Con la sentenza n. 9544 del 11.04.2025, la Cassazione afferma che l’inesistenza della motivazione del licenziamento, impedendo che si possa pervenire all’identificazione del fatto posto a fondamento dello stesso, non comporta una mera violazione formale, bensì una totale illegittimità del provvedimento sin dall’inizio, con applicazione della tutela reintegratoria.
Il fatto affrontato
Il dipendente, assunto prima del marzo 2015, impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli, deducendo – tra le altre cose – l’integrale inesistenza della motivazione posta alla base del provvedimento datoriale.
La Corte d’Appello accoglie parzialmente la predetta domanda, ritenendo il recesso viziato solo da un punto di vista formale e riconoscendo al ricorrente la sola tutela indennitaria ridotta di cui al sesto comma dell’art. 18 della L. 300/1970.
La sentenza
La Cassazione - ribaltando quanto stabilito dalla Corte d’Appello - rileva, preliminarmente, che la comunicazione del licenziamento deve contenere, al suo interno, i motivi specifici per cui viene irrogato il recesso.
Secondo i Giudici di legittimità, ciò serve a garantire un esercizio consapevole e tempestivo del diritto di difesa da parte del dipendente, il quale - in assenza di motivazione, o in presenza di una motivazione tanto generica da impedire la comprensione delle ragioni del licenziamento - non potrebbe essere in grado di prendere posizione in ordine alla sua estromissione dall’azienda.
Per la sentenza, in tali casi, non si è difronte ad un mero vizio di forma, ma di sostanza, dal momento che il provvedimento datoriale sarebbe irrimediabilmente viziato ab origine.
Su tali presupposti, la Suprema Corte accoglie il ricorso del dipendente, statuendo il diritto dello stesso ad essere reintegrato ex art. 18, comma 4, L. 300/1970 (norma che prevede la tutela reintegratoria nella “meno grave” ipotesi dell’insussistenza del fatto posto alla base del recesso accertata, solo in un secondo momento, giudizialmente).
A cura di WST