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La giurisprudenza europea tra libertà economiche e diritto del lavoro


1. Svolta neo-liberista, o protezione delle libertà economiche e d’impresa in un contesto mutato?

Nato come forma di regolazione della concorrenza transnazionale in funzione della costruzione di un mercato comune, esso si sviluppa per vie diverse, e con una sostanza regolatoria inversamente proporzionale alla rilevanza delle proprie basi giuridiche: inizialmente per via indiretta, sotto l’impulso delle direttive cdd. di “armonizzazione”, che miravano a costituire una base comune (soprattutto procedurale) nella regolazione delle vicende circolatorie e patologiche dell’impresa; poi per via diretta, ma in una dimensione che - se non si considera il ricchissimo e pervasivo filone antidiscriminatorio - risulta allocata più sul piano delle astratte competenze legislative e dei principi, che su quello della effettiva regolazione laburistica.

All’esito di tale complesso itinerario, la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sembra oggi vivere, sotto la spinta incontenibile di un nuovo e radicale mutamento dei fondamentali economici dell’eurozona, una fase assai incerta se non regressiva, che appare sorprendente agli occhi di coloro che avevano creduto che il diritto del lavoro uni-europeo, e in specie, quello giurisprudenziale, potesse invece fungere da correttivo strutturale alle sempre incombenti “reversioni” economiciste nazionali.

Presupposto di tale ottimistica costruzione - che fà da premessa all’odierno pessimismo - , è l’idea di un modello ordinamentale sovranazionale proteso all’”armonizzazione nel progresso”, in cui il diritto sociale europeo assume valenza unidirezionale, essendo vocato, nelle materie di competenza, alla fissazione di standard sociali minimi derogabili in meglio dagli Stati nazionali, e al quale sarebbe invece preclusa sia la fissazione di standard massimi, sia l’ingerenza e lo sconfinamento nelle politiche sociali degli Stati membri.

Ma è possibile una lettura della recente giurisprudenza uni-europea, in chiave diversa da quella “critico-pessimistica” sopra evocata: non, cioè, in termini di inusitato revirement interpretativo neo-liberale, bensì in termini coerenti con la sua Costituzione sia materiale che formale.

 2. Giurisprudenza “anti-Labour” o a protezione della libertà di prestazione di servizi e di stabilimento ?

Se si guarda ai paradigmatici casi Laval, Ruffert e Commissione c. Lussemburgo, per esempio, ci si avvede che la presunta “svolta” impressa all’assetto regolativo della concorrenza transnazionale dalla giurisprudenza UE riguarda, in positivo o in negativo, casi di applicazione della direttiva 96/71/CE sui distacchi transazionali.

Tale direttiva, com’è noto, prescrive i trattamenti minimi della lex loci laboris, applicabili ai lavoratori distaccati in Paesi membri dell’UE in esecuzione di contratti di appalto transnazionale, o di somministrazione di lavoro (o semplicemente e propriamente “distaccati” - seconded - presso un’altra impresa, normalmente appartenente al medesimo gruppo).

Essa identifica tali trattamenti minimi con quelli stabiliti per legge o contratto collettivo applicabile erga omnes, attinenti a un elenco tassativo di materie , ma prevedendo la possibilità per gli Stati membri sia di imporre alle imprese distaccanti “condizioni di lavoro e di occupazione riguardanti materie diverse da quelle …, laddove si tratti di disposizioni di ordine pubblico” (art. 3, parag. 9, 1° al.), sia di consentire l’applicazione di “condizioni di lavoro e di occupazione che siano più favorevoli ai lavoratori” (art. 3, parag. 7).

