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Il patto di non concorrenza nell’art. 2125 c.c


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1. Il patto di non concorrenza e la sua funzione 

Si è concordi nel ritenere che l’obbligo di non concorrenza, derivante a carico del lavoratore subordinato dall’art. 2105 c. c., cessi con la cessazione del rapporto di lavoro.

Anche per questo, una volta che il rapporto di lavoro sia cessato, nessun ostacolo incontra il lavoratore interessato a svolgere, per conto proprio o per altri, un nuovo lavoro, anche in concorrenza con l’attività esercitata dalla precedente datore di lavoro, fermo restando l’operare della normativa generale in materia di repressione della concorrenza sleale e senza escludere, a tal riguardo, la possibile rilevanza del fatto costituito dal precedente rapporto di lavoro.

Del recupero di libertà derivante dalla cessazione del rapporto di lavoro si può, peraltro, disporre, come espressamente previsto dall’art. 2125 c.c..

A norma di tale articolo, il datore di lavoro e il prestatore di lavoro possono pattuire l’estensione del vincolo di non concorrenza per un tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.

Si legge in giurisprudenza che “ … le clausole di non concorrenza sono finalizzate a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica e amministrativa, metodi ed i processi di lavoro, eccetera) ed esterni (avviamento, clientela, cc), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti “ (Cass. n. 24662/2014).

L’assunzione dell’impegno a non svolgere determinate attività impedisce, di fatto, che siano “esportate” informazioni ed esperienze che altrimenti risulterebbero trasferite per necessario riflesso dell’’esercizio di tali attività presso altre aziende.

A ciò è soprattutto legato l’interesse del datore di lavoro verso il patto.

La funzione del patto di concorrenza, tuttavia, attiene allo scambio fra un corrispettivo e il non svolgimento di determinate attività lavorative.

La salvaguardia del know how aziendale ne rappresenta un possibile effetto ma non un elemento costitutivo sotto il profilo causale, tanto è vero che il patto di non concorrenza può essere stipulato anche con lavoratori non depositari di particolari professionalità e di informazioni riservate.

D’altro canto, il formale rispetto del patto di non concorrenza, che non costituisce uno strumento operante a tutto campo, può accompagnarsi a comportamenti concorrenziali scorretti.

E‘ utile averne consapevolezza, al fine di considerare l’insieme dei rimedi attivabili avverso i comportamenti scorretti.

2. Il ruolo dell’autonomia contrattuale individuale.

Il patto di non concorrenza è così legato alle valutazioni di ogni singolo lavoratore da essere rimesso all’esclusiva competenza dell’autonomia privata individuale. Sarebbe infatti illegittima un’ipotetica clausola di un contratto collettivo, che incidesse sulla libertà dei lavoratori nel decidere se rinunciare, o meno, ad intraprendere determinate attività.

Peraltro, data la rilevanza degli interessi in gioco - con patto il lavoratore dispone del suo “diritto al lavoro” - l’autonomia privata individuale è sì riconosciuta, ma è guidata dall’art. 2125, che le impone l’obbligo di rispettare una serie di principi.

Il patto di non concorrenza può essere stipulato al momento dell’assunzione, ma anche durante lo svolgimento del rapporto di lavoro o al termine dello stesso.

Si è sostenuto che il patto stipulato dopo la cessazione del rapporto di lavoro rientri nella diversa fattispecie tipizzata da un altro articolo del codice: l’art. 2596 c.c., intitolato a ”Limiti contrattuali della concorrenza”.

Secondo una risalente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite (sentenza 10 aprile 1965, n. 630), il patto potrebbe essere stipulato anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro rimanendo applicabili le regole dettate all’art. 2125.

 

3.I requisiti specifici della patto di non concorrenza.

Il patto deve essere pattuito in forma scritta.

Non c’è dubbio che la forma scritta sia richiesta ad substantiam, cosicché l’intesa limitativa della libertà professionale del lavoratore raggiunta verbalmente sarebbe nulla.

A tutela della libertà del lavoratore, opera un limite di durata massima del patto: tre anni dalla cessazione del rapporto di lavoro per la generalità dei lavoratori; cinque anni al massimo per i dirigenti.

La fissazione di termini più lunghi di quelli previsti dalla legge non comporta invalidità dell’intero patto, ma solo la riduzione della durata del patto entro il limite fissato inderogabilmente a livello legislativo.

 

4.L’oggetto del patto.

Quando si tratta dell’oggetto del patto di non concorrenza, ci si interroga sull’ampiezza delle attività che, grazie al patto, si impediscono al lavoratore nel periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro con il soggetto, già datore di lavoro, firmatario del patto stesso.

Ebbene, senz’altro illegittimo sarebbe un patto che comportasse per l’ex dipendente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa.

