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Decreto Dignità: durata e causali del contratto a termine.


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Alcune riflessioni sulle disciplina della durata del contratto a termine e delle sue causali dopo le modifiche apportate dal decreto dignità. A cura del Prof. Pandolfo

Il cosiddetto decreto dignità - decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, convertito dalla legge 9 agosto 2018, n.96 - ha introdotto una serie di innovazioni alla disciplina del contratto a tempo determinato, apportando delle modifiche e delle integrazioni al precedente d.lgs. n.81/2015 che, modificato e integrato, continua a costituire la fonte generale di regolamentazione di tale istituto.

Nell’analizzare le novità introdotte bisogna, pertanto, continuare a considerare gli articoli del decreto legislativo, che è uno dei provvedimenti facenti parte dell’ampia manovra legislativa ricondotta al cosiddetto Jobs act.

 

1.La durata (minima e massima) del contratto a termine.

A seguito del decreto dignità (che d’ora in poi si indica come il decreto), l’art. 19 del d.lgs. n.81/2015 tratta ancora della durata dei contratti a termine ma con significative modifiche.

L’art. 19 continua a prevedere che per tali contratti non opera una regola di durata minima.

La clausola relativa al termine finale può fissare una scadenza breve o brevissima del rapporto di lavoro, senza incontrare alcuna limitazione verso il basso.

Lo conferma la previsione del comma 4 dell’art. 19, che il decreto riproduce pari pari laddove, prevedendo un’eccezione alla forma scritta al contratto di lavoro subordinato a termine, fa riferimento a “… rapporti di lavoro di durata non superiore a 12 giorni”.

In questo, dunque, trova conferma che il contratto a tempo determinato è un istituto predisposto anche per concordare/regolare dei “lavoretti”, ove per tali si intenda lavori di brevissima o breve estensione temporale.

Il limite o il vantaggio, a seconda dei punti di vista, del contratto a termine è che esso, quand’anche sia fissata una brevissima durata, comunque trascina l’applicazione piena del normale bagaglio di tutele previste per il lavoro subordinato, diversamente da altre formule contrattuali che fanno riflettere la contenuta durata del rapporto sullo statuto protettivo del lavoratore impegnato per un breve periodo.

L’art.19 è, invece, significativamente innovato per quanto riguarda la durata massima del rapporto di lavoro subordinato che scaturisca da un contratto recante un termine finale.

La regola in vigore in precedenza, ossia in vigore fino al 13 luglio 2018 (data oltre la quale il decreto è entrato in vigore), individuava il termine massimo di durata in 36 mesi; a partire dal 14 luglio 2018, il termine massimo è ora fissato in 24 mesi.

Mentre su altri aspetti di disciplina del contratto a termine era e ancora oggi risulta rimessa alla contrattazione collettiva la facoltà di introdurre degli adattamenti rispetto alle astratte previsioni di legge (ad esempio, in tema di successione di contratti a termine), la regola riguardante la durata massima del singolo contratto a termine (in precedenza 36 mesi e ora 24 mesi) era e rimane immodificabile, non solo da parte dell’autonomia individuale ma anche da parte della autonomia collettiva.

Anche per tale ragione, è utile interrogarsi sulle motivazioni di una scelta così rigidamente imposta.

A fronte di una specifica scelta che è effettuata ma non spiegata (nella relazione al provvedimento non si rinviene alcuna spiegazione al riguardo), vien fatto di ipotizzare che (la fissazione di) un limite temporale massimo derivi dalla convinzione che l’esigenza aziendale superiore ad un certo limite sia stabile (e non temporanea) e, quindi, tale da non giustificare un contratto a termine. Proprio la condizione a cui il decreto dignità subordina la facoltà delle parti di stipulare un contratto a termine che vada oltre 12 mesi fino a poter arrivare a 24 mesi (devono innanzitutto ricorrere delle “esigenze temporanee”) incoraggia a dare credito a questa ipotesi.

Sennonché, ben possono appartenere alla realtà aziendale esigenze temporanee che superano i 24 mesi e, in particolare in casi del genere, appare incongruo il sacrificio della continuità di esperienze di lavoro che, proprio perché potrebbero andare oltre i 24 mesi, risulterebbero significative e ragguardevoli.

