le misure di precauzione imposte al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c. la somministrazione del vaccino anti covid-19 ai propri dipendenti, unitamente alle altre misure finora previste dal Protocollo condiviso sottoscritto da Governo e Parti sociali il 14 marzo - 24 aprile 2020, che continueranno comunque a trovare applicazione almeno per i primi tempi, fino a diverse indicazioni delle competenti autorità.

Né pare deporre in senso contrario il fatto che, ai sensi dell’art. 29-bis del D.L. n. 23/2020, “i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso …[de] il 24 aprile 2020”, in «combinato disposto» con il fatto che detto Protocollo non menziona espressamente il vaccino anti covid-19: in effetti, da una parte, risalendo ad un periodo anteriore alla creazione dei vaccini, il Protocollo non poteva contemplarli, e, d’altra parte, non può dirsi che esso preveda un numerus clausus di misure di prevenzione cristallizzate alla data della sua stipulazione, dato che, al in apertura “stabilisce” espressamente l’integrazione di tale misure “con altre equivalenti o più incisive secondo le peculiarità della propria organizzazione”, in una prospettiva dinamica analoga e parallela a quella dell’art. 2087 c.c..

Nell’immediato futuro, con la somministrazione del vaccino anti covid-19 ed il rispetto delle altre misure di precauzione dettate dal Protocollo, se e nella misura in cui le stesse saranno confermate, risulterà arduo ravvisare eventuali profili di responsabilità datoriale in caso di contagio sul luogo di lavoro. Merita a questo proposito richiamare una recente sentenza della Cassazione, avente ad oggetto una richiesta risarcitoria per la T.B.C. contratta da un tirocinante debitamente sottoposto a relativa vaccinazione, secondo cui “l’evento non poteva essere addebitato a colpa della struttura ospedaliera, perché, da un lato, non poteva essere garantita l’assoluta salubrità dell’ambiente di lavoro, in considerazione dell’ineliminabile presenza nel reparto di soggetti malati, dall’altro la vaccinazione, nella normalità dei casi, impedisce il contagio e la resistenza al vaccino, seppure possibile, non poteva essere ascritta al datore” (Cass. 10/12/2018, n. 31873).

3. La parola al medico competente: l’omessa vaccinazione anti covid-19 quale possibile causa di inidoneità alla mansione

L’art. 41 del D.Lgs. n. 81/2008, com’è noto, demanda al medico competente la sorveglianza sanitaria obbligatoria dei dipendenti in determinate ipotesi tassative (tra cui visita medica preventiva, periodica, su richiesta del lavoratore, in occasione del cambio di mansioni, alla cessazione del rapporto), nonché “nei casi previsti dalla normativa vigente”

Nell’ambito di quest’ultima ipotesi «aperta» rientra a buon diritto il citato art. 279 del D.Lgs. n. 81/2008, secondo cui “qualora l’esito della valutazione del rischio ne rilevi la necessità i lavoratori esposti ad agenti biologici sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41 [del D.Lgs. n. 81/2008]”

Alle stesse conclusioni, con specifico riferimento al contesto epidemico, conduce l’art. 83 del D.L. n. 34/2020, nel prevedere che, fino alla cessazione dello stato di emergenza, i datori di lavoro “assicurano la sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio”, alla stregua del richiamato art. 41 del D.Lgs. n. 81/2008. 

Nell’ambito della predetta sorveglianza sanitaria eccezionale il medico competente “può trattare i dati personali relativi alla vaccinazione dei dipendenti e, se del caso, tenerne conto in sede di valutazione dell’idoneità alla mansione specifica” (v. le citate FAQ del Garante della Privacy). 

