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Le tutele del lavoro nell’economia digitale


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Il lavoro su piattaforma digitale, con particolare riferimento ai riders (ciclo-fattorini) nel settore della distribuzione alimentare, sta acquistando crescente rilievo nel nostro Paese. Dopo la sentenza di Torino n. 778/2018, che ha qualificato come autonomi i lavoratori di Foodora, anche le istituzioni si stanno muovendo per assicurare standard minimi di tutela. Il Comune di Bologna ha predisposto la Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano; analoga iniziativa è stata assunta dalla Regione Lazio, preannunciando un apposito intervento legislativo (peraltro di dubbia legittimità, stante la prevalente competenza statale in materia). Lo stesso Ministro del lavoro, del nuovo Governo a guida 5 Stelle-Lega, ha prospettato l’emanazione di un apposito decreto in materia in caso di fallimento del tavolo negoziale tra le parti interessate.

Il crowd-working:
La vicenda è un esempio di crowd working, forma di lavoro connessa all’evoluzione tecnologica, in rapida diffusione. Il crowd working è un nuovo modello di business in cui un committente (crowd sourcing), che può essere un’impresa o singole persone, chiede l’esecuzione di determinati beni o servizi attraverso una piattaforma digitale ad una “folla” (crowd) indeterminata di lavoratori. E’ la piattaforma digitale che agisce come unico intermediario tra lavoratori e committenti/clienti. Non esiste un modello omogeneo di crowd working ed i servizi richiesti possono essere materiali (es. trasporto cibo) o immateriali (es. consulenza sanitaria; design). D’altro lato vi è una forte eterogeneità dei lavoratori coinvolti, con interessi differenziati a seconda se l’attività tramite piattaforma sia unica o prevalente oppure, viceversa, secondaria. Nel caso dei ciclo-fattorini di Foodora è la piattaforma che organizza le consegne e fissa i prezzi, restando i lavoratori liberi di accettare tali condizioni. E’ la piattaforma digitale d’altro lato che determina il ranking (la “classifica”) in base alla quantità e la qualità delle prestazioni effettuate, con possibilità di disfarsi del lavoratore eliminandone l’account. Di particolare rilievo sono i profili reputazionali, cioè il grado di soddisfazione dei committenti/clienti sulle prestazioni avute. L’utilizzo di sistemi di rating può peraltro essere condizionato da pratiche discriminatorie (così si è riscontrato che la cancellazione di corse o la mancata assegnazione di lavori è talora dovuta alla pubblicità di profili con foto che denotano l’etnia del lavoratore). La qualificazione di coloro che partecipano al crowd sourcing come lavoratori autonomi o lavoratori subordinati è rilevante ai fini della disciplina applicabile in tema di salario minimo, di orario di lavoro, di salute e sicurezza, di sicurezza sociale e sanitaria, di tutela collettiva. Speculare è la difficoltà di identificare il committente/datore di lavoro, potendo questo configurarsi nel cliente, nel provider della piattaforma o in entrambi (joint employers).

3. Le tutele applicabili.
La dottrina giuridica più di recente si è ampiamente interessata al fenomeno della digitalizzazione, con posizioni assai differenziate al suo interno. Il lavoro digitale si è talora fatto rientrare, tramite il richiamo ad una nozione evolutiva di subordinazione, nell’ambito del lavoro dipendente, con riconoscimento dell’impresa che gestisce la piattaforma come datore di lavoro. D’altro lato vi è chi ritiene di dover rafforzare le tutele del lavoro autonomo o di tutela del consumatore. Chi infine suggerisce di affrontare il problema non a partire da fattispecie astratte bensì dai bisogni concreti dei lavoratori digitali. Sul punto la bozza di decreto del Governo punta a ricondurre il lavoro su piattaforma digitale alla subordinazione, integrando la definizione di lavoro subordinato di cui all’art. 2094 del codice civile. Molti sono tuttavia gli interrogativi: a partire dalla definizione di “imprenditore” (il gestore della piattaforma digitale ?), fino a cosa debba intendersi per “risultato della prestazione” (il pagamento della prestazione da parte dell’utente al datore di lavoro e non direttamente al lavoratore?). Più semplice sarebbe a nostro avviso intervenire tramite una riformulazione dell’art. 2, d.lgs. n. 81/2015, attuativo del Jobs Act, sulle “collaborazioni organizzate dal committente”, alle quali, a prescindere dalla qualificazione della loro natura, deve applicarsi la disciplina del lavoro subordinato. La suddetta norma affida peraltro opportunamente agli accordi collettivi nazionali (ma questi potranno rinviare al livello decentrato), stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, per deroghe all’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, consentendo regolamentazioni specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del settore. La contrattazione collettiva viene dunque a rappresentare lo strumento più adeguato per regolare le molteplici forme di crowd working. Per altri aspetti la bozza di decreto governativo si occupa, in modo positivo, di trattamento economico minimo, delle modalità di introduzione degli algoritmi, anche ai fini reputazionali, di diritto alla disconnessione, rinviando in più parti alla disciplina contrattuale.

