Stampa

Il trasferimento dell’ azienda in crisi nell’ambito di una procedura liquidatoria


Il trasferimento di imprese interessate da procedure liquidatorie -  Seguendo uno schema identico a quello seguito dal comma 4-bis dell’art. 47 della legge n. 428/1990 , il successivo comma 5 elenca preliminarmente le procedure che devono ricorrere perché ci si possa più ampiamente discostare, nei termini che ci si accinge a precisare, dall’art. 2112 c.c.

La prima di tali procedura è la liquidazione giudiziale, cosicché risulta presupposta una situazione di insolvenza di un’impresa commerciale che non abbia la dimensione di impresa minore (art. 121 del Codice della crisi).

La seconda è costituita dal “concordato preventivo liquidatorio”, che presuppone i requisiti soggettivi richiesti in generale per tale procedura. Il Codice non fornisce una nozione di concordato liquidatorio, nozione che si ricava indirettamente da quella del concordato in continuità: il concordato è in continuità se dall’attività aziendale deriva almeno in parte il soddisfacimento dei creditori; se questo non è previsto, il concordato è liquidatorio .

L’accordo sindacale: presupposto delle deroghe all’art. 2112 - In presenza di una delle due suindicate procedure, viene lasciato spazio ai “contratti collettivi ai sensi dell’art. 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n.81” con una accentuata capacità derogatoria.

Contratti che il comma 5 presenta come possibile esito delle procedure di consultazioni richieste dalla prima parte dell’art. 2112, senza ripetere l’anche presente nel comma 4-bis e, quindi, senza dare alcun argomento a favore della legittimazione di contratti che non siano sottoscritti dalle associazioni comparativamente più rappresentative e/o dalle rappresentanze sindacali aziendali considerate dall’art. 51.

L’intervento dei contratti collettivi è prefigurato dal comma 5 con riferimento a casi “… in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata”. Riferimento, questo, che sicuramente solleva una delicata questione interpretativa, sulla quale si ritorna nel successivo paragrafo 2.

L’ampiezza delle possibili deroghe all’art.2112 c.c. -  Come espressamente afferma la seconda parte del comma 5, la sussistenza delle condizioni richieste rende possibile all’accordo sindacale di fissare regole in deroga all’art. 2112. 

L’accordo, in particolare, è legittimato a derogare: - al passaggio, in continuità, dei rapporti di lavoro in capo al cessionario con la conservazione dei diritti che ne derivano (comma 1 dell’art. 2112 c.c.); - all’obbligo del cessionario di applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi già applicati dal cedente (comma 3 dell’art. 2112 c.c.); - alla regola della non configurabilità del trasferimento come motivo di giustificazione del licenziamento (comma 4 dell’art. 2112 c.c.). 

L’affermazione del principio cardine dell’art. 2112, relativo al subentro del cessionario nei rapporti di lavoro, dunque, è reso del tutto permeabile dall’accordo (sempre che rechi specifiche previsioni derogatorie). 

Ciò non solo per quanto riguarda la continuazione dei rapporti di lavoro ma anche per quanto concerne le regole applicabili ai rapporti che, in ipotesi, continuino con il cessionario ovvero vengano costituiti ex novo con lavoratori già dipendenti dal cedente. 

L’accordo potrebbe prevedere che il cessionario non si faccia per niente carico dell’occupazione dei lavoratori già dipendenti dal cedente? Il passaggio della seconda parte del comma 5 secondo cui l’accordo è da stipulare “con finalità di salvaguardia dell’occupazione” fa ritenere che l’azzeramento dell’occupazione non sia consentito, ferma restando la discrezionalità delle parti contraenti di condividere la misura di tale salvaguardia. 

Nel prefigurare le possibili deroghe, il comma 5 ignora il secondo comma dell’art. 2112, relativo alla responsabilità solidale del cedente e del cessionario per tutti i crediti del lavoratore al tempo del trasferimento. Questo non consente di mettere in discussione il principio secondo cui nelle procedure liquidatorie la responsabilità solidale di cedente e cessionario.

E se l’attività dell’azienda continua ? - Come abbiamo visto, il comma 5 fa riferimento alla “… continuazione dell’attività non … disposta o … cessata”. Passaggio che appare particolarmente preoccupato del rapporto con la Direttiva in tema di trasferimento di azienda ( Direttiva 2001/23/CE) e, in particolare, con la giurisprudenza della Corte di giustizia. Più decisioni della Corte, fra le prime la sentenza Abels (7 febbraio 1985, C-135/83), hanno assunto orientamenti, alquanto rigidi, secondo cui la Direttiva troverebbe applicazione qualora la crisi è conclamata, l’autorità giudiziaria svolge un ruolo di controllo sul procedimento ma, ciononostante, il procedimento “… lungi dall’essere diretto alla liquidazione dell’impresa, è al contrario volto a favorirne la continuazione dell’attività in vista del suo successivo risanamento” (sentenza Spano 7 dicembre 1995, C-472/93). 

Sennonché, una lettura meno rigida della Direttiva è ora fornita dalla sentenza della Corte 28 aprile 2022, C-237/20. La questione affrontata è la stessa: a stregua dell’art. 5, comma 1, della Direttiva, si può derogare alle garanzie da essa approntate ove si abbia una procedura fallimentare o una analoga procedura di insolvenza “… avente l’obiettivo di consentire, durante la procedura … una liquidazione dell’impresa in attività (going concern) che soddisfi al meglio l’insieme dei creditori e che mantenga, per quanto possibile, l’occupazione”? 

La risposta, in quest’ultima decisione della Corte, è positiva. La liquidazione è realizzabile attraverso la vendita in blocco dell’impresa (o di suoi rami) e, pertanto, la liquidazione risulta agevolata, e resa anche più conveniente per i creditori, dalla continuazione dell’attività. 