In effetti, preso atto dell’assenza di vaccinazione anti covid-19 in capo al dipendente sottoposto al suo esame, il medico competente, alla stregua del D.V.R. debitamente aggiornato, potrebbe rendere un giudizio di idoneità alla mansione parziale o con limitazioni e prescrizioni, se non proprio un giudizio di inidoneità alla mansione, tendenzialmente temporanea, per intuibili ragioni di tutela dello stesso dipendente e di tutti coloro che a vario titolo accedono al luogo di lavoro (come, paradigmaticamente, nel caso delle aziende sanitarie). 

Al che entrano in gioco sia l’art. 42 del D.Lgs. n. 81/2008, che impone al datore di lavoro di adibire il dipendente ritenuto inidoneo, “ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”, sia l’art. 279, lett. b), del D.Lgs. n. 81/2008, che prevede, in subordine, “l’allontanamento temporaneo del lavoratore”

In tal caso, quindi, il datore di lavoro deve preliminarmente verificare la possibilità di ricollocare il dipendente ritenuto inidoneo, in quanto non vaccinato contro il covid-19, in altri contesti, attività e mansioni, anche inferiori, che non presentino fattori di rischio contagio, ossia occasioni di contatto con i colleghi e l’utenza (si pensi al lavoro agile). 

Ma ciò il datore di lavoro deve fare, come prescrive il citato art. 42 del D.Lgs. n. 81/2008, soltanto “ove possibile”: tale inciso “contempera il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio dell’impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l’obbligo di ricercare - anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto - le soluzioni che, nell’ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore e lo grava, inoltre, dell’onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l’attuazione dei detti diritti” (da ultimo Cass. 09/03/2021, n. 6497; Cass. 18/11/2019, n. 29893). 

In questa prospettiva, l’onere datoriale di ricerca di un’utile ricollocazione trova un limite - per dirla con la giurisprudenza in tema di “accomodamenti ragionevoli” in favore dei disabili, ai sensi dell’art. 3, comma 3-bis, del D.Lgs. n. 216/2003, introdotto dalla L. n. 99/2013 - “nell’organizzazione interna dell’impresa e, in particolare, nel mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa stessa nonché nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l’esperienza e la professionalità acquisita” (da ultimo Cass. 23/02/2021, n. 4896; Cass. 19/12/2019, n. 34132; Cass. 28/10/2019, n. 27502). 

Pertanto, non è imputabile al datore di lavoro l’omessa ricollocazione del dipendente ritenuto inidoneo dal medico competente, in quanto non vaccinato contro il covid-19, laddove, per il tipo di mansioni svolte o per le ricadute pregiudizievoli sull’organizzazione aziendale, risulti impossibile ovvero eccessivamente onerosa, anche in termini di efficacia e produttività della prestazione, l’adibizione al lavoro agile o a mansioni amministrative (come nel caso degli operatori socio-sanitari). 

4. La cd. “sospensione sanitaria” del dipendente ritenuto inidoneo alla mansione e non ricollocabile

Ove non sia possibile procedere alla ricollocazione nei termini di cui sopra, il datore di lavoro deve prontamente allontanare il dipendente dalle mansioni per le quali è stato ritenuto inidoneo dal medico competente, e deve comunque rifiutarne la prestazione lavorativa, ove offerta, per non incorrere in responsabilità civile, penale e, ricorrendone i presupposti, ex art. 25-septies del D.Lgs. n. 231/2001.

È notizia di queste ore che la Procura di Genova ha aperto un fascicolo per omicidio colposo in relazione al focolaio scoppiato nel reparto di Pneumologia covid-free del Policlinico San Martino di Genova, ipotizzando una responsabilità colposa del datore di lavoro per aver permesso a un’infermiera che aveva rifiutato il vaccino anti covid-19 di lavorare in quel reparto.

Ebbene, in un primo momento, pur provvisoriamente, l’obiettivo dell’allontanamento può esser realizzato con la collocazione in ferie forzate del dipendente non vaccinato contro il covid-19, come accaduto in recenti casi di cronaca(https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/bari/cronaca/21_marzo_28/a-brindisi-400-no-vax-l-asl-non-fara-sconti-ora-cambino-lavoro-37aa3eaa-8f9a-11eb-b366-1b9468b0f67d.shtml).

