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Cassazione: i comportamenti vessatori del datore sono fonte di risarcimento anche quando non integrano il mobbing


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Con l’ordinanza n. 11739 del 03.05.2019, la Cassazione afferma che le condotte datoriali ripetute nel tempo e volte alla prevaricazione ed alla mortificazione del dipendente, seppur non integranti la fattispecie del mobbing, sono comunque fonte di responsabilità risarcitoria.

Il fatto affrontato

La lavoratrice ricorre giudizialmente al fine di richiedere il risarcimento per i danni patiti a causa delle condotte vessatorie poste in essere dal datore e consistenti nell’irrogazione di tre provvedimenti disciplinari ingiustificatamente offensivi e degradanti (poi dichiarati illegittimi) e nella continua richiesta di visite fiscali per la verifica dell’assenza dal servizio dovuta ad una patologia tumorale.

L’ordinanza

La Cassazione, confermando la statuizione della Corte d’Appello, afferma preliminarmente che, ai fini della configurabilità del mobbing, l'elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell'illegittimità dei singoli atti, bensì nell'intento persecutorio che li unifica.

Secondo la sentenza, tuttavia, anche nell’ipotesi di insussistenza di un intento persecutorio - e quindi di inconfigurabilità di una condotta di mobbing - il giudice di merito è comunque tenuto ad accertare se alcuni dei comportamenti denunciati possano essere considerati in sé vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, produttivi di responsabilità per il danno da questi patito alla propria integrità psicofisica.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dal datore di lavoro, affermando che nel caso di specie - pur non potendosi ritenere integrata la fattispecie di mobbing - si erano comunque verificati comportamenti ingiustamente vessatori e mortificanti, di per sé forieri di danni risarcibili.

A cura di Fieldfisher