Non è detto che, però, il patto possa riguardare solamente le mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, potendo abbracciare qualsiasi attività in grado di entrare in concorrenza con quella propria del datore di lavoro.

Per converso, l’equilibrio, che a stregua dell’art. 2125 c.c. deve caratterizzare il patto, fa escludere la legittimità di intese che comprimano l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale (Cass. n.13282/2003).

Da ultimo, la Cassazione ha precisato: per i limiti di oggetto [del patto] si deve aver riguardo all’attività del prestatore di lavoro, non circoscritta alle specifiche mansioni in concreto svolte presso il datore di lavoro nei cui confronti è assunto il vincolo.

L’articolo 2125 non fornisce indicazioni sull’estensione di tali limiti ma essi devono ricavarsi dalla ratio della previsione di nullità, palesemente intesa ad assicurare al prestatore di lavoro un margine di attività idoneo a procurargli un guadagno adeguato alle esigenze di vita proprie e della famiglia.

Si è così affermato che l’oggetto è delimitato dall’attività del datore di lavoro, con la conseguenza che devono escludersi dal possibile oggetto del patto, in quanto inidonee ad integrare concorrenza, attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale nel quale opera l’azienda, ovvero “ al mercato nelle sue oggettive strutture ove convergono domanda ed offerta di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi o fungibili, comunque parimenti idonei ad offrire beni o servizi nel medesimo mercato” (cfr. Cass. 21 gennaio 2004, numero 988; casse pensione, 21 marzo 2013, numero 7141) (Cass. n. 24662/2014).

 

5. I limiti territoriali

L’art. 2125 richiede una delimitazione anche di tipo territoriale delle attività che il lavoratore si impegna a non esercitare.

In ciò si ritrova un’ulteriore conferma della soluzione di compromesso ricercata dalla legge: stante la necessaria delimitazione territoriale dell’impegno assunto dal lavoratore, un’identica attività, che in un certo ambito territoriale sarebbe esercitata in violazione del patto, potrebbe essere esercitata legittimamente in un diverso ambito territoriale.

A fronte dell’espressa richiesta di limiti anche “di luogo” operata dall’art. 2125, non si esclude che l’area geografica coperta dal patto possa estendersi all’intero territorio nazionale, ferma restando l’esigenza di una valutazione congiunta dell’estensione territoriale del patto e del suo oggetto anche nella relazione sinallagmatica con il corrispettivo concordato.

Proprio considerando tutte le variabili in gioco (nel caso di un dipendente assunto con qualifica di addetto marketing ufficio estero presso una società leader a livello internazionale nel settore della commercializzazione di articoli per il fitness), si è considerato legittimo un patto di non concorrenza esteso al territorio italiano ed europeo, stante l’esigenza per un impresa operante in più Paesi “… di evitare distorsioni nella concorrenza in un mercato internazionale sempre più globale”.

A conferma della necessità di valutare le singole intese sulla base dell’insieme degli elementi rilevanti, giova aggiungere che all’anzidetta conclusione la Cassazione è pervenuta anche osservando che il lavoratore, avendo maturato esperienza di responsabile commerciale in più imprese, nonostante il patto conservava la libertà e la concreta possibilità di esercitare la sua professionalità in settori diversi da quello del fitness (Cass. n.13282/2003).

 

6.Il corrispettivo del patto.

Secondo quanto previsto sempre dall’art. 2125, alla limitazione della libertà del lavoratore, accettata sottoscrivendo il patto, deve corrispondere, a pena di nullità del patto stesso, un “correspettivo” versatogli dalla controparte.

L’art. 2125 non fornisce espressamente alcuna indicazione in merito ai criteri di determinazione del corrispettivo nonché alle modalità di erogazione.

Nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato manca, in effetti, una norma che fornisca indicazioni specifiche riguardo al corrispettivo, che vadano oltre il riconoscimento della sua necessaria presenza, diversamente da quanto invece fa l’articolo 1751-bis c.c. con riferimento al rapporto di agenzia.

È comunque acquisito nella giurisprudenza che la nullità del patto, che il lavoratore può far valere in base all’art. 2125 in combinazione con gli artt. 1418 e 1467 c.c., “… va riferita alla pattuizione non solo di compensi meramente simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiestogli rappresenti per il datore di lavoro, come del suo ipotetico valore di mercato” (Cass. n. 4891/1998; Cass. n. 7835/2006). In termini generali, si riconosce alle parti una piena libertà nel determinare la struttura del corrispettivo e il tempo del relativo pagamento.

È possibile prevedere un corrispettivo in forma di aumento della retribuzione corrente, come è possibile prevedere un corrispettivo in unica soluzione da pagare al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

L’opzione per l’erogazione del corrispettivo in costanza di rapporto di lavoro, come una voce che si aggiunge alla normale retribuzione, incontra l’alea della durata del rapporto di lavoro, tanto che non è mancata qualche decisione giurisprudenziale intervenuta criticamente su tale formula. La nullità del patto, ad esempio, è stata dichiarata in un caso in cui il rapporto di lavoro era cessato otto mesi dopo la stipulazione (Tribunale Milano 18 giugno 2001).

Anche per evitare il rischio di successive contestazioni in sede giudiziaria, appare, pertanto, preferibile il pagamento del corrispettivo nel periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro o, come pure è possibile, in parte al momento della cessazione del rapporto di lavoro e in parte dopo la cessazione.

 

7. Il regime fiscale e contributivo del corrispettivo

Al modo in cui è definito il corrispettivo si dà rilievo anche per quanto riguarda l’imponibilità ai fini Irpef e dei contributi previdenziali obbligatori.

Per quanto riguarda l’Irpef, ci si può avvalere di un esplicito pronunciamento legislativo: secondo l’art. 17 del TUIR, l’imposta si applica separatamente anche alle “…altre indennità e somme percepite una volta tanto in dipendenza della cessazione dei predetti rapporti, comprese … quelle attribuite a fronte dell’obbligo di non concorrenza ai sensi dell’articolo 2125 del codice civile …”.

Il corrispettivo, come si è visto, può essere erogato prima della cessazione del rapporto di lavoro, nel corso dello stesso.

In casi del genere, si perviene ad una conclusione diversa: si ritiene, infatti, che le frazioni del corrispettivo corrisposte mensilmente siano da assoggettare alla tassazione ordinaria (la tassazione separata viene legata all’esigenza di “… agevolare il lavoratore dipendente evitando che l’intero importo, derivante dalla stipula del patto di non concorrenza, ma comunque collegato ad un rapporto di lavoro dipendente protratto nel tempo, concorra alla formazione del reddito complessivo relativamente ad un unico periodo di imposta, con un notevole pregiudizio per lo stesso lavoratore in termini di determinazione dell’aliquota progressiva applicabile” : Agenzia delle entrate – Risoluzione n. 234/E del 10 giugno 2008. Esigenza specifica che, all’evidenza, non si avverte allorquando non si ha un versamento in un’unica soluzione).

Per quanto attiene al profilo contributivo, si considera imponibile il corrispettivo erogato frazionatamente in corso di rapporto di lavoro (Cass. n.3507/1991).

Ad identica conclusione si perviene anche nel caso in cui il corrispettivo venga erogato in modo diverso: avendo presente la nozione generale di imponibile contributivo, si osserva che il corrispettivo “a tale nozione va pertanto ricondotto, in quanto erogato in dipendenza della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato - ancorché per una obbligazione di non facere da adempiere nel tempo successivo alla sua cessazione - e in funzione di compenso a fronte delle limitazioni lavorative per tale tempo convenute, anche il corrispettivo del patto di non concorrenza, non rilevando infine, ai fini indicati, se lo stesso venga erogato in costanza di rapporto di lavoro, quale quota o parte della retribuzione ( su cui cfr. Cass. 4 aprile 1991 n.3507 e 20 luglio 1983 n. 5014) oppure al termine o dopo la cessazione del rapporto di lavoro (ad es., periodicamente per la durata della obbligazione di non facere)” (Cass. n. 16489/2009).

 

8. Il patto di non concorrenza con clausola di opzione.

All’attenzione della giurisprudenza è venuta un specifica clausola posta all’interno del patto e, in particolare, recante la facoltà del datore di lavoro , da esercitare entro un termine predeterminato, di non avvalersi del patto stesso, con conseguente venir meno del diritto del lavoratore a percepire il corrispettivo.

In passato, clausole del genere sono state considerate legittime, ritenendo di scorgere nell’art. 2125 un sufficiente margine di autonomia delle parti protagoniste del patto.

Da ultimo, diverse decisioni della Cassazione, oltre che di Giudici di merito, sono pervenute alla conclusione opposta, considerando nulle clausole che comportano una indeterminatezza dell’obbligo assunto dal lavoratore.

In particolare, secondo Cass. n. 9491/2003, stante che in base a quanto previsto dall’art. 2125 (interpretato alla luce degli artt. 4 e 35 della Carta costituzionale) la limitazione allo svolgimento dell’attività lavorativa deve essere contenuta entro limiti di oggetto, tempo e luogo ed essere compensata da un corrispettivo di natura latamente retributiva, non è consentito attribuire al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l’attribuzione patrimoniale inizialmente pattuito (in una analoga prospettiva, Cass. n. 25462/2017; Cass. n.3/2018).

Avv. Angelo Pandolfo - Fieldfisher