La normativa comunitaria, da parte sua, vede criticamente una durata complessiva di una successione di contratti a termine, ma non il singolo contratto a termine di durata estesa.

Il limite massimo di durata risulta verosimilmente legato ad un ragionamento di carattere generale, ritenendosi che serve ad evitare un indesiderabile spiazzamento del contratto a tempo indeterminato.

Insomma, è verosimile che si sia ragionato nei seguenti termini: se l’azienda ha bisogno di un lavoratore per un periodo prolungato e continuativo, è bene che, per una esigenza che supera un certo limite temporale discrezionalmente individuato dal legislatore, assuma a tempo indeterminato. Se poi l’esigenza di una unità lavorativa in più verrà meno, l’azienda potrà sempre recedere.

Ogni pezzo della disciplina del contratto a termine, tuttavia, va considerato insieme a tutti quelli che compongono la disciplina complessiva dell’istituto.

Anche rispetto alla durata massima, c’è da domandarsi se le sollecitazioni derivanti dal passaggio da 36 a 24 mesi giocheranno a favore del contratto a tempo indeterminato o giocheranno a favore di altri contratti a termine con altri lavoratori.

 

2.Dalla a-causalità alla causalità.

Avendo presente la travagliata storia legislativa del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, si può dire che si è tornato indietro alla legge n. 230/1962 o al decreto legislativo n.368/2001(versione originaria) che, sia pure in modi profondamente diversi, subordinavano la legittimità del termine a particolari presupposti (le cosiddette causali o, nel caso del d.lgs. n.368/2001, il cosiddetto causalone) ?

La risposta a tale interrogativo non può essere del tutto positiva.

Il decreto, modificando ancora l’art. 19, vara un assetto inedito di regolazione del contratto a termine, privo di precedenti nelle tante formule legislative sperimentate in precedenza.

Nella stagione delle causali, ossia nel periodo di vigenza della l n.230/1962 e, poi e in termini molto diversi, del d. lgs. n. 368/2001 (versione originaria), o nel caso concreto sussisteva la causale oppure, in mancanza, la clausola introduttiva del termine era sempre e comunque invalida.

Nella stagione della a-causalità, avviata dal cosiddetto decreto Poletti (d.l. n.34/2014), l’apposizione del termine al contratto di lavoro era libera (e la evidenziazione della causale sostitutiva e del carattere stagionale dell’attività da svolgere a termine serviva a particolari effetti ma non direttamente a giustificare il termine).

Con il decreto dignità si registra un mix - non si sa quanto virtuoso - fra le due filosofie regolative:

il contratto a termine, di durata continuativa non superiore a 12 mesi, resta a-causale e, quindi, può essere sottoscritto senza che sia necessario esplicitare una qualche ragione giustificativa del termine; il contratto a termine, di durata superiore a 12 mesi, richiede una causale di giustificazione.

Le causali, tratteggiate dal decreto in termini che subito vedremo, non coprono del tutto il campo: servono sì a giustificare l’apposizione del termine, ma non con riferimento a tutti i contratti di lavoro a termine.

Continuando nel paragone con la legge n. 230/1962, è facile osservare che in quella legge le causali erano chiamate a giustificare qualsiasi contratto di lavoro a termine; a seguito del decreto, invece, sono chiamate a giustificare solo alcuni contratti, individuati in ragione della loro durata.

Come si è già rilevato, le causali sono richieste per i contratti di lavoro a termine che superano i 12 mesi. Molto più difficile è prevedere se e in quale quantità saranno effettivamente utilizzate, ossia in quale misura saranno sottoscritti contratti di lavoro che, superando i 12 mesi, dovranno accompagnare all’indicazione di un termine l’indicazione di una causale.

Al riguardo, si può pensare di rinvenire qualche utile indicazione nelle ultime statistiche sulla durata dei contratti a tempo determinato.

Tali statistiche, tuttavia, riguardano la situazione preesistente al decreto, caratterizzata dall’impiego dei contratti a termine tutti e comunque a-causali.

Il nuovo scenario legislativo, come si è già accennato, vede la causali chiamate a svolgere un ruolo particolare: servono ad autorizzare la stipula di contratti di più ampia durata, ma per contratti di più breve durata rimane il principio della a-causalità.

