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Fallimento e rapporti di lavoro: relazioni intercorrenti e questioni processuali


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1. Effetti della dichiarazione di fallimento

Quando la crisi aziendale sfocia in una procedura fallimentare, sono tanti i problemi con i quali anche il giuslavorista deve fare i conti.
Il rapporto tra diritto del lavoro e diritto fallimentare è da sempre costellato da molteplici difficoltà interpretative ed applicative.
Nel momento in cui viene dichiarato il fallimento di una società, il rapporto di lavoro in essere con la stessa rimane sospeso in attesa della dichiarazione del curatore, il quale, ai sensi dell' art. 72 L. Fall., può scegliere di proseguire nel rapporto medesimo ovvero di sciogliersi da esso, salvo il caso in cui sia disposto l'esercizio provvisorio dell’impresa in cui vige la regola della prosecuzione automatica di tutti i rapporti pendenti, salva la facoltà del curatore di scegliere se sospenderli o scioglierli (art. 104, comma 7, L. Fall.).
In assenza di un esercizio provvisorio della curatela, il rapporto di lavoro - come già accennato - resta sospeso nella sua esecuzione, in attesa delle decisioni del curatore, e, difettando l'esecuzione della prestazione lavorativa, viene meno l'obbligo di corrispondere al prestatore la retribuzione ed i contributi (Cass., Sez. Lav., 14 Maggio 2012, n. 7473).
Nel caso in cui il curatore deliberi di subentrare nel rapporto di lavoro, esso prosegue con l'obbligo di adempimento per entrambe le parti delle prestazioni corrispettive.
Ove, invece, il curatore intenda sciogliersi dal rapporto di lavoro dovrà farlo nel rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi, non essendo in alcun modo sottratto ai vincoli propri dell'ordinamento lavoristico. La necessità di tutelare gli interessi della procedura fallimentare non esclude l'obbligo del curatore di rispettare le norme in generale previste per la risoluzione dei rapporti di lavoro (Cass., Sez. Lav., 11 Gennaio 2018, n. 522).
Il lavoratore può reagire al recesso intimato dal curatore con gli ordinari rimedi impugnatori e, ove venga giudizialmente accertato che il licenziamento è stato intimato in difformità dal modello legale, la curatela è esposta alle conseguenze derivanti dall'illegittimo esercizio del potere unilaterale, con conseguente diritto del dipendente ad essere ammesso al passivo per il riconoscimento di stipendi e TFR illegittimamente non corrisposti (Cass., Sez. Lav., 23 Marzo 2018, n. 7308).

2. Le questioni processuali "di rito"

L’argomento più dibattuto e di più difficile risoluzione è sicuramente quello inerente le questioni processuali: davanti a quali giudice il lavoratore deve far valere i propri diritti nei confronti dell’azienda fallita?
In questo panorama si inserisce l’art. 24 L. Fall., il quale, prevedendo che “Il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore”, introduce un rito speciale per le azioni proposte contro il fallimento che incidono sul patrimonio del fallito.
In ossequio al principio della par condicio creditorum, anche le azioni dei lavoratori, tese esclusivamente al riconoscimento di specifici diritti a contenuto patrimoniale da far valere nel passivo fallimentare, devono essere incardinate dinnanzi al tribunale fallimentare.
Di contro, secondo la posizione tradizionale della giurisprudenza, di competenza del giudice del lavoro sono le cause aventi ad oggetto: l’accertamento della pregressa esistenza del rapporto di lavoro con il datore poi fallito; la legittimità o meno della risoluzione del rapporto; la reintegrazione nel posto di lavoro o la prosecuzione del rapporto; l’accertamento della corretta qualifica rivestita (ex plurimis Cass., Sez. Lav., 10 Marzo 1992, n. 2902).
La distinzione tra giudice del lavoro e giudice fallimentare è stata oggetto anche di un giudizio della Corte Costituzionale, la quale interrogata circa la legittimità costituzionale dell'art. 24 L. Fall., in riferimento agli art. 3 e 25 Cost., ha dichiarato non fondata la questione, sostenendo che l’efficacia attrattiva della competenza del tribunale fallimentare è inerente esclusivamente alle conseguenze patrimoniali di qualunque pronuncia di accertamento o costitutiva inerente ad un rapporto di lavoro (Corte Cost., 7 Luglio 1988, n. 778).

