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Obbligo di riservatezza del lavoratore e illecito disciplinare


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1.Il dovere di riservatezza del lavoratore.

Dall’articolo 2105 del codice civile deriva l’obbligo per i lavoratori subordinati, dipendenti di un’impresa, di non comunicare a terzi notizie inerenti alle tecniche di organizzazione aziendale e ai metodi di produzione conosciute in occasione della propria prestazione di lavoro nell’azienda (“Il prestatore di lavoro non deve… divulgare notizie attinenti all’organizzazione aziendale e ai metodi di produzione dell’impresa …”: art 2105).

Fra i vari problemi interpretativi emersi nell’applicazione della predetta disposizione del codice, uno riguarda il modo di intendere la divulgazione delle notizie attinte durante la collaborazione nell’azienda.

L’illecito contrattuale qualificabile come violazione dell’obbligo riservatezza di cui all’art. 2105 c.c. richiede la comunicazione a soggetti terzi di determinate notizie e sussiste sia che le notizie siano comunicate a più persone contemporaneamente sia che siano comunicate ad una sola persona. Su questo non è lecito avere dubbi.

Nondimeno, divulgare, come si già presupposto, sta per “rendere pubblica o nota una notizia”.

Senza ignorare che al riguardo formulazione letterale dell’art. 2105 non è affatto neutrale, ci si può porre questa domanda: la comunicazione, come atto volontario del lavoratore, è comunque necessaria oppure, perché possa considerarsi sussistente la violazione dell’obbligo di riservatezza previsto dall’art. 2105, è sufficiente che il comportamento del lavoratore generi il concreto rischio della conoscenza delle notizie aziendali quand’anche il lavoratore non provveda consapevolmente a diffonderle?

2. Orientamenti giurisprudenziali che sfiorano l’art. 2105 c.c.

Alcune recenti sentenze della Corte di cassazione sono state presentate come delle decisioni che inciderebbero in modo univoco e netto sul modo di intendere l’art. 2105, in particolare per quanto riguarda la divulgazione delle notizie aziendali.

E’ interessante, quindi, considerare da vicino tali decisioni e questo proprio per verificare se e fino a che punto le stesse esprimano orientamenti da avere presente nel momento in cui si ha interesse a rifarsi all’art. 2105 per intervenire in casi concreti verificatisi in azienda.A tale scopo, si può analizzare, in particolare, la sentenza n. 25147 del 24 ottobre 2017.

Per comprenderne a pieno il significato, occorre aver presente la fattispecie di fatto sottostante alla decisione finale della Cassazione.

La controversia nasce in relazione ad una condotta del lavoratore “ … consistita nel trasferimento su una pen drive di sua proprietà, poi smarrita e casualmente rinvenuta nei locali della società, di un numero rilevante di dati appartenenti alla azienda, sebbene non divulgati a terzi … “. Condotta che, secondo la società datrice di lavoro, meritava il licenziamento per giusta causa.

Preso atto di queste circostanze, di fatto e valutative, un ulteriore punto rilevante è legato al fondamento che l’azienda pone a base del licenziamento, individuato nell’art. 52 del ccnl per gli addetti all’industria chimica che, in via esemplificativa, menziona fra le infrazioni meritevoli di un “licenziamento per mancanze” anche la sottrazione di dati aziendali (il ccnl parla di “trafugamento” di materiale illustrativo di aspetti aziendali).

Ebbene, sulla base di tale disciplina contrattuale la Corte di appello, riformando la sentenza di primo grado, riconosce la legittimità del disposto licenziamento, osservando che secondo il contratto collettivo ai fini del perfezionamento dell’infrazione disciplinare non risulta essenziale l’avvenuta divulgazione a terzi dei dati di cui il lavoratore si appropria essendo sufficiente, sul piano disciplinare, la mera sottrazione dei dati.

A fronte di tale precedente giurisprudenziale, la Corte di cassazione, chiamata in campo dal ricorso del lavoratore licenziato, conferma la conclusione adottata dalla Corte di appello.

Della sentenza dei Giudici di appello la Cassazione, oltre al predetto argomento tratto dalla specifica disciplina del contratto collettivo, condivide anche la considerazione secondo cui, nel caso di specie, l’infrazione disciplinare, da sanzionare sempre secondo il contratto collettivo con il licenziamento senza preavviso, sussisteva nonostante che nel caso di specie “… i dati sottratti fossero o meno protetti da specifiche password”.

La Cassazione, inoltre, afferma: “La circostanza che per il dipendente l’accesso ai dati fosse libero non lo autorizzava ad appropriarsene creandone copie idonee a far uscire le informazioni al di fuori della sfera di controllo del datore di lavoro. E’ condivisibile l’affermazione della Corte che una tale condotta violi il dovere di fedeltà sancito dall’art. 2105 c.c. Tale dovere, come anche di recente affermato da questa Corte, si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro, tali dovendosi considerare anche quelle che, sebbene non attualmente produttive di danno, siano dotate di potenzialità lesività (cfr. Cass. 30 gennaio 2017, n. 2239)”.

La Corte di cassazione, dunque, effettivamente cita l’art. 2105, ma le implicazioni di tale citazione appaiono da ponderare con attenzione.

Un punto essenziale è dato dal fatto che la Cassazione ha affrontato un caso di illecito (disciplinare) tratteggiato da un contratto collettivo che, quale infrazione disciplinare, considera esclusivamente l’impossessamento dei dati senza dare alcun rilievo ad una eventuale diffusione degli stessi.

Per questo, per rispondere alla domanda che ci si è posti, non si può attribuire soverchio valore alla sentenza n. 25147 dell’ottobre 2017: tale sentenza, a ben vedere, si è pronunciata sulla disciplina del contratto collettivo, priva di riferimento alla divulgazione, e, quindi, non può essere impiegata per interpretare l’art. 2105 e quanto lo stesso richiede in punto di divulgazione delle notizie aziendali.

Tuttavia, un qualche significato è da attribuire al rilievo che medesima sentenza dà al precedente rappresentato dalla sentenza n. 2239 del gennaio 2017. Questa sentenza, che in verità tratta dell’art. 2105 per quanto riguarda l’obbligo del lavoratore di non trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore/datore di lavoro, ribadisce che per aversi l’illecito disciplinare è sufficiente la “potenzialità lesiva” della condotta del lavoratore.

Ebbene, la sentenza n. 25147, avendo presente la specifica fattispecie portato al suo esame, avrebbe potuto limitarsi a considerare quanto previsto dal contratto collettivo, ma è andata oltre.

Il lavoratore prima ha copiato i dati in una pen drive e poi l’ha dimenticata con la possibilità che altri, impossessandosene, potessero venire a conoscenza di quanto in essa riprodotto e la sentenza, proprio in relazione a tale possibilità, ha richiamato la “potenzialità lesiva” del comportamento del lavoratore già fatta valere dalla sentenza n. 2239 sia pure con riferimento ad altri profili dell’art. 2105.

Non si può negare, pertanto, che queste decisioni, combinandosi, costituiscano una fonte suscettibile di essere impiegata per considerare sanzionabile anche il comportamento del lavoratore che tenga un comportamento che solo potenzialmente espone le notizie aziendali al concreto rischio della conoscenza da parte di soggetti terzi.

Profili, questi, che si intrecciano con il modo di intendere in generale la ratio del dovere di riservatezza posto dall’art. 2105, che per alcuni è inteso a sanzionare la scorrettezza di per sé insita nella diffusione delle notizie aziendali e per altri è inteso a colpire il comportamento del lavoratore solo se provoca un danno all’impresa

Avv. Angelo Pandolfo - Fieldfisher