Con l’ordinanza n. 10730 del 23.04.2025, la Cassazione afferma che il datore di lavoro, per evitare di incorrere in una responsabilità per violazione dell’art. 2087 c.c., deve evitare situazioni stressogene che diano origine ad una frustrazione personale o professionale del dipendente.
Il fatto affrontato
La lavoratrice ricorre giudizialmente nei confronti dell’Ente datore al fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti a seguito delle condotte mobbizzanti subite.
A fondamento della predetta domanda, la medesima deduce, da un lato, una totale indifferenza mostrata da parte datoriale verso la sua condizione psicofisica e, dall’altro, un intollerabile sovraccarico di lavoro non supportato da adeguata formazione.
La Corte d’Appello rigetta la domanda, escludendo il carattere vessatorio della condotta tenuta dai superiori gerarchici della ricorrente.
L’ordinanza
La Cassazione – nel ribaltare la pronuncia di merito – rileva preliminarmente che, anche laddove non sia configurabile una condotta di mobbing per l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità dei comportamenti pregiudizievoli, può essere ravvisabile la violazione dell'art. 2087 с.с.
Secondo i Giudici di legittimità, ciò accade nel caso in cui il datore consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress nei propri dipendenti.
In tal caso, continua la sentenza, grava sul dipendente l'onere della prova della sussistenza del danno e del nesso causale tra l'ambiente di lavoro e il danno, mentre grava sul datore l'onere di provare di aver adottato tutte le misure necessarie a prevenirlo.
Su tali presupposti, la Suprema Corte accoglie il ricorso proposto dalla lavoratrice, per non essersi la pronuncia di merito attenuta ai predetti principi.
A cura di WST