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Decreto dignità: La successione di contratti a termine


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La reintroduzione di nuove causali operata dal decreto dignità ha rivoluzionato la disciplina dei contratti a termine. Per la successione dei contratti, il decreto dignità ha riservato un sostanzioso ritocco pur sempre fonte di incertezze che il presente approfondimento intende esaminare e risolvere.

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Modifiche alla successione di contratti:

Nella precedente regolamentazione del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, il limite posto alla “successione di contratti” a termine costituiva un perno dell’assetto normativo delineato.

A fronte della libertà delle parti di stipulare contratti di lavoro contenenti clausole che fin dall’inizio ne fissavano la durata nel tempo, erano il “… termine di durata non superiore a trentasei mesi …” del singolo contratto e la durata complessiva di una sequenza di contratti fra le stesse parti, ugualmente fissata a non più di trentasei mesi, a giocare un ruolo importante nella ricerca di un equilibrio fra le diverse esigenze.

Nella fase precedente all’entrata il vigore del decreto n. 87/2018, convertito in legge dalla l. n. 96/2018 d’ora in poi, per brevità indicato, come il decreto), la fonte della disciplina dei predetti aspetti era rappresentata dall’art. 19, rispettivamente commi 1 e 2, del d.lgs. n.81/2015.

Dopo il decreto, è ancora l’art. 19 a trattare dei medesimi aspetti, rivoluzionati per quanto riguarda le condizioni che legittimano l’apposizione del termine al contratto di lavoro a termine e, almeno direttamente, solo ritoccati per quanto riguarda la sequenza di contratti.

Avendo già trattato del nuovo art. 19, comma 1, (v. l’approfondimento dedicato alla durata e alle causali del contratto a termine), ci si concentra sulla sequenza di contratti fra le stesse parti che, nel linguaggio legislativo, sia prima che ora viene indicata come “successione di contratti”. Espressione, peraltro, non originale in quanto significativamente ripresa dalla direttiva comunitaria in tema di rapporti a termine.

La modifica apportata riguarda il passaggio da trentasei mesi a ventiquattro: a stregua del vigente comma 2 dell’art. 19, la “successione di contratti … non può superare i ventiquattro mesi”. Ora, come il singolo contratto non può superare i 24 mesi, così la “successione di contratti”, fatto salvo quanto si illustra successivamente, incontra il limite di ventiquattro mesi.

Gli elementi, che portano ad incontrare questo limite, risultano confermati.

Tuttora, la sequenza di rapporti a termine è da qualificare come “successione di contratti”, destinataria del limite di ventiquattro mesi, quando si sostanzia in contratti “… conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale …”.

Ancora oggi, inoltre, nel computo del predetto limite si considerano anche i periodi di missione svolti dal lavoratore in somministrazione in casi in cui il lavoratore rende la prestazione lavorativa a favore di uno stesso soggetto che se ne avvale, talora, come datore di lavoro diretto e, talaltra, come solo come “utilizzatore”. Periodi di missione rilevanti ugualmente sotto la condizione che riguardino l’esercizio di mansioni di pari livello e categoria legale.

La considerazione degli elementi di continuità non può, tuttavia, far sottovalutare la portata dell’innovazione che, sia pure indirettamente, viene a riguardare la “successione di contratti”. In tanto si ha una successione di contratti, in quanto, continuando a far riferimento a indicazioni dello stesso d.lgs. n. 81/2015 come revisionato dal decreto, si registrano dei “rinnovi” di contratti a termine.

Dunque, nel rapporto fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, il primo contratto, se di durata non superiore a dodici mesi, potrà essere libero; tutti gli altri, invece, dovranno essere sorretti da una causale, pur se stanno nei limiti dei ventiquattro mesi, come viene richiesto per ogni “rinnovo” dal nuovo art. 21, comma 01.

La “successione di contratti” nella precedente disciplina era una sequenza di contratti liberi; ora, a partire dal secondo, la “successione di contratti” è una sequenza di contratti che devono tutti (escluso il primo) risultare sorretti da una propria causale.

Peraltro, la disciplina della “successione di contratti”, ai fini dell’applicazione del limite complessivo dei ventiquattro mesi, considera insieme solo i rapporti di lavoro attinenti a mansioni dello stesso livello e categoria legale, lasciando così spazio alla possibilità che rapporti di lavoro, pur riguardanti stessi soggetti, non siano da cumulare agli anzidetti fini. Al contrario, la disciplina propria dei “rinnovi” impone l’onere della causale a prescindere dalla omogeneità o eterogeneità delle mansioni da eseguire in esecuzione dei vari contratti.

Ne deriva, in conclusione, un assetto normativo che rende impervio il terreno della “successione di contratti”, per riflesso in particolare dei limiti e delle incertezze che si rinvengono nella disciplina delle “causali”. Il passaggio da trentasei mesi a ventiquattro nella possibile stipula di più contratti a termine con lo stesso lavoratore è rilevante, ma ancor più rilevante è la novità riguardante le condizioni a cui la reiterazione di contratti è ora subordinata.

 

1.2. La nuova normativa è in equilibrio?

Proprio la (regolamentazione della) “successione di contratti” come insieme di “rinnovi” suscita delle considerazioni di carattere generale.

Il decreto, nel ri-regolare aspetti essenziali dell’impiego di contratti a termine da parte delle aziende, fa proprie tutte le tecniche utilizzate, nelle varie fasi della legislazione, a fini di contenimento di tale modello contrattuale.

