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Smart working: Dalle criticità alle opportunità per il lavoro agile


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Il lavoro agile, o smart working che dir si voglia, è apparso fin dagli inizi dell'epidemia un adeguato strumento per ridurre i rischi del contagio. Nel frattempo, la determinata volontà di contrastare la diffusione del virus sta portando ad una serie di normative speciali in deroga alla disciplina legale ordinaria. La Legge n. 81/2017 individua nel lavoro agile non un " genus " ulteriore ma più semplicemente una particolare modalità di svