Stampa

Storno di personale e concorrenza


1.Patrimonio professionale e mobilità del personale.

Le imprese sono sempre più interessate a rafforzare la propria capacità competitiva grazie alla professionalità dei loro collaboratori. Quanto più l’impresa è dinamica e innovativa, tanto più facilmente l’originalità dei suoi processi produttivi, che ne costituisce peculiare fattore di successo, si fonda su conoscenze, competenze tecniche, abilità specifiche che sono fatte valere dai lavoratori nell’esecuzione del contratto di lavoro e di cui, in costanza di rapporto di lavoro, l’azienda è legittimata ad avvalersi dopo che, magari per anni nella prospettiva della propria affermazione e crescita nel mercato, ne ha curato lo sviluppo anche con specifici investimenti. La presenza di core workers, essenziali per l’impresa - destinatari di incarichi strategici e/o dotati di professionalità specialistiche - e non facilmente sostituibili, costituisce verosimilmente fenomeno in espansione. In tale contesto, non è affatto casuale che emergano sempre più, come confermano numerose decisioni giurisprudenziali, questioni riconducibili alla figura dello storno di personale. La definizione dello storno è, in termini generali, pacifica: lo storno si sostanzia nell’acquisizione di lavoratori da parte di un’impresa (l’impresa stornate) dopo che la stessa li ha in qualche modo indotti ad abbandonare un’altra impresa (l’impresa stornata). Difficoltà e incertezze si registrano quando si tratta di stabilire se condotte del genere, che vedono un’impresa arricchirsi e un’altra impoverirsi della collaborazione di determinati lavoratori, siano lecite o, invece, illecite. Difficolta e incertezze che, di solito, vengono a collocarsi all’interno della interpretazione/applicazione dell’art. 2598 c.c. in tema di concorrenza sleale.

2.Lo storno di personale come atto di concorrenza sleale.

Punti di partenza obbligati sono rappresentati dalla libertà dei lavoratori di scegliere l’impresa con cui collaborare, confermata anche dalla libertà di recedere dal contratto di lavoro (art. 2118 c.c.) nonché dalla libertà di ogni imprenditore di ricercare propri collaboratori anche tra lavoratori già occupati presso altre aziende. Il problema della valutazione dello storno è, quindi, un problema di individuazione delle particolari condizioni che possono far passare dall’area della liceità a quella dell’illeceità. La prima disposizione legislativa a cui ci si rifà per decidere se, nel caso concreto, si deve valutare lo storno in un senso o nell’altro è rappresentata, come si è già accennato, dall’art. 2598 c.c. e, in particolare, dal suo n. 3. Come è noto, questo articolo del codice tratta degli atti di concorrenza sleale e, fra l’altro, con una formulazione aperta annovera fra questi ogni atto “non conforme ai principi della correttezza professionale idoneo a danneggiare l’altrui azienda”. Si tratta di una categoria a carattere generico e, pertanto, non meraviglia che , in assenza di espressi pronunciamenti della legge in tema di storno di personale, è proprio intorno ad essa che è venuta a ruotare la riflessione sulle condizioni di liceità/illeceità dello storno.

