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Riproporzionamento dei permessi ex L. 104/1992 nel part-time verticale: interpretazione di legittimità e indicazioni INPS.


calcolo riproporzionamento permessi L. 104/1992
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Un interessante dibattito è sorto con riferimento alla corretta modalità di possibile riproporzionamento dei permessi ex art. 33 L. 104/1992 di un lavoratore part time verticale, alla luce della mess. n. 3114 del 7.08.2018 dell' INPS, rispetto alla sentenza n. 22925 del 29 settembre 2017 della Corte di Cassazione che rifiuta detto riproporzionamento.

1. L’ambito di discussione

In primo luogo, la circolare citata, al punto 2 “Riproporzionamento giornaliero dei permessi di cui all’articolo33, commi 3 e 6, della legge n. 104/92 in caso di rapporto di lavoro part-time” è molto chiara nel fornire “la formula di calcolo da applicare ai fini del riproporzionamento dei 3 giorni di permesso mensile ai casi di part-time verticale e part-time misto con attività lavorativa limitata ad alcuni giorni del mese”.

La formula dell’Istituto fornisce un parametro di calcolo che per un lavoratore part time – verticale o misto – inequivocabilmente conduce a un numero di giorni inferiore ai tre previsti dalla legge 104/1992.

L’indicazione dell’INPS – emessa senza alcuna spiegazione se non il generico riferimento all’art. 7 del D.Lgs. 81/2018 secondo cui il “trattamento economico e normativo” del lavoratore part time “è riproporzionato in ragione della ridotta entità” della sua prestazione lavorativa – è, dunque, orientata a un possibile e lecito riproporzionamento del numero complessivo dei giorni di permesso mensili ex lege 104/92 spettanti al lavoratore part time.

Al di là dell’indicazione dell’INPS – di parte, in quanto trattasi dell’ente che sostiene il peso economico della fruizione dei detti permessi – occorre vagliare il valore normativo della circolare e, dunque, la possibilità di detto documento di vincolare soggetti terzi rispetto all’ente stesso. Le circolari vengono emesse per diramare le istruzioni operative a seguito dell’introduzione di una novità legislativa, della pubblicazione di una sentenza particolarmente significativa della Corte Costituzionale o delle Sezioni Unite della Cassazione o di uno specifico interpello. In questo modo, la circolare non fa altro che “spiegare” come la Pubblica Amministrazione deve comportarsi innanzi alle richieste dell’utenza o nell’organizzazione dell’ufficio medesimo. La circolare, quindi, non è una fonte del diritto e non si rivolge al cittadino (ex multis Cass. Sez. Trib., 10 marzo 2017 n. 6185). Pertanto, se una circolare interna interpreta una legge in modo difforme da quella che è invece l’interpretazione autentica – ossia la volontà originaria del legislatore che viene fornita, data la sua funzione nomofilattica, dalla Corte di Cassazione –, il cittadino che non ha ricevuto il riconoscimento del proprio diritto può rivolgersi al giudice, il quale sarà conseguentemente tenuto a disapplicare la circolare in quanto non vincolante.

 

2. L’interpretazione della Suprema Corte alla luce della chiara gerarchia delle fonti

Rilevato il valore interno di una circolare, la sentenza n. 22925 del 29 settembre 2017 della Corte di Cassazione Sez. Lav., pedissequamente ripresa dalla Suprema Corte con la recentissima sentenza n. 4069 del 20 febbraio 2018, in assenza di precedenti, ha statuito che il diritto a usufruire dei permessi ex art. 3 L. 104/1992 costituisce un diritto del lavoratore part time, anche verticale o misto, non comprimibile e da riconoscersi in misura identica a quella del lavoratore a tempo pieno. E ciò per le seguenti ragioni.

La L. n. 104 del 1992, art. 33, riconosce al lavoratore dipendente il diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. La questione che si pone è se detti permessi mensili attribuiti al lavoratore debbano o meno essere riproporzionati nell'ipotesi in cui il medesimo osservi un orario di lavoro part time, verticale o misto.

Il D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 4 (Testo unico sul part-time), dopo aver sancito al primo comma il principio di non discriminazione in base al quale il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a pieno, individua alla lettera a) “i diritti” del lavoratore con orario part-time e alla successiva lett. b) i “i trattamenti” economici che possono essere riproporzionati.