Ne consegue un insieme normativo internamente contraddittorio. I ventiquattro mesi e la soggezione dei “rinnovi” alle causali operano in modo separato, nel senso che potrebbe sussistere una sicura causale di giustificazione del “rinnovo” ma il “rinnovo” potrebbe risultare ostacolato dalla consumazione ormai verificatasi o prossima a verificarsi dei ventiquattro mesi.

Ebbene, più di un dubbio sorge al riguardo. Se ne trova conferma anche tornando a leggere la storica l. n. 230/1962.

Questa fu severa nel limitare l’uso del contratto termine, impiegando la tecnica delle causali di giustificazione del termine.

La stessa legge, tuttavia, si guardò bene dal fissare anche limiti temporali complessivi di durata dei rapporti a termine.

Insomma, se si segue una impostazione, si sta coerentemente a quella impostazione: dunque, se si ricorre l’esigenza temporanea, ciò è sufficiente ai fini della legittimazione del termine, anche a prescindere da vicende contrattuali pregresse.

Sussistono, invero, ragioni di coerenza che impongono di coordinare le diverse tecniche.

Da più parti si è sottolineato che le causali risultano definite in maniera non univoca dal nuovo decreto. Nondimeno, in casi concreti può risultare evidente la sussistenza di una causale di giustificazione e, in casi del genere, può apparire non comprensibile l’impossibilità di far corrispondere ad un’esigenza temporanea un corrispondente rapporto di lavoro temporaneo. Impossibilità discendente dall’operare dell’illustrato limite di ventiquattro mesi.

Sia chiaro: considerazioni dello stesso tenore erano prospettabili anche con riferimento al precedente assetto normativo.

Sennonché, il limite di durata complessiva incideva meno (trentasei mesi e non ancora ventiquattro) e, soprattutto, il limite si collocava all’interno di una regolamentazione, per così dire, di compromesso, nel quale la discrezionalità riconosciuta nella apposizione del termine motivava l’applicazione di limiti di altra natura.

Nel quadro legislativo ora vigente, tocca dare una spiegazione a chi nell’avvalersi di rapporti a termine, da una parte, dopo la prima vicenda contrattuale risulta vincolato alla prova della sussistenza di una esigenza temporanea e, dall’altra, scopre che, ad un certo punto, la temporaneità dell’esigenza non è più sufficiente a causa dell’incidenza di un limite estrinseco come quello dei ventiquattro mesi.

Questo soggetto potrebbe mettere addirittura in dubbio la legittimità di una normativa che, a fronte di una dimostrabile esigenza temporanea, limita la sua libertà fino al punto di impedirgli la stipula di un contratto temporaneo.

Al nuovo assetto normativo, si può guardare anche dal punto di vista della normativa comunitaria in tema di lavoro a tempo determinato. A stregua di tale normativa, un’opzione legislativa come la precedente, centrata sulla a-causalità, rendeva addirittura necessaria l’adozione delle misure del tipo di quelle previste dalle lettere b) e c) della clausola 5 dell’Accordo quadro CES-UNICE-CEEP (durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; numero massimo dei rinnovi dei suddetti contratti).

Diversi equilibri appaiono da definire quando, come nell’attuale caso italiano, si passa ad un assetto di normativa nazionale che ridà ampio spazio alle “ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo …” del contratti a temine: lettera a) dell’Accordo quadro.

L’Accordo non esclude che, al fine di evitare gli abusi, gli Stati membri adottino “più misure” fra quelle che lo stesso evidenzia. Ciò non toglie che evitare l’affastellamento di misure diverse resti un compito dei Legislatori nazionali.

 

2. Fra vecchio e nuovo

Ancora in chiave di continuità rispetto al d.lgs. n. 81/2015-precedente versione, possono considerarsi le disposizioni dell’art. 19, commi 2 e 3, che prevedono: a) la facoltà dei “contratti collettivi” di fissare un limite diverso dai “ventiquattro mesi” direttamente determinato dalla legge; b) la non applicazione del limite di durata massima complessiva alla successione di contratti per le attività stagionali (individuate dai contratti collettivi e dal DPR n. 1525/1963); c) possibilità di stipulare un ulteriore contratto, di durata non superiore a dodici mesi, eccedente il normale limite di durata massima complessiva, sotto la condizione che lo stesso sia stipulato presso la direzione del lavoro.

A stregua dell’art. 51 dello stesso d.lgs. n.81, i contratti collettivi abilitati ad esercitare la predetta facoltà continuano ad essere sia i contratti nazionali che quelli decentrati.

Inoltre, non si vede motivo per escludere la continuità delle previsioni contrattuali, intervenute in materia di “successione di contratti”, prima dell’entrata in vigore del decreto.

Va comunque osservato che al formale mantenimento delle prerogative della contrattazione collettiva in materia si accompagna una sostanziale modificazione dell’assetto normativo che indirettamente, ma incisivamente, viene a riguardare anche la sua azione. Il contratto collettivo può prevedere che la “successione di contratti” si espanda su di un periodo più ampio di quello di legge.

Non si ritiene che possano aversi dubbi circa il fatto che anche per il periodo aggiuntivo fissato dal contratto collettivo la successione possa procedere solo per “rinnovi” sorretti da causali. Infine, appartiene alla normativa già in essere l’eccezione a favore delle attività stagionali, non da considerare ai fini della successione.

Prof. Avv. Angelo Pandolfo - Fieldfisher