Con la sentenza n. 557 del 29.03.2023, il Tribunale di Cosenza afferma che, al fine di ottenere un risarcimento del danno dal datore, non è sufficiente la verosimiglianza della natura lavorativa della patologia denunciata dal dipendente.
Il fatto affrontato
La lavoratrice, al termine del rapporto, ricorre giudizialmente contro il suo ex datore, al fine di richiedere un risarcimento dei danni biologico e morale, scaturiti da una sindrome depressiva ansiosa, pari ad € 92.345,00.
A fondamento della predetta domanda, la medesima deduce – tra le altre cose – di essere stata costretta ad un surplus lavorativo, consistente nell’osservanza di un orario di lavoro ben superiore a quello contrattualmente previsto e nella necessità di recarsi, con cadenza almeno mensile, in trasferte fuori regione.
La sentenza
Il Tribunale afferma, preliminarmente, che il lavoratore che chiede la condanna del datore al risarcimento del danno morale e biologico subito a causa della lesione di un proprio diritto deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale.
Secondo il Giudice, tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all'art. 2697 c.c.
Nel caso di specie, la dipendente non è stata in grado di fornire detta prova, avendo soltanto fornito un certificato medico privo di alcuna indicazione circa la "possibile o verosimile" origine della patologia ed una relazione di parte da cui emerge la verosimiglianza dello stress lavorativo quale origine della malattia ma solo perché ciò è stato indicato dalla medesima lavoratrice.
Su tali presupposti, il Tribunale di Cosenza rigetta il ricorso della lavoratrice.
A cura di Fieldfisher