Non discostandosi da questo principio, la Suprema Corte ha attribuito al tribunale fallimentare l’autonoma facoltà di conoscere, ma solo incidenter tantum, dei vizi inerenti il licenziamento, allorquando la domanda del lavoratore fosse volta all’accertamento dell’illegittimità del recesso datoriale per poter essere unicamente ammesso al passivo per il conseguente credito risarcitorio (nella specie si trattava di un dirigente, categoria per la quale era prevista una tutela esclusivamente risarcitoria) (Cass., Sez. Lav., 18 Agosto 1999, n. 8708).

In particolare, la giurisprudenza ha affermato che, nel caso in cui un lavoratore agisca in giudizio chiedendo, con la dichiarazione di illegittimità o inefficacia del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro nei confronti del datore dichiarato fallito, permane la competenza funzionale del giudice del lavoro, in quanto la domanda proposta non è configurabile come mero strumento di tutela di diritti patrimoniali da far valere sul patrimonio del fallito, ma si fonda anche sull'interesse del prestatore a tutelare la sua posizione all'interno della impresa fallita, sia per l'eventualità della ripresa dell'attività lavorativa (in relazione ad un esercizio provvisorio, ad una cessione dell'azienda o alla ripresa della sua amministrazione da parte del fallito a seguito di concordato fallimentare), sia per tutelare i connessi diritti non patrimoniali ed i diritti previdenziali (indennità di cassa integrazione, di disoccupazione, di mobilità), che rimangono estranei all'esigenza della par condicio creditorum (Cass., Sez. Lav., 29 Marzo 2011, n. 7129; Cass., Sez. Lav., 3 Febbraio 2017, n. 2975Cass., Sez. Lav., 6 Ottobre 2017, n. 23418: nella specie si riferiva alla domanda giudiziale di un lavoratore tesa all’accertamento di una qualifica superiore).

La giurisprudenza di legittimità ha statuito, altresì, la sussistenza della competenza del giudice del lavoro non soltanto per la cognizione delle domande del lavoratore di impugnazione del licenziamento e di condanna del datore alla reintegrazione nel posto di lavoro, in quanto dirette ad ottenere una pronuncia costitutiva, ma anche per la cognizione della domanda di condanna generica al risarcimento dei danni mediante il pagamento di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione, trattandosi di istanza meramente riproduttiva del contenuto dell'art. 18, quarto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 ( nella versione ante Riforma Fornero) e consequenziale alle richieste principali di dichiarazione di inefficacia del licenziamento. Ciò non comporta alcun accertamento aggiuntivo sul quantum del risarcimento e non impone, quindi, lo scorporo della domanda per la preventiva verifica in sede di accertamento dello stato passivo avanti ai competenti organi della procedura concorsuale a tutela degli altri creditori. Risultando totalmente inutile una verifica simile, idonea soltanto ad appesantire ingiustificatamente la durata del processo (Cass., Sez. Lav., 25 Febbraio 2009, n. 4547).
Posizione confermata anche più recentemente dalla Suprema Corte, allorquando la stessa ha statuito che, in caso di fallimento della società datrice, compete al giudice del lavoro la cognizione non soltanto sulle domande del prestatore di impugnazione del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro, in quanto dirette ad ottenere una pronuncia costitutiva, ma anche su quelle volte ad ottenere la condanna generica al risarcimento dei danni mediante il pagamento di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione (Cass., Sez. Lav., 29 Settembre 2016, n. 19308).

2.1 Il caso del trasferimento d'azienda

Di notevole interesse appare anche la pronuncia, con la quale la Cassazione, oltre ad aderire al suddetto orientamento, esplicita il rapporto intercorrente tra fallimento e cessione di ramo d’azienda.
In particolare, la Suprema Corte statuisce che la domanda volta a far dichiarare la nullità, l'invalidità o l'inefficacia degli atti di cessione del ramo di azienda e la conseguente domanda di condanna al ripristino del rapporto di lavoro con la cedente appartengono, anche in caso di fallimento della cessionaria, alla cognizione del giudice del lavoro, quale giudice del rapporto e delle controversie relative allo status del lavoratore, non costituendo l'accertamento richiesto in tali ipotesi premessa di una pretesa economica nei confronti della massa fallimentare e non richiedendo, dunque, la cognizione del giudice fallimentare (Cass., Sez. Lav., 23 Gennaio 2018, n. 1646).

A cura di Fieldfisher