Orbene, nella sentenza Laval del 18.12.2007 la CGUE ha giudicato lesiva della libertà di prestazione di servizi sancita dall’(allora) art. 49 TCE (adesso art. 56 del TFUE), e preclusa dall’art. 3 della direttiva 96/71/CE, l’azione collettiva promossa da un sindacato svedese per indurre un’impresa edile lettone, per un verso, ad avviare una trattativa sulle retribuzioni da corrispondere ai propri dipendenti distaccati in Svezia per una prestazione di servizi, in assenza di una legge svedese sui minimi salariali; e per l’altro, ad applicare ai predetti dipendenti distaccati, altre condizioni normative, stabilite da un contratto collettivo svedese privo di efficacia erga omnes.

Non vale, ad avviso della Corte, invocare il principio di favore sancito dall'art. 3, n. 7, della direttiva 96/71, laddove si fà salva “l'applicazione di condizioni di lavoro e di occupazione più favorevoli per i lavoratori”; questa previsione, infatti, non va interpretata nel senso di consentire allo Stato membro ospitante “di subordinare la realizzazione di una prestazione di servizi sul suo territorio al rispetto di condizioni di lavoro e di occupazione che vadano al di là delle norme imperative di protezione minima” - perché “tale interpretazione finirebbe per privare di effetto utile la direttiva … “ - , bensì nel senso che è “fatta salva la facoltà, per le imprese aventi sede in altri Stati membri, di sottoscrivere volontariamente nello Stato membro ospitante … un contratto collettivo di lavoro eventualmente più favorevole”; così come restano salve le previsioni “della legge o di contratti collettivi nello Stato membro di origine”, che prevedano “condizioni di lavoro e di occupazione più favorevoli per quanto riguarda le materie previste” dalla direttiva 96/71/CE.

Nella sentenza Ruffert del 3.4.2008 la questione era analoga, ma alla Corte non può rimproverarsi nemmeno la scarsa considerazione della libertà sindacale e dell’autonomia collettiva, essendosi essa limitata a sancire l’incompatibilità con la direttiva 96/71/CE, interpretata alla luce dell’(allora)art. 49 TCE che protegge la libertà di prestazione di servizi, dell’obbligo, previsto da una legge del Land della Bassa Sassonia, gravante su un’impresa edile polacca subappaltatrice di un’impresa tedesca, di applicare ai propri dipendenti distaccati in Germania per l’esecuzione del subappalto, il contratto collettivo di settore applicabile nel Land, ma privo di efficacia erga omnes, in quanto non dichiarato di applicazione generale. Detto contratto non era applicabile nemmeno in virtù della previsione di cui all’art. 3, n. 8, secondo comma, della direttiva 96/71 (il quale, in mancanza di un sistema di dichiarazione di applicazione generale di contratti collettivi, consente agli Stati membri di potersi avvalere dei contratti collettivi nazionali conclusi dalle organizzazioni delle parti sociali più rappresentative).

La giurisprudenza Ruffert veniva confermata sette anni dopo dalla sentenza RegioPost del 17.11.2015, che giudicava legittima la clausola sociale imposta dalla legge di un Land tedesco, la quale, però, diversamente dal caso Ruffert, anziché rinviare ad un contratto collettivo privo di efficacia generale, fissava direttamente il salario minimo applicabile anche ai dipendenti di appaltatori e subappaltatori di un appalto pubblico, così integrando i presupposti stabiliti dall’art. 3, parag. 1, della direttiva 96/71.

Infine, nella sentenza Commissione c. Lussemburgo del 19.6.2008 la Corte europea ha ritenuto che l’art. 3, parag. 9, della direttiva n. 96/71/CE, non consente agli Stati membri di invocare l’ordine pubblico al fine di estendere alle imprese straniere distaccanti, norme interne riguardanti materie ulteriori rispetto a quelle elencate nell’art. 3, parag. 1 della direttiva 96/71/CE.

A tale proposito la Corte afferma che “l’ordine pubblico può essere invocato solamente in caso di minaccia effettiva e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività”, e che “le ragioni che possono essere addotte da uno Stato membro al fine di giustificare una deroga al principio della libera prestazione dei servizi devono essere corredate di un’analisi dell’opportunità e della proporzionalità della misura restrittiva adottata da tale Stato, nonché di elementi circostanziati che consentano di suffragare la sua argomentazione”.

