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Corte Costituzionale: reintegra obbligatoria se il fatto posto alla base del licenziamento per g.m.o. è insussistente


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Con la sentenza n. 59 del 01.04.2021, la Corte Costituzionale afferma l’incostituzionalità dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori nella parte in cui prevede che il giudice, una volta accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, possa facoltativamente e non debba obbligatoriamente applicare la tutela reintegratoria (sul medesimo tema si veda: Corte Costituzionale: licenziamento per g.m.o., reintegra obbligatoria in caso di insussistenza del fatto).

Il caso affrontato

Il lavoratore impugna giudizialmente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogatogli dalla società datrice.
Il Tribunale di Ravenna, chiamato a decidere sulla controversia, solleva questione di costituzionalità in ordine all’art. 18 della L. 300/1970 – così come novellato dalla c.d. riforma Fornero – nella parte in cui prevede, in caso di accertamento dell’insussistenza del g.m.o. posto a base del recesso, la discrezionalità del giudice nella scelta tra la tutela reintegratoria e quella esclusivamente risarcitoria.
In particolare, secondo il Giudice rimettente contrasterebbe con gli artt. 3, 24, 41 e 111 della Costituzione, la previsione di un regime di tutela oggettivamente difforme – a fronte di una medesima insussistenza del fatto – in caso di licenziamento per ragioni economiche e per motivi disciplinari, ipotesi quest’ultima per cui si applica obbligatoriamente la tutela reale attenuata.

La sentenza

La Consulta rileva, preliminarmente, che la norma censurata, prevedendo la reintegra come meramente facoltativa, risulta non in armonia con il sistema sanzionatorio delineato dalla c.d. riforma Fornero.

Per la sentenza, infatti, detta “disarmonia” è ravvisabile nella previsione di rimedi ingiustificatamente diversificati (uno obbligatorio e l’altro puramente facoltativo) nell’analoga ipotesi di manifesta insussistenza del fatto in relazione alle due fattispecie di licenziamento, rispettivamente quello disciplinare e quello per giustificato motivo oggettivo.
Scelta questa che rappresenta, dunque, una violazione dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza.

Secondo la Corte, tuttavia, ciò non significa che al giudice si riconosce una discrezionalità che sconfini in un sindacato di congruità e di opportunità delle scelte imprenditoriali, ma si traduce in una misura che garantisce che il licenziamento rappresenti una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio.

Su tali presupposti, la Corte Costituzionale dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare», invece che «applica altresì», la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma”.

A cura di Fieldfisher