La “liquidazione in attività dell’impresa che soddisfi al meglio l’insieme dei creditori e che mantenga, per quanto possibile, l’occupazione … “ - questo è il più recente pensiero della Corte - è sufficiente a concretizzare la condizione posta dall’art. 5, comma 1 della Direttiva e a consentire la disapplicazione degli artt. 1 e 3 della medesima Direttiva. 

Nel considerando 50 della sentenza, si legge: “Così facendo la direttiva 2001/23 previene il rischio che l’impresa, lo stabilimento o la parte di impresa o di stabilimento di cui trattasi si svaluti prima che il cessionario rilevi, nell’ambito della procedura fallimentare aperta ai fini della liquidazione dei beni del cedente, una parte del patrimonio e/o delle attività del cedente ritenute redditizie. Tale deroga mira dunque a eliminare il grave rischio di un complessivo deterioramento del lavoro dell’impresa ceduta o delle condizioni di vita e di lavoro della mano d’opera, che sarebbe in contrasto con le finalità del trattato”. 

Rilevante al riguardo sono anche le considerazioni della Corte di cassazione: ” In coerenza con la normativa di fonte comunitaria e di diritto interno, anche, come interpretata, nei rispettivi ambiti, dalla Corte di Giustizia Europea e da questa Corte, le procedure fallimentari concernenti le imprese cedenti rientrano pienamente (ed anzi prioritariamente) nel campo di applicazione della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 5 (e, corrispondentemente, nel paragrafo 1 dell'art., 5, della Direttiva 2001/23/CE) essendo ontologicamente ed esclusivamente preordinate alla liquidazione della società dichiarata fallita, rappresentando - eventuali segmenti di prosecuzione dell'attività imprenditoriale, quali l'affitto o la vendita del ramo di azienda - solamente strumenti orientati ad una funzione liquidatoria, finalizzati a conservare il valore di avviamento sul mercato per incrementare il più possibile il compendio aziendale per la distribuzione ai creditori. Nell'ambito della procedura fallimentare, invero, là eventuale continuazione dell'impresa non è più nella sua piena, esplicazione ed è, comunque, sempre finalizzata alla esclusiva liquidazione dei beni” (Cass. n.24691/2021). 

La natura liquidatoria della procedura, dunque, non si identifica con l’immediata disgregazione del complesso aziendale e non è necessariamente alternativa alla protrarsi dell’attività dell’impresa in funzione della liquidazione. 

Il rapporto con l’ampia e speciale disciplina della liquidazione giudiziale - L’esercizio provvisorio dell’impresa in liquidazione giudiziale fin dall’apertura della procedura, se posto in essere, non comporta la cessazione dell’attività dell’impresa. A stregua dell’art. 211 del Codice, il Tribunale può autorizzare il curatore a proseguire “…l’esercizio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami di azienda …”; art. 211 che considera anche l’ipotesi della autorizzazione dell’esercizio dell’impresa o di suoi rami rilasciata successivamente dal Giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori. Diverse ipotesi, dunque, di continuazione dell’attività che, è opportuno sottolinearlo ancora, non compromettono l’appartenenza della liquidazione giudiziale alla categoria delle procedure liquidatorie. Il soddisfacimento dei creditori resta pur sempre legato alla vendita del complesso aziendale e la continuazione dell’attività è concepita come funzionale alla vendita in blocco qualora si tratti di soluzione che consenta un maggiore soddisfacimento dei creditori oltre che dei lavoratori ( art. 214). Stante il tema che si sta affrontando, è inoltre interessante segnalare come l’art. 189 menzioni espressamente, fra le soluzioni (temporanee) che possono offrire un’alternativa al recesso dai rapporti di lavoro da parte del curatore, la possibilità del “… trasferimento di azienda o di un suo ramo …”. Fattispecie, questa, che ugualmente comporta la continuità (totale o parziale, a seconda dei casi) dell’attività, sia pure rimessa all’affittuario. Articolo 189 da vedere alla luce del successivo articolo 212 dello stesso Codice: ancor prima della presentazione del programma di liquidazione, il giudice delegato, su proposta del curatore, previo parere favorevole del comitato dei creditori può autorizzare l’affitto dell’azienda o di suoi rami quando appaia utile al fine delle più proficua vendita dell’azienda o di parti della stessa. L’affidamento della gestione a terzi, questo è quanto si ricava dalla combinazione delle norme del Codice, è (considerata) soluzione migliore dell’esercizio provvisorio dell’impresa da parte del curatore (art. 211), stante che il terzo immesso nella gestione potrà acquisire tutte le informazioni utili a consentirgli un responsabile esercizio della prelazione che gli sia stata concessa in vista di un successivo acquisto. Trasferimento di azienda o di suoi rami, ma con quali regole?

La risposta che può darsi è: con le regole che abbiamo descritto prima commentando il comma 5 dell’art. 47 Legge n. 428/1990. Ciò tanto più che l’art. 191 del Codice ribadisce: “Al trasferimento di azienda nell’ambito delle procedure di liquidazione giudiziale, concordato preventivo e al trasferimento d'azienda in esecuzione di accordi di ristrutturazione si applicano l'articolo 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, l'articolo 11 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito nella legge 21 febbraio 2014, n. 9 e le altre disposizioni vigenti in materia” (il riferimento al predetto art. 11 si spiega con il fatto che tale disposizione da tempo prevede, in caso di affitto o di vendita di aziende sottoposte a fallimento, concordato preventivo, amministrazione straordinaria o liquidazione coatta amministrativa, un diritto di prelazione a favore di società cooperative costituite da lavoratori dipendenti dell’impresa sottoposta alla procedura).  

Prof. Avv. Angelo Pandolfo, Partner Fieldfisher