4. La salute e sicurezza del lavoro.
Gli aspetti concernenti la sicurezza del lavoro non sono stati espressamente richiamati nella bozza di decreto. Sul punto il Tribunale di Torino (n.778/2018), in modo sbrigativo, ha respinto la domanda di risarcimento danni per violazione dell’art. 2087 cod. civ., ritenendo che tale norma riguardasse esclusivamente i rapporti di lavoro subordinato (si è richiamata Cass. n. 7128/2013). E’ tuttavia da osservare come la giurisprudenza della stessa suprema Corte non sia uniforme al riguardo (cfr., tra le altre, Cass. 2 dicembre 2015, n. 24538). L’obbligo del datore di lavoro di tutelare la sicurezza di chiunque si trovi, per qualsiasi ragione, ad operare (non illegalmente) nell’ambiente lavorativo, ivi compresi i terzi, è pacificamente affermato in sede penale. Non vi è dubbio peraltro che anche le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 81/2008 e s.m.i., stante la loro ampia applicazione, si estendano, pur con i necessari adattamenti, al caso di specie. L’organizzazione aziendale sottostante la piattaforma digitale, così come stabilisce le regole d’ingaggio, predetermina le consegne e fissa i prezzi, dovrebbe di conseguenza anche valutare in via preliminare i rischi per la salute e la sicurezza che tale attività comporta per i lavoratori, secondo quanto disposto dall’art. 28, comma 1, d.lgs. n. 81/2008 (che comprende nella valutazione anche i rischi “connessi alla specifica tipologia contrattuale” utilizzata). La valutazione dei rischi viene dunque ad interessare tutte le persone di cui si avvale l’organizzazione aziendale, a prescindere dal tipo di contratto utilizzato. Per tale valutazione dovrà prendersi in considerazione l’organizzazione dei turni di lavoro ed i tempi di consegna, tramite anche la determinazione di una retribuzione minima oraria, al fine di evitare che un compenso esclusivamente a cottimo possa esporre i lavoratori a maggiori rischi. Già oggi le piattaforme digitali che operano nel campo della distribuzione alimentare forniscono, o almeno dovrebbero fornire, ai propri ciclo-fattorini un “kit”, che di norma comprende dispositivi di protezione individuale (casco, giubbotto ecc..) contro urti e cadute. Lo stesso può affermarsi per i requisiti di sicurezza delle attrezzature di lavoro (biciclette) e la loro manutenzione. Di particolare rilievo è inoltre la previsione di una tutela specifica in tema di assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali. Nella maggior parte dei casi i gestori di piattaforme digitali ricorrono ad assicurazioni private, con premi e relative prestazioni, assai ridotte. Ultimo profilo da considerare, ma non per questo di minor rilevanza, è quello della rappresentanza dei lavoratori, anche in materia di sicurezza. Dal momento che la nozione di lavoratore contemplata nel d.lgs. n. 81/2008 è assai ampia, e non necessariamente ancorata ad un rapporto di lavoro subordinato ( ), è da ritenere che anche i ciclo-fattorini di Foodora debbano potersi avvalere di propri RLS. Molte attività potranno d’altro lato essere svolte in forma digitale (ad esempio: assemblee, informative, bacheca elettronica). Più in generale occorre domandarsi come la contrattazione collettiva, che rappresenta lo strumento più adeguato per regolare le molteplici forme di lavoro su piattaforma digitale, accanto alla legislazione del lavoro, possa individuare nuove soluzioni operative per assicurare ai lavoratori digitali condizioni di lavoro dignitose, e ciò a partire dalle tutele fondamentali concernenti il corrispettivo della prestazione, il riposo minimo giornaliero, il rispetto della privacy, la salute e sicurezza, la sicurezza sociale. Forme di copertura assicurativa e previdenziale, di assistenza sanitaria, di servizi di welfare e formazione professionale, potrebbero peraltro essere utilmente garantiti da diffusi sistemi di bilateralità. Decisivo al riguardo è identificare il soggetto con cui trattare, sia esso il gestore della piattaforma digitale, o l’associazione datoriale a cui eventualmente il gestore della piattaforma aderisca. 

A cura di Marco Lai - Responsabile area giuslavoristica del Centro Studi Ricerca e Formazione Cisl e professore a contratto di Diritto e sicurezza sul lavoro presso l’Università degli Studi di Firenze.