Non può escludersi, pertanto, che le limitazioni derivanti dalle causali e i timori da esse suscitate in virtù della loro indeterminatezza (enfatizzati anche dal modo in cui sono definite dal decreto) spingano a tenersi entro i 12 mesi per ciascun contratto, rispondendo ad esigenze aziendali che superano i 12 mesi con contratti, sempre di durata non superiore ai 12 mesi, stipulati con altri lavoratori.

Non senza regioni è stato ipotizzato da più parti che l’effetto del decreto possa essere un turnover di lavoratori a termine (non superiore a 12 mesi), soprattutto quando sono in gioco mansioni che non richiedono particolari qualificazioni ed esperienze.

Al riguardo, va anche considerato l’impatto che potrà avere la nuova disciplina del “rinnovo” del contratto a termine, da considerare necessariamente ove si voglia avere una visione completa (disciplina che ci si riserva di affrontare in un prossimo scritto).

 

2.1. Le causali. Esigenze estranee …

Il contratto a termine può avere liberamente una durata non superiore a dodici mesi, ma può giungere fino a ventiquattro mesi in presenza di due tipologie di condizioni: lo prevede il vigente art. 19, comma 1, del d.lgs. n.81/2015, come sostituito dal decreto.

Il principale problema interpretativo/applicativo posto dalla recente innovazione legislativa riguarda proprio la precisazione delle condizioni che consentono di portare il contratto a termine oltre 12 mesi e fino a 24 mesi.

All’anzidetto fine, l’art. 19, comma 1 lett. a) richiede che ricorrano “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività …”.

Volendo stipulare un contratto a termine di durata superiore a 12 mesi, dunque, l’azienda deve partire dalla considerazione della sua “attività ordinaria”. Ma come intenderla?

Si propende per intenderla come attività normalmente svolta in azienda e, quindi, comprensiva sia dell’attività tipica che delle attività accessorie (se svolte ordinariamente).

Possono poi emergere dubbi particolari.

L’azienda, ad esempio, potrebbe essere articolata su due stabilimenti, in cui vengono svolte attività diverse.

E’ ragionevole pensare che in casi del genere è da considerare l’attività svolta nello stabilimento in cui si pensa di inserire il lavoratore a termine.

L’azienda potrebbe lavorare su commesse: si pensi ad una azienda della cantieristica navale che produce barche a seguito di specifiche richieste dei clienti.

La costruzione delle barche rappresenterà l’attività ordinaria dell’azienda, al di là della diversità delle singole commesse.

Individuata l’attività ordinaria, le “esigenze”, che ad esempio consentono di stipulare un contratto di 16 mesi, devono essere rispetto ad essa “estranee”.

Le esigenze, dunque, devono essere diverse da quelle a cui normalmente fa fronte l’organizzazione aziendale. Ma in che senso?

La richiesta estraneità dell’esigenza porta a ritenere che il lavoratore a termine debba svolgere un’attività diversa da quelle ordinariamente svolte in azienda.

Alla “ordinaria attività” potrebbero accompagnarsi dei problemi particolari: un sofisticato macchinario potrebbe non funzionare e le competenze interne potrebbero risultare inadeguate a risolvere il problema.

In una situazione del genere, l’assunzione a termine potrebbe essere giustificata con l’esigenza di disporre di una competenza particolare, destinata ad essere utilizzata anche per un’attività di formazione delle maestranze interne diversa da quella ordinaria.

Più in generale, ci si può porre il problema della manutenzione degli impianti.

La manutenzione opportunamente prevista e attuata come funzione interna riporta alla “attività ordinaria” ove, come prospettato, per attività ordinaria si intenda quella normalmente esercitata.

La manutenzione potrebbe essere straordinaria ed evolutiva e, quindi, essere “estranea” all’attività ordinaria. Fermo restando che in un caso e nell’altro, si potranno liberamente stipulare contratti a termine nel limite dei 12 mesi, solo nel secondo caso sussisterebbe uno dei presupposti richiesti per poter andare oltre i 12 mesi di durata.

A fronte di attività di dubbia catalogazione, non è da escludere che possa operare una spinta ad avvalersi, in coerenza con moduli ampiamente sperimentati, di collaborazioni autonome se non di contratti di servizio con altre imprese.