3. Il complesso intreccio tra libertà di prestazione dei servizi, legge applicabile al contratto di lavoro, e direttiva sui distacchi transnazionali.

Per valutare la portata di queste affermazioni va considerata la loro strettissima connessione con la tematica della legge applicabile ai rapporti di lavoro. Invero, la direttiva 96/71/CE non prende (né avrebbe potuto prendere) le mosse né dal principio di libera circolazione dei lavoratori, né tanto meno dalle politiche sociali dell’Unione.

Assumendo come base giuridica gli (allora) artt. 57, parag. 2, e 66, del Trattato istitutivo della CE (oggi corrispondenti agli artt. 53 e 62 del TFUE), relativi alla libera circolazione dei servizi, la direttiva sui distacchi non si pone il fine di armonizzazione le normative di tutela del lavoro presenti nei diversi Stati membri, bensì di stabilire quali discipline del lavoro siano applicabili ai distacchi transnazionali di lavoratori, in funzione della rimozione delle restrizioni alla libera circolazione dei servizi.

La cornice in cui si colloca la direttiva sui distacchi transnazionali non è dunque quella della mobilità del lavoro e dell’accesso ai mercati del lavoro nazionali, bensì quella della mobilità dei servizi e dell’accesso ai relativi mercati nazionali; e ciò, non a causa di una impropria inversione valoriale e metodologica, bensì perché essa parte dall’assunto che i dipendenti di un prestatore di servizi il quale, senza stabilirsi in un diverso Paese membro, intenda prestare i suoi servizi in quel Paese, non escono dal mercato del lavoro del Paese di stabilimento.

E’ in questa precisa cornice che la direttiva 96/71/CE mira a risolvere i “problemi sollevati” dalla “transnazionalizzazione dei rapporti di lavoro … , in ordine alla legislazione applicabile al rapporto di lavoro” (così recita il “considerando” n. 6), ponendosi in linea di continuità con i principi di diritto internazionale privato; principi che, originariamente stabiliti dalla Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, sono stati poi recepiti - non a caso - in un regolamento dell’UE (reg. n. 593/2008: cd. “Roma I).

Orbene, alla stregua del regolamento predetto, pur essendo il contratto di lavoro governato dalle norme inderogabili della lex loci laboris, ciò non si verifica “quando il lavoratore svolge il suo lavoro in un altro paese in modo temporaneo”: in tal caso, infatti, “il paese in cui il lavoro è abitualmente svolto non è ritenuto cambiato”, e quindi trova applicazione, per tutta la durata del distacco, la legge del Paese d’origine.

La direttiva 96/71/CE prende le mosse da questo principio, ma mira a temperarlo per finalità di contrasto del dumping sociale, con la previsione dell’applicabilità di norme più favorevoli della lex loci laboris in materie e a condizioni specifiche; materie e condizioni che, sulla scorta dei considerando della medesima direttiva, vanno interpretate rigorosamente, per la duplice ragione che si tratta di un adattamento dei principi del diritto internazionalprivatistico alle peculiarità del contratto di lavoro, e che si tratta di potenziali ostacoli alla libera prestazione di servizi transnazionali.

Al problema dei possibili abusi nel ricorso agli appalti transnazionali per finalità di dumping sociale ha inteso porre almeno in parte rimedio la cd. direttiva Enforcement n. 2014/67/UE (recepita in Italia dal d. lgs. 136/2016), la quale affronta i problemi causati dalle cosiddette "società di comodo", stabilendo una serie di criteri qualitativi attestanti l'esistenza di un legame effettivo tra il datore di lavoro e lo Stato membro di stabilimento. La direttiva reca altresì disposizioni volte a migliorare la cooperazione amministrativa tra le autorità nazionali competenti in materia di distacco, e un elenco di misure nazionali di controllo che gli Stati membri possono adottare al fine di monitorare il rispetto delle condizioni di lavoro applicabili ai lavoratori distaccati.

