Stampa

Cassazione: il lavoratore che si dimette da un contratto a termine non può richiedere la conversione dello stesso


icona

Con l’ordinanza n. 7318 del 14.03.2019, la Cassazione afferma che il lavoratore che si dimetta da una serie di contratti a termine di cui intenda fare valere la nullità in giudizio, non può chiedere ed ottenere la conversione degli stessi rapporti in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, a meno che il proprio recesso non risulti nullo poiché viziato da errore, violenza o dolo.

Il fatto affrontato

Il lavoratore - dopo aver rassegnato le proprie dimissioni per motivi personali da alcuni contratti a termine stipulati con la società datrice - ricorre giudizialmente per ottenere la declaratoria di nullità di ciascun termine e, di conseguenza, l'esistenza di un rapporto a tempo indeterminato inter partes.
La Corte d’Appello accoglie la predetta domanda, considerando le dimissioni rassegnate nell'ambito dell'impiego precario non idonee a manifestare la volontà del dipendente di recedere anche da un rapporto di lavoro stabile, accertato, con effetti retroattivi, nell'ambito di un giudizio successivo a tale manifestazione di volontà.

L’ordinanza

La Cassazione, ribaltando la statuizione della Corte d’Appello, afferma che le dimissioni del lavoratore da un contratto a tempo determinato, facente parte di una sequenza di contratti similari succedutisi nel corso del tempo, esplicano i propri effetti sul rapporto intercorso tra le parti, ma non elidono il diritto all'accertamento dell'invalidità del termine apposto al primo contratto di lavoro, permanendo l'interesse alle conseguenze di ordine economico che da tale nullità parziale scaturiscono.

Per i Giudici di legittimità, dunque, la dichiarazione di recesso del lavoratore, una volta comunicata al datore, è idonea a produrre l'effetto dell’estinzione del rapporto, che è nella disponibilità delle parti, a prescindere dai motivi che hanno determinato le dimissioni (a meno che queste non risultino viziate come atto di volontà) e dalla eventuale esistenza di una giusta causa.
Anche in tal caso, infatti, l'effetto risolutorio si ricollega, pur sempre, ad un atto negoziale del lavoratore, che è preclusivo di un'azione intesa alla conservazione del medesimo rapporto.
Del resto, le dimissioni del lavoratore costituiscono un atto unilaterale recettizio, riferibile ad un diritto disponibile del dipendente ed idoneo a determinare la risoluzione del rapporto nel momento in cui pervengono a conoscenza del datore, indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo.

Secondo la sentenza, in conclusione, le dimissioni hanno l'efficacia di impedire la conversione di un rapporto di lavoro a termine in uno a tempo indeterminato, non essendo a questo fine necessario accertare la volontà del lavoratore dimissionario di cessare o meno un rapporto precario o stabile.

Su tali presupposti, la Suprema Corte accoglie il ricorso proposto dalla società, respingendo la domanda del lavoratore tesa alla declaratoria di nullità del termine apposto ai contratti di lavoro stipulati.

A cura di Fieldfisher