 

2.2. … temporanee e oggettive

Giunti alla conclusione che l’esigenza, alla base dell’intenzione di stipulare un contratto a termine di durata superiore a 12 mesi, è estranea alla ordinaria attività, si devono compiere ulteriori verifiche.

L’esigenza deve, infatti, essere anche temporanea ed oggettiva.

Il carattere della temporaneità può essere esplicato sottolineando che l’esigenza di disporre di una unità lavorativa in più deve avere una durata limitata nel tempo, essere non stabile o definitiva.

Il carattere dell’oggettività, a sua volta, può essere esplicato sottolineando che l’esigenza deve poggiare su dati, situazioni aziendali concrete e non su valutazioni meramente personali.

Il decreto dignità, con l’intento di contenere l’impiego del contratto a termine, adotta misure disparate, appartenute a diverse filosofie di regolazione del contratto a termine.

Quando imperano le causali come condizioni di legittimazione del termine, non si concepisce la fissazione di un termine massimo di durata: stante le presenza iniziale della causale, il termine è giustificato fin quando la causale continua a sussistere.

Alla fissazione di un termine di durata massima, si perviene quando si abbandona la tecnica di regolazione rappresentata dalle causali.

Ora, combinandosi le due tecniche, l’esigenza temporanea potrebbe continuare a sussistere, ma comunque è destinata ad essere stoppata dal limite di durata massima (24 mesi).

 

2.3. Le punte stagionali di attività

In alcuni particolari periodi possono può aversi una particolare intensificazione dell’attività: si pensi agli esercizi commerciali che nel periodo natalizio registrano un’intensificazione per riflesso degli acquisti natalizi e, più recentemente, anche per i concomitanti saldi.

Questa è una situazione che in passato è stata fonte di incertezza proprio in tema di possibilità dell’impresa di farvi fronte con delle assunzioni a tempo determinato.

In provvedimenti ormai remoti le punte di più intensa attività sono state espressamente previste come causale di legittima apposizione del termine (d.l. n. 876/1977, convertito dalla l. n.18/1978, che regolò il contratto a termine per punte stagionali per i settori commerciale e turistico; l. n. 79/1983, che estese la disciplina a tutti i settori economici).

Successivamente, dopo alcuni anni di vigenza dell’art. 1 del d.lgs. n.368/2001, al cosiddetto “causalone” (è consentito apporre un termine al contratto di lavoro subordinato per “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”), si è sentita l’esigenza di aggiungere il chiarimento secondo cui l’apposizione del termine era legittima anche quando le ragioni riguardavano la “ordinaria attività”. E ciò si precisò proprio per togliere ogni dubbio circa l’idoneità delle punte di intensificazione dell’attività a giustificare l’apposizione del termine (il chiarimento fu effettuato dal d.l. n. 112/2008, convertito dalla l. n. 133/2008, a cui peraltro la giurisprudenza attribuì carattere esplicativo più che innovativo rispetto all’ampia formulazione del d.lgs. n. 368/2001: cfr. Cass. n.17617/2014).

Ricordando tali precedenti, più di un dubbio si può avere sulla capacità della causale da ultimo introdotta dal decreto dignità di includere anche le punte stagionali.

Le punte si caratterizzano per l’intensificazione dell’ordinaria attività e, pertanto, non presentano il richiesto requisito della estraneità rispetto ad essa (anche se presentano i requisiti della temporaneità e della oggettività).

Questa regola non sempre determinerà problemi, atteso che le punte stagionali hanno durate limitate nell’anno e, quindi, ben possono rientrare nei contratti stipulabili liberamente fino a 12 mesi.

Sennonché, un nuovo contratto a termine fra le stesse parti - quello che la legge indica come il rinnovo del contratto a termine - soggiace alla regola delle causali.

Ne deriva che si possono incontrare difficoltà a stipulare un contratto per punta stagionale con un lavoratore con il quale si è già intrattenuto un rapporto di lavoro a termine.

 

3.Le causali. Esigenze connesse a incrementi temporanei …

L’art. 19, comma 1 lett.b), del d.lgs. n. 81/2015, anche in questa parte dovuto al decreto, tratta di un’altra serie di situazioni aziendali, abilitate a fungere da condizioni che legittimano l’apposizione del temine al contratto di lavoro che supera i 12 mesi.

