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Cassazione: il TFR è esigibile solo alla effettiva cessazione del rapporto di lavoro


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Con l’ordinanza n. 5376 del 27.02.2020, la Cassazione afferma che il trattamento di fine rapporto maturato presso una società che accede alla procedura fallimentare, non può essere ammesso al passivo se il dipendente non ha ancora cessato il rapporto di lavoro.

Il fatto affrontato

I lavoratori di una società dichiarata fallita cedono il proprio TFR ad una società finanziatrice, che presenta domanda giudiziale di insinuazione del relativo credito al passivo fallimentare.
Il Tribunale respinge la richiesta di ammissione, dal momento che i lavoratori non avevano ancora cessato il loro rapporto, continuando a prestare servizio alle dipendenze dell’affittuario cui l’impresa datrice aveva ceduto un ramo d’azienda.

L’ordinanza

La Cassazione afferma, preliminarmente, che il diritto al trattamento di fine rapporto sorge solo al momento della effettiva cessazione del rapporto di lavoro.

Secondo i Giudici di legittimità, in caso di cessione dell'azienda, il credito relativo al TFR non è, dunque, esigibile se il rapporto continua.
In tali ipotesi, l’erogazione del trattamento di fine rapporto, è dovuta interamente dal datore di lavoro cessionario, il quale risponde direttamente per la quota maturata dopo la cessione ed in via solidale per la quota maturata prima.
L’impresa cedente, invece, risponde con riferimento alla quota maturata prima della cessione, in base all’accantonamento annuale, solo se sia venuto meno il rapporto di lavoro.

Per la sentenza, ne consegue che, in caso di fallimento dell’azienda cedente, non è possibile richiedere l’insinuazione allo stato passivo per la quota di TFR maturata prima della cessione del ramo d’azienda, se nel contempo non è intervenuta anche l’estinzione del rapporto lavorativo.

Su tali presupposti, la Suprema Corte, rigetta il ricorso della società finanziatrice, confermando la bontà del decreto di rigetto del Tribunale.

A cura di Fieldfisher