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Organizzazione del lavoro, Italia fanalino di coda


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In questo momento storico la flessibilità dell’organizzazione del lavoro e l’autonomia nello svolgimento dei propri compiti hanno occupato una posizione chiave nel dibattito sulle politiche del lavoro.

L’adozione dello smart working si è rilevata determinante per preservare i livelli occupazionali durante la pandemia e per limitare la mobilità quotidiana, soprattutto nelle aree urbane.

Oltre a ridurre le possibilità di contagio, la minore mobilità lavorativa ha rappresentato uno strumento di salvaguardia ambientale, avendo come effetto la riduzione del tempo speso negli spostamenti e dell’inquinamento a esso associato. Nel 2019, il 2,8% degli occupati (630mila) ha dichiarato di aver impiegato più di un’ora per recarsi sul posto di lavoro, il 13,3% da mezz’ora a un’ora e l’83,1% non più di mezz’ora. Far lavorare a distanza anche solo i lavoratori che svolgono una attività telelavorabile e impiegano più di un’ora per recarsi al lavoro, significherebbe diminuire di circa 800mila ore il tempo speso negli spostamenti e l’inquinamento a esso associato per ogni giorno di smart working.

E’ apparso evidente come il tema non si esaurisca nella possibilità di conciliare i tempi di lavoro con quelli delle altre sfere di vita né tanto meno con la possibilità di sospendere l’attività lavorativa per qualche ora.

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Sul punto l’Istituto Nazionale di Statistica ha condotto un’indagine dal titolo “ L’organizzazione del lavoro in Italia : Orari, luoghi e grado di autonomia “con ulteriori spunti di riflessione su una realtà, come quella italiana, restia a cambiamento e innovazione.

L’ Italia, infatti, si attesta in ultima posizione nel ranking della diffusione del lavoro agile, preceduta in Europa da Grecia, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia ed Ungheria. Rispetto ad una media europea del 17 %, in italia solo il 7% dei lavoratori ha accesso allo smart working, di cui il 5% smartworkers occasionali e meno dell’1% telelavoratori.

Prima dell’epidemia Covid-19 il ricorso al lavoro da remoto ha interessato un segmento limitato di attività e di lavoratori, nonostante la platea potenzialmente più ampia. Secondo una stima, sono 8,2 milioni gli occupati che svolgono una professione in qualche modo esercitabile da remoto, quota che scende a circa 7 milioni se si escludono le professioni per le quali il lavoro da remoto è ipotizzabile solo in situazioni di emergenza (ad esempio gli insegnanti nei cicli di istruzione primaria e secondaria). Nel corso del 2019, però, solo il 12,1% (circa un milione di occupati) ha concretamente sperimentato questa possibilità.

Un alert è però doveroso. Il rapporto di scambio tra flessibilità goduta ( dal lavoratore ) e flessibilità richiesta ( dal datore di lavoro ) non sempre risulta equo e vantaggioso ,e ad ogni modo, la ricerca di un equilibrio non è assolutamente cosa semplice. La possibilità di svolgere le proprie mansioni in modo più o meno flessibile ( ed “ agile “ se vogliamo ), assieme all’uso assiduo di strumenti innovativi in ambito lavorativo, nascondono delle insidie da affrontare con consapevolezza.

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ACDR