La lett. b), al predetto scopo, considera le “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”.

Nella regola dettata dalla lett. b), l’esigenza di uno o più lavoratori a termine può riguardare l’attività ordinariamente esercitata in azienda, ma sempre che ricorrano particolari condizioni.

Innanzitutto, deve ricorrere un incremento dell’attività e l’incremento, a sua volta, deve avere particolari caratteri.

La nuova formulazione legislativa è ricca di tre aggettivi, senza che nella sequenza degli stessi compaia una congiunzione alternativa. Ciò induce a ritenere che i caratteri da essi espressi debbano sussistere congiuntamente.

E’ già rigorosa la previsione legislativa che subordina la legittimità del termine alla temporaneità dell’incremento dell’attività aziendale.

Il decreto, nel riformare l’art. 19, chiede di più.

L’incremento deve essere anche “significativo” e, quindi, almeno di una qualche rilevanza; inoltre, deve essere “non programmabile” e, quindi, non prevedibile.

La temporaneità, in sostanza, risulta essere condizione necessaria ma non sufficiente. Il che appare davvero eccessivo.

A parte l’incertezza intrinsecamente legata alla ridondante aggettivazione, per rifesso della nuova disciplina possono aversi incrementi temporanei dell’attività a cui non si è in condizione di far fronte con il contratto a termine.

La stessa nuova disciplina, del resto, ammette che possono darsi situazioni temporanee che superano i 12 mesi e se non è utilizzabile il contratto a tempo determinato, nemmeno è realistico il ricorso al contratto a tempo indeterminato.

Resta, pertanto, la domanda: come si risponde ad esigenze temporanee, a cui non si può far corrispondere un contratto a termine?

La risposta più a portata di mano è che si possa rispondere con contratti a termine con altri lavoratori.

La lett. b), come si è visto, considera l’incremento dell’attività ordinaria e questo spinge a tornare sul tema delle punte stagionali di attività.

Alla fattispecie dell’incremento dell’attività ordinaria, le punte stagionali sono facilmente riconducibili.

Un ostacolo, tuttavia, rimane. Le punte stagionali sono, infatti, prevedibili.

Proprio il loro caso, pertanto, offre argomenti alla tesi critica prima esposta.

 

4. Contratto per più di dodici mesi senza una causale di giustificazione; contratto che supera il limite di 24 mesi: quali conseguenze?

Il comma 1-bis dell’art. 19, introdotto dalla legge di conversione del decreto, considera espressamente ipotesi del seguente tipo: si stipula un contratto a termine di durata superiore a 12 mesi (ad esempio, di 15 mesi) e, in conflitto con quanto richiesto dalla nuova normativa, non si indica una causale idonea, sempre a stregua della nuova normativa, a giustificare l’apposizione del termine per un periodo eccedente 12 mesi.

La conseguenza che il comma 1-bis fa discendere da errori del genere è individuata nella trasformazione del contratto nato come contratto a termine “… in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di dodici mesi”.

La norma fa riferimento alla stipula di contratti di durata superiore a 12 messi “ … in assenza delle condizioni di cui al comma 1 …”dell’art. 19. Può darsi per scontato che la trasformazione sarà affermata non solo quando il contratto manca del tutto dell’indicazione, ma anche quando una qualche causale risulta indicata dal contratto ma non è considerata dal Giudice corrispondente ad una di quelle definite in astratto dall’art. 19.

 

5. L’indicazione della causale nel testo scritto.

Parzialmente modificato dal decreto, il comma 4 dell’art. 19, esclusa l’eccezione prevista per i contratti di durata non superiore a 12 giorni, continua a richiedere la forma scritta del contratto di lavoro a termine.

La causale, quando richiesta, deve essere riportata nel contratto scritto.

Il predetto comma considera privo di effetto l’apposizione del termine “… se non risulta da atto scritto …”.

Mettendo insieme le varie indicazioni legislative - il termine deve essere indicato per iscritto; termine e causale sono strettamente legati (fino al punto che l’assenza della causale comporta la trasformazione del contratto )-, sarà sostenuto che la mancata indicazione per iscritto della causale priva di effetto la clausola relativa al termine quand’anche sia dimostrabile ex post la sussistenza della stessa.

a cura di Prof. Avv. Angelo Pandolfo Fieldfisher