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Cassazione: telecamera per controllare illeciti e possibile condanna penale del datore


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Con la sentenza n. 4564 del 31.01.2018, la Cassazione penale afferma che la dignità e la riservatezza dei lavoratori rappresentano un limite invalicabile all’esercizio incondizionato di tutela del patrimonio aziendale da parte del datore di lavoro; tanto più se la materia risulta disciplinata dall’art. 4 della l. 300/1970 nella versione precedente all’entrata in vigore del Jobs Act. Comportando, la condotta contraria a tale principio, la commissione del reato previsto e punito dall’art. 171 ter del D.Lgs. 196/2003.

Il fatto affrontato

Il datore di lavoro viene condannato a pagare un’ammenda per aver commesso il reato di cui all’art. 171 ter del D.Lgs. 196/2003, a seguito dell’installazione di una telecamera all’interno di un condizionatore dell’azienda, al dichiarato fine di identificare l’autore del furto di alcuni documenti dalla sede avvenuto qualche giorno prima, avendo tramite il sistema di sorveglianza spiato una lavoratrice.

La sentenza

La Cassazione respinge il ricorso proposto da un datore di lavoro avverso la condanna al pagamento di un’ammenda per aver violato la privacy e la riservatezza di una lavoratrice, a causa dell’installazione di una telecamera, proiettata sull’ufficio della medesima, al fine di scovare l’autore di un furto in azienda.

I Giudici di legittimità rilevano che la materia è disciplinata nel caso di specie dall’art. 4 della l. 300/1970 nella sua versione ante Jobs Act, il quale prevedeva il divieto di controllo a distanza dei lavoratori e la possibilità di installare impianti audiovisivi di sorveglianza, in presenza di esigenze organizzative e produttive o di questioni attinenti la sicurezza sul lavoro, solo previo accordo con le organizzazioni sindacali od in difetto su autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro.

La sentenza prosegue, affermando, che, secondo l’unanime posizione della giurisprudenza, nella vigenza della precedente versione del ciato art. 4, l. 300/1970, era possibile installare le apparecchiature di controllo al fine di tutelare il patrimonio aziendale solo a condizione che dalle stesse non fosse derivato anche il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori e che non fosse risultata compromessa la riservatezza e la dignità dei prestatori stessi.

Dal momento che tali presupposti difettano in toto nel caso di specie, la Cassazione ha respinto il ricorso del datore di lavoro, confermando la condanna inflittagli dal Tribunale.

A cura di Fieldfisher