Si può discutere (non è questa la sede per farlo) sulla efficacia di tale intervento, ma non pare che possa definirsi orientata a favore del dumping sociale la stretta interpretazione, adottata dai giudici di Lussemburgo, di una direttiva mirante a temperare la rigidità delle regole internazionalprivatistiche in funzione di … contrasto del dumping sociale.

Nella sentenza Bundesdruckerei c. Stadt Dortmund del 18.9.2014, la Corte di Giustizia ha scrutinato una legge del Land Renania Westfalia che imponeva l’inserimento, nei bandi di gara per appalti pubblici, di una “clausola sociale” che obbligava l’impresa aggiudicatrice a non subappaltare a imprese straniere, ove queste non applicassero i minimi retributivi orari stabiliti dal contratto collettivo di settore del Land. Nella fattispecie, l’impresa aggiudicatrice dell’appalto di servizi (della municipalità di Dortmund) era tedesca, mentre l’impresa subappaltatrice era stabilita in Polonia, e sempre in Polonia avrebbe dovuto integralmente eseguirsi il subappalto.

A venire in rilievo, questa volta, non era la direttiva sui distacchi, poiché nessun lavoratore (polacco) veniva distaccato (in Germania); veniva invece in rilievo la direttiva sulle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici (all’epoca, la direttiva 2004/18), la quale prevedeva che le amministrazioni pubbliche potessero prevedere “condizioni particolari in merito all’esecuzione dell’appalto, … basate su considerazioni sociali e ambientali, purché compatibili con il diritto comunitario”.

In questo caso la Corte di Giustizia ha risolto la questione, osservando che non ricorrevano ragioni sufficienti a giustificare l’imposizione di un tale obbligo alle sole imprese operanti nel mercato degli appalti pubblici; e che detta misura era comunque da ritenersi sproporzionata alla luce del fatto che l’appalto era da eseguirsi in Polonia, dove i salari sono molto più bassi che in Germania.

Pertanto, detta misura costituiva una illegittima restrizione della libertà di prestazione dei servizi all’interno dell’UE. In questo caso peraltro, non ponendosi nemmeno astrattamente un tema di mobilità del lavoro, la denuncia di un arretramento neo-liberista della Corte di Giustizia, nel mentre sembra reggersi sulle sole gambe di un intrigante ma assai problematico meta-principio costituzionale uni-europeo di non ingerenza nelle politiche sociali dei Paesi membri, finisce davvero per lasciare la libertà di prestazione di servizi in balìa delle politiche protezionistiche nazionali.

Molta cautela s’impone, quindi, quando ci si interroga sull’ispirazione anti-Labour di una giurisprudenza comunitaria che, in effetti, è solo preoccupata di impedire che le legislazioni sociali dei Paesi membri neutralizzino l’effetto utile delle norme uni-europee poste a presidio delle libertà di prestazione dei servizi e di stabilimento: si tratta, in sostanza, non tanto di realizzare - replicandolo al livello europeo - quel medesimo bilanciamento di valori che tipicamente realizzano le Corti costituzionali nazionali, tra libertà d’impresa e diritti dei lavoratori; quanto di chiarire che la frontiera mobile dei diritti laburistici di genesi nazionale non è potenzialmente illimitata, trovando un limite nelle libertà economiche e di mercato su cui si fonda l’Unione Europea, e un custode severo di quel limite nella Corte di Giustizia dell’Unione.

In sostanza, ad avviso della Corte europea non esiste un’area di competenze sociali riservate ai Paesi membri, capace di invadere l’area comunitariamente protetta delle libertà economiche; donde consegue che la legislazione europea non può concepirsi come strutturalmente derogabile pro Labour, secondo quello che è oramai un paradigma (il cd. principio del favor praestatoris) che mostra da tempo vistosi segni di logoramento negli stessi ordinamenti nazionali.

A cura di Prof. Avv. Armando Tursi - Fieldfisher