3. Lo storno da considerare illecito secondo l’elaborazione giurisprudenziale. 

Acquisita la possibilità di considerare lo storno come una particolare forma di illecito concorrenziale, la giurisprudenza ha vissuto varie fasi nel valutare gli elementi della fattispecie illecita, individuati, in termini generali, nella contrarietà ai principi della correttezza professionale e nella idoneità della condotta della impresa stornate a danneggiare l’altrui azienda. In questo quadro, una evidente evoluzione si è registrata nel modo di intendere il profilo soggettivo. La giurisprudenza ha sempre fatto riferimento all’animus nocendi dell’impresa stornante. Questo è stato inteso talora con una forma di dolo specifico, ritendo che si rientrasse nello storno illecito solo a condizione che l’impresa stornante si fosse consapevolmente prefissa lo scopo di danneggiare l’impresa concorrente. Via via si è ritenuto che l’animus nocendi dell’impresa stornate non è da concepire come un equivalente dell’elemento psicologico - dolo o colpa - dell’illecito penale, tanto più che in generale per gli atti di concorrenza sleale non è richiesta la prova del dolo o della colpa dell’imprenditore che li ha posti in essere. Già con la sentenza n. 125/1974, la Cassazione afferma che l’intento di danneggiare l’impresa concorrente è necessario per la qualificazione dello storno come atto di concorrenza sleale, ma precisa che tale intento non necessita di alcuna particolare prova diretta (che, ove intesa come prova di un elemento di carattere meramente psicologico, risulterebbe davvero molto difficile se non impossibile) e, inoltre, sottolinea che l’animus nocendi può essere desunto in via presuntiva dal modo in cui lo storno viene concretamente attuato nei diversi casi. Orientamento che si afferma in diverse decisioni, venendo ripetuto con formule del genere: “… il problema relativo alla illiceità concorrenziale dell’assunzione del personale altrui deve essere risolto facendo riferimento allo specifico intento di recare pregiudizio all’impresa concorrente, con la conseguenza che la fattispecie del cosiddetto storno dei dipendenti deve essere affermata ogniqualvolta detta assunzione sia avvenuta con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nella condotta della agente l’animus nocendi” (Cass., n.13658/2004). In coerenza con questa impostazione, l’attenzione si è concentrata, quindi, su elementi oggettivi capaci, in ipotesi, di determinare effetti dannosi e, al tempo stesso, espressivi dell’intento di nuocere all’impresa concorrente. Così, circostanze di tipo quantitativo, relative al numero dei dipendenti stornati, e soprattutto di tipo qualitativo, relative alle competenze e al ruolo degli stessi nell’organizzazione dell’azienda che subisce lo storno, hanno assunto assoluto rilievo. Ribadito che in via di principio non è affatto vietato all’imprenditore di ricercare nel mercato i migliori collaboratori, anche sottraendoli ad un’impresa concorrente attraverso una palese contrattazione delle loro retribuzioni, viene confermata la legittimità della trasmigrazione di lavoratori ove le conoscenze da essi acquisiti nell’azienda, pur se di pregio, non hanno carattere di esclusività né rendono tali lavoratori assolutamente essenziali per l’impresa stornata, tanto più se i lavoratori hanno convenienza a passare alle dipendenze di un’altra impresa (Cass. n.9386/2012). Sempre in coerenza con la medesima prospettiva, viene esclusa la presenza di un caso di storno illegittimo ove l’azienda concorrente assuma personale, come quello di facchinaggio, privo di competenze esclusive e, quindi, facilmente sostituibile e non utilizzabile per avvantaggiarsi scorrettamente nei confronti dell’azienda che in precedenza ha avuto tale personale alle proprie dipendenze (Cass. n.9672/2017). Al contrario, è qualificato come atto di concorrenza sleale ai sensi nell’art. 2598, n. 3, il comportamento dell’impresa che assume i lavoratori già dipendenti da un’impresa concorrente ove gli stessi “… siano particolarmente qualificati ed utili per la gestione dell’impresa concorrente, in relazione all’impiego delle rispettive conoscenze tecniche usate presso l’altra impresa e non possedute dal concorrente stesso, così permettendo a quest’ultimo l’ingresso nel mercato prima di quanto sarebbe stato possibile in base ai propri studi e ricerche” (Cass. n. 13424/2008; Cass. n.9672/2017); si ritiene che costituisca “… concorrenza sleale a norma dell’articolo 2598 c.c., n. 3, l’assunzione di dipendenti altrui o la ricerca della loro collaborazione non tanto per la capacità dei medesimi ma per l’utilizzazione altrimenti impossibile o vietata delle conoscenze tecniche usate presso altra impresa, compiuta con animus nocendi, ossia con un atto direttamente e immediatamente rivolto ad impedire al concorrente di continuare a competere, attesa l’esclusività di quelle nozioni tecniche e delle relative professionalità che le rendono praticabili, così da saltare il costo dell’ investimento in ricerca ed in esperienza, da privare il concorrente della sua ricerca e della sua esperienza e da alterare significativamente la correttezza della competizione” (Cass. n. 9386/2012; Cass. n.9672/2017). In sostanza, per riscontrare un caso di concorrenza sleale, non solo viene richiesto che i lavoratori che passano da un’impresa all’altra siano particolarmente qualificati ma che siano anche depositari di competenze esclusive, maturate grazie alla collaborazione con l’impresa stornata, che li renda insostituibili o, quanto meno, difficilmente sostituibili da parte di tale impresa. La fattispecie che si intravede nella giurisprudenza è, dunque, questa: da una parte, l’impresa è messa in difficoltà dalla perdita dei suoi collaboratori e, dall’altra, l’impresa stornante, attraverso le nuove collaborazioni, si impossessa di conoscenze tecniche senza i tempi e i costi di investimenti in ricerca e in formazione, tanto che ormai si fa sempre più riferimento al profilo “parassitario” dello storno nel rapporto fra imprese concorrenti. Senza negare che è importante e utile il contributo fornito dalla giurisprudenza, rimane difficile valutare se nei singoli casi si ha a che fare, o meno, con una fattispecie ricadente nell’area della illeceità, con la conseguente esigenza di porre attenzione alle circostanze di fatto che caratterizzano ogni singola vicenda. Consapevoli di ciò, risulta molto utile avere presente gli specifici elementi indiziari a cui la giurisprudenza dà rilievo nel decidere le controversie portate alla sua attenzione (come, ad esempio, la sottrazione di personale qualificato non agevolmente sostituibile, senza correlativa necessità da parte dell’impresa stornante: Trib. Torino 16 gennaio 2009; induzione a lasciare l’impresa stornata con argomenti denigratori della stessa: Trib. Napoli 14 gennaio 2006; irrilevanza del fatto che contatti per passare alle dipendenze dell’impresa concorrente siano avviati dai lavoratori, allorquando su di essi si innesti l’azione dell’impresa stornante in termini che portano a rilevare l’illeceità: Cass. n. 13426/2008).

3.1. Professionalità individuale e “notizie” aziendali.

Come si è visto sopra, la giurisprudenza dà rilevo alle “conoscenze tecniche” che i lavoratori sono in grado di portare nell’impresa stornante. Si tratta di una sottolineatura ricca di implicazioni, che ci si riserva di considerare in un prossimo approfondimento. Per ora ci si limita a richiamare una giurisprudenza, ugualmente della Cassazione, che ha trattato di un profilo destinato verosimilmente ad assumere sempre maggior rilievo. In particolare, tale giurisprudenza ha distinto le capacità professionali che un dipendente abbia acquisito o migliorato nel corso ed a causa di un pregresso rapporto di lavoro, che costituiscono un suo esclusivo patrimonio professionale liberamente utilizzabile anche in successivi rapporti di lavoro, da notizie specifiche, inerenti l’impresa a cui il lavoratore apparteneva in precedenza, il cui utilizzo incontra il limite della correttezza della concorrenza. La distinzione, che in alcuni casi può risultare agevole e in altri problematica, costituisce un ulteriore profilo da approfondire

Avvocato Angelo Pandolfo - Fieldfisher