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Corte di Giustizia Europea: va valorizzata l’esperienza professionale equivalente maturata in un altro Stato membro


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Con la sentenza emessa, il 23.04.2020, nella causa C-710/18, la Corte di Giustizia UE afferma che una normativa nazionale che non prenda in considerazione tutti i precedenti periodi di attività equivalente maturati in uno Stato membro diverso da quello di origine, risulta contraria al diritto europeo, rendendo meno attraente la libera circolazione dei lavoratori.

Il fatto affrontato

Un ente territoriale tedesco, nella determinazione della retribuzione spettante ad una neo-assunta docente, tiene conto della pregressa esperienza dalla medesima maturata, sempre come insegnate, in Francia solo per tre anni, a fronte di un ben più lungo periodo di servizio.
A seguito di ciò, la docente ricorre giudizialmente, al fine di vedersi riconosciuta interamente l’esperienza maturata.
La Corte federale del lavoro tedesca - investita della questione - mediante un rinvio pregiudiziale, chiede alla CGUE se sia compatibile con il diritto europeo una normativa nazionale che riconosca interamente l’esperienza professionale pertinente acquisita all’interno dello stesso Stato, mentre limiti il riconoscimento dell’esperienza acquisita presso un diverso Paese ad un periodo massimo di 3 anni.

La sentenza

La Corte di Giustizia rileva, preliminarmente, che le disposizioni del TFUE, relative alla libera circolazione delle persone, mirano, da un lato, ad agevolare, per i cittadini degli Stati membri, l’esercizio di attività lavorative di qualsiasi tipo nel territorio dell’Unione e, dall’altro, a contrastare quelle misure che potrebbero sfavorire i soggetti che intendano svolgere un’attività economica nel territorio di un altro Stato membro.

Per i Giudici, non risultano, quindi, in linea con detti principi le normative interne che, non prendendo in considerazione tutti i precedenti periodi di attività equivalente maturati da un lavoratore migrante in uno Stato membro diverso da quello di origine, non valorizzano integralmente le esperienze maturate all’estero e, perciò, rendono meno attraente la libertà di circolazione dei lavoratori.

Su tali presupposti, la CGUE afferma che è contraria alle norme europee la normativa nazionale che, ai fini della determinazione dell’importo della retribuzione di un lavoratore, prende in considerazione i periodi di attività svolti dal medesimo presso un datore situato in un altro Stato membro solo per un periodo massimo di tre anni.

A cura di Fieldfisher