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Cassazione: insultare l’azienda non sempre legittima il licenziamento


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Con la sentenza n. 12786 del 14.05.2019, la Cassazione, sul presupposto che non esiste alcun dovere di stima del dipendente rispetto al proprio datore di lavoro, afferma che proferire parole ingiuriose nei confronti dell’azienda non integra la violazione del vincolo fiduciario, tale da legittimare un recesso per giusta causa, allorquando la condotta sia assimilabile ad un isolato sfogo inopportuno.

Il fatto affrontato

Il lavoratore, avente mansioni di guardia giurata, impugna giudizialmente il licenziamento per giusta causa irrogatogli per aver contattato, durante lo svolgimento di compiti di sicurezza presso un cliente, la sede centrale della società datrice per motivi amministrativi non urgenti ed aver utilizzato termini volgari con il collega del centralino, riferendosi al datore di lavoro con l'espressione «azienda di m.…».

La sentenza

La Cassazione, confermando quanto stabilito sul punto dalla Corte d’Appello, afferma, preliminarmente, che le previsioni del contratto collettivo e del codice disciplinare sono senza dubbio uno dei parametri atti a riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.
Ne consegue che, nella verifica della sussistenza della giusta causa, il giudice del merito non può prescindere dalla considerazione del CCNL e della scala valoriale ivi espressa per l’individuazione delle ipotesi di rilievo disciplinare e per la relativa graduazione delle sanzioni.

Secondo i Giudici di legittimità, tuttavia, per poter configurare una lesione permanente del vincolo fiduciario sotteso al rapporto lavorativo - ed integrare, quindi, una giusta causa di recesso - è necessario che il comportamento del dipendente sia connotato da particolare gravità, come accade nei casi di severa violazione dei generali doveri di correttezza e fedeltà o di grave insubordinazione.

Alla luce di ciò, la sentenza non ritiene integrabile una delle predette ipotesi nel caso di specie, dal momento che la frase pronunciata dal lavoratore licenziato, seppur di indubbia volgarità, era del tutto sprovvista di attribuzioni specifiche o manifestamente disonorevoli ed in quanto tale incapace di arrecare un pregiudizio all'organizzazione dell'impresa.

Su tali presupposti, la Suprema Corte respinge il ricorso della società, confermando il diritto del lavoratore a vedersi riconosciuta un’indennità risarcitoria, ex art. 18, comma 5, l. 300/1970, stante la mancanza di proporzionalità del recesso subito.

A cura di Fieldfisher