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Cassazione: criteri di quantificazione del danno da demansionamento


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Con l’ordinanza n. 3131 del 02.02.2023, la Cassazione afferma che, in caso di illegittimo demansionamento, il relativo risarcimento del danno può coerentemente essere quantificato in una somma pari al 25% della retribuzione spettante al dipendente nel periodo interessato dall’illecita condotta datoriale.

Il fatto affrontato

La lavoratrice, deducendo di essere stata demansionata, ricorre giudizialmente al fine di sentir condannare la società datrice a riassegnarla alle mansioni di originaria adibizione.
La Corte d’Appello accoglie la predetta domanda, condannando l’azienda anche al risarcimento del danno, quantificato in via equitativa in € 12.290,75, corrispondente al 25% della retribuzione all'epoca goduta per ciascun mese di demansionamento.

L’ordinanza

La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva, preliminarmente, che l'assegnazione del lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale è consentita, dall’art. 2103 c.c. così come novellato dal D.Lgs. 81/2015, solo in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla relativa posizione.

Secondo i Giudici di legittimità, in difetto di tale ultima circostanza, si integra un demansionamento illegittimo che genera in capo al lavoratore che lo ha subito il diritto ad un risarcimento.

Per la sentenza, la quantificazione del ristoro, così come operata nella pronuncia di merito, è coerente e deve essere confermata.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla società datrice.

A cura di Fieldfisher