Secondo la miglior dottrina, il legislatore ha inteso, inoltre, precisare che “il divieto di discriminazione comporta, per il lavoratore part time, il godimento integrale degli stessi diritti di cui beneficia il lavoratore a tempo pieno “comparabile” che non sono suscettibili di riproporzionamento, in quanto la loro attribuzione, titolarità ed esercizio deve prescindere (per la loro natura intrinseca o per scelta del legislatore) dal fatto che la prestazione sia effettuata a orario ridotto (es. retribuzione oraria e ferie annuali). Per contro, il trattamento riservato al lavoratore part time va riproporzionato (c.d pro rata temporis) in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa, con riferimento agli istituti rispetto ai quali si ritiene rilevante l’effettuazione di una prestazione a orario ridotto (ad es. l’importo della retribuzione globale e della retribuzione feriale)” (Diritto del Lavoro, Edoardo Ghera, Cacucci Editore, 2011. pp 385).

Con l’art. 4 del D.Lgs. 61/2000, dunque, il legislatore, in dichiarata attuazione del principio di non discriminazione, ha inteso distinguere fra:
istituti che hanno una connotazione patrimoniale, che si pongono in stretta corrispettività con la durata della prestazione lavorativa, rispetto ai quali è stato ammesso il riproporzionamento del trattamento del lavoratore;
istituti riconducibili a un ambito di diritti a connotazione non strettamente patrimoniale, che si è inteso salvaguardare da qualsiasi riduzione connessa alla minore entità della durata della prestazione lavorativa.

In assenza di specifica disciplina, (nè la lettera a) nè la lettera b) del citato articolo menzionano i permessi in esame) occorre ricercare tra le possibili opzioni offerte dal dato normativo –superiore al valore di una circolare e vincolante per cittadini e giudici – quella maggiormente aderente al rilievo degli interessi in gioco e alle sottese esigenze di effettività di tutela. Tutto ciò, in coerenza con le fonti di rango costituzionale, quali gli art. 2 e 32 della nostra Costituzione, e di rango primario, quali le indicazioni comunitarie di cui alla direttiva 97/81/CE relativa all’accordo quadro sul tempo parziale, l’art. 26 “Inserimento dei disabili” della Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e gli artt. 5 “Eguaglianza e non discriminazione” e 27 “Lavoro e occupazione” della Convenzione di New York del 3 settembre 2006 (Convenzione O.N.U. sul diritto alle Persone con disabilità), ratificata dall’Italia con la L. 2 marzo 2009, n. 18 (cfr. in tal senso Cass. citata).

Ciò posto, come correttamente rileva la Corte Costituzionale, “il permesso mensile retribuito di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, costituisce espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell'assistenza di un parente disabile grave” (Corte Cost. n. 213 del 2016, n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007).

La ratio legis dell'istituto in esame consiste nel favorire l'assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare e l'interesse primario cui è preposta la norma in questione è quello di “assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare”. Si tratta, in definitiva, di una misura destinata alla tutela della salute psico-fisica del disabile quale diritto fondamentale dell'individuo tutelato dall'art. 32 Cost., che rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all'uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.).

 

3. Conclusioni

Tenuto conto, pertanto, delle finalità dell'istituto, disciplinato dalla L. n. 104 del 1992, art. 33, attinenti, come sopra evidenziato, a diritti fondamentali dell'individuo (art. 32 Cost.), sulla base, altresì, della normativa comunitaria e internazionale, regolarmente ratificata dall’Italia, deve concludersi che il diritto a usufruire dei permessi costituisce un diritto del lavoratore non comprimibile e da riconoscersi in misura identica a quella del lavoratore a tempo pieno.

Occorre, infine, rilevare che dal complesso delle fonti sopra richiamate emerge la necessità, comunque, di una valutazione comparativa delle esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori. Secondo la Corte di Cassazione il risultato di detta analisi è “una distribuzione in misura paritaria degli oneri e dei sacrifici connessi all'adozione del rapporto di lavoro part time e, nello specifico, del rapporto part time verticale. In coerenza con tale criterio, valutate le opposte esigenze, appare ragionevole distinguere l'ipotesi in cui la prestazione di lavoro part time sia articolata sulla base di un orario settimanale che comporti una prestazione per un numero di giornate superiore al 50% di quello ordinario, da quello in cui comporti una prestazione per un numero di giornate di lavoro inferiori, o addirittura limitata solo ad alcuni periodi nell'anno e riconoscere, solo nel primo caso, stante la pregnanza degli interessi coinvolti e l'esigenza di effettività di tutela del disabile, il diritto alla integrale fruizione dei permessi in oggetto".

In sintesi, unica eccezione al principio di non compressione del diritto del lavoratore part time al godimento in misura integrale dei permessi ex lege 104 al pari di un lavoratore full time, è quella dell’ipotesi di un orario part time inferiore al 50%. In questa circostanza, dunque, potrebbe trovare corretta e legittima applicazione la formula individuata dall’INPS nel mess. n. 3114 del 7.08.2018.

a cura di Avv. Alessandro De Giobbi - Fieldfisher