Questa soluzione ha passato il vaglio del Tribunale di Belluno che, con l’ordinanza in commento, nell’ambito del bilanciamento suggerito dall’art. 2109 c.c., ha reputato “prevale[nte] sull’eventuale interesse del prestatore di lavoro ad usufruire di un diverso periodo di ferie, l’esigenza del datore di lavoro di osservare il disposto di cui all’art. 2087 c.c.”.

Il Tribunale di Belluno non si è però pronunciato sulla possibilità per il datore di lavoro, alla scadenza delle ferie, di sospendere il rapporto e la retribuzione dei dipendenti non vaccinati contro il covid-19, per il rilevato difetto di periculum in mora, (“non essendo stato allegato da parte ricorrente alcun elemento da cui poter desumere l’intenzione del datore di lavoro di procedere alla sospensione dal lavoro senza retribuzione e al licenziamento”).

La questione rimane allo stato impregiudicata e sembra destinata a far discutere anche a seguito dell’emanazione del decreto legge preannunciato pochi giorni fa dal Presidente Draghi, che imporrà l’obbligo di vaccinazione anti covid-19 agli operatori socio-sanitari, pena, stando a quanto riportato dalle notizie di stampa, l’adibizione ad altre mansioni o in subordine la sospensione.

In realtà, in questi termini il decreto-legge non parrebbe caratterizzato da una particolare portata innovativa, dato che già oggi si può (e si deve) pervenire al medesimo risultato, ossia la sospensione dell’operatore socio-sanitario non vaccinato contro il covid-19, ritenuto inidoneo alla mansione e non ricollocabile.

In effetti, nell’attuale contesto normativo e pandemico, in presenza di un’accertata inidoneità (temporanea) alla mansione, derivante dall’assenza di vaccinazione anti covid-19, il datore di lavoro può, anzi deve, in forza dei doveri di protezione imposti dall’art. 2087 c.c. e dall’ulteriore normativa sopracitata, far ricorso alla cd. “sospensione sanitaria” del rapporto di lavoro, come ripetutamente sancito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 26/01/2005, n. 1536; Cass. 04/06/1998, n. 5502; Cass. 12/07/1995, n. 7619) e di merito (Trib. Forlì 18/06/2019, n. 206; App. Brescia 18/06/2019, n. 259; Trib. Marsala 29/05/2019, n. 360; App. Torino 15/02/2018, n. 943; Trib. Velletri 11/01/2018, n. 28; Trib. Bari 29/05/2017, n. 2540; Trib. Civitavecchia 26/01/2017, n. 55, tutte pubblicate in Dejure).

Si tratta di una sospensione atipica del rapporto di lavoro, che il datore di lavoro può unilateralmente disporre “anche in assenza di disposizioni collettive applicabili, in ragione della temporaneità dell’impedimento … sino alla rimozione della limitazione” (Trib. Verona 02/11/2015, n. 6750, in Dir. rel. ind., 2016, 266; in analoga prospettiva Trib. Asti 10/11/2006, in Dejure).

5. È possibile sospendere anche la retribuzione?

La richiamata giurisprudenza ha ritenuto in tali casi legittima anche la sospensione della retribuzione, allocando tuttavia in capo al datore di lavoro “il rischio di un ribaltamento dell’esito della verifica di idoneità tale da escludere la sussistenza di una causa di sospensione del rapporto, posto che viene meno in radice la causa di giustificazione del rifiuto datoriale e permane nella sua interezza la principale obbligazione datoriale … pur avendo il datore di lavoro assolto al proprio obbligo di verifica delle condizioni di salute del lavoratore, risponde della mancata prestazione e quindi è tenuto a risarcire il danno rappresentato dal mancato versamento della retribuzione” (paradigmaticamente, Trib. Velletri 11/01/2018, n. 28, in Dejure). 

In questa prospettiva potrebbe quindi configurarsi una responsabilità risarcitoria datoriale per le retribuzioni sospese laddove in sede di ricorso ex art. 41, comma 9, del D.Lgs. n. 81/2008, oppure in sede giudiziaria (stante l’assenza di definitività di detti provvedimenti), in contrasto con le valutazioni del medico competente, il dipendente venisse ritenuto idoneo ab origine alla mansione, anche se non vaccinato contro il covid-19 (in questo caso verrebbe infatti meno la causa che aveva portato alla sospensione del rapporto di lavoro).

Diversa è l’ipotesi in cui il dipendente sospeso venga successivamente ritenuto idoneo alla mansione nell’ambito della visita periodica davanti al medico competente (ad es. perché nel frattempo si è vaccinato, o perché sono mutate le condizioni dell’ambiente di lavoro, o in generale perché è venuta meno la pericolosità del covid-19, ecc.): in questo caso, infatti, l’obbligazione retributiva si riattiverebbe soltanto ex nunc, contestualmente alla riadibizione del dipendente alle originarie mansioni.

Per converso, è ragionevolmente configurabile una responsabilità risarcitoria per le retribuzioni sospese in capo al datore di lavoro che non dimostri, con onere probatorio a suo carico, di aver compiutamente svolto tutte verifiche del caso, prima di procedere alla sospensione del rapporto di lavoro, in ordine alla possibile ricollocazione del dipendente ritenuto dal medico competente inidoneo alla mansione.

Difficilmente, invece, sarà possibile sospendere anche la retribuzione nell’ipotesi in cui il lavoratore ritenuto inidoneo alla mansione, in quanto non vaccinato contro il covid-19, dia prova, con onere probatorio a suo carico, dell’esistenza di comprovate e medicalmente accertate ragioni ostative all’assunzione del vaccino (ad es. donne in gravidanza e immunodepressi).

6. Postilla

Anche se (forse) privo di reale portata innovativa, il preannunciato decreto legge sugli operatori socio-sanitari potrà certo aiutare le autorità competenti, specie nel settore pubblico, a gestire il non trascurabile numero di renitenti al vaccino anti covid-19, che sono causa di focolai, come dimostrano i più recenti casi di cronaca.

Il decreto legge avrà poi un importante effetto simbolico, per soverchiare ineffabili prese di posizione come quella, pochi giorni fa, dalla Federazione Nazionale Professioni sanitarie e socio sanitarie (Migep): “chiediamo … che nessuno sia discriminato per non essere stato vaccinato, a causa di possibili rischi per la salute o per non voler essere vaccinato, senza prevedere sanzioni o dichiarazioni di non idoneità al lavoro … riteniamo che nessun operatore sanitario possa essere costretto a sottoporsi a vaccinazione obbligatoria … chied[iamo] la sospensione degli effetti e l’annullamento di tutti i provvedimenti e le disposizioni aventi ad oggetto l’obbligo della vaccinazione per tutti gli operatori sanitari, a qualsiasi titolo operanti presso strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private” (https://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=93024).

In ogni caso, la limitazione del decreto legge preannunciato dal Governo alle sole strutture ospedaliere, ossia le realtà aziendali ad oggi più direttamente ed inevitabilmente coinvolte, non escluderà a contrario la configurabilità dei problemi analizzati nel presente articolo in altri contesti lavorativi pur esposti ad un significativo rischio di diffusione del Covid-19, come quelli che comportano un contatto con il pubblico od altri caratterizzati da particolari modalità di prestazione dell’attività lavorativa che impediscono un adeguato “distanziamento sociale”. E ciò perché sullo sfondo resterà pur sempre, con tutta la sua portata generale e la sua inesauribile capacità espansiva, il «vecchio», ma modernissimo, articolo 2087 del codice civile.

Luca Antonetto - Avvocato Partner Fieldfisher & Giuseppe Paone Senior Manager FieldFisher