Stampa

Cassazione: nullo il recesso del datore dal patto di non concorrenza


icona

Con l’ordinanza n. 10535 del 03.06.2020, la Cassazione afferma che la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza post-contrattuale rimessa unicamente all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative.

Il fatto affrontato

La lavoratrice ricorre giudizialmente al fine di ottenere, da parte del suo ex datore di lavoro, la somma di € 37.031,00, a titolo di indennità per il patto di non concorrenza post-contrattuale nei due anni successivi alla cessazione del rapporto con lo stesso intercorso.
La Corte d’Appello accoglie la predetta domanda, deducendo la nullità della clausola, inserita nel contratto di lavoro, che riconosceva al datore la libertà di recedere unilateralmente dal patto.

L’ordinanza

La Cassazione - nel confermare la statuizione della Corte d’Appello - ribadisce, preliminarmente, il principio secondo cui la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all'arbitrio del datore concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative.

Secondo i Giudici di legittimità, detta nullità si integra anche laddove il recesso dal patto di non concorrenza post-contrattuale sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro.
Ciò in quanto, per entrambe le parti gli obblighi si cristallizzano al momento della sottoscrizione del contratto.

Per la sentenza, infatti, l’inserimento nel contratto di un patto di non concorrenza – che comprime la libertà del dipendente, impedendogli di progettare liberamente il proprio futuro lavorativo – è legittimo solo ove, a fronte di detta compromissione, sia previsto un corrispettivo a carico del datore.
Corrispettivo che finirebbe con l'essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo.

Su tali presupposti, la Suprema Corte, rigetta il ricorso della società, confermando l’obbligo della stessa al versamento dell’importo contrattualmente pattuito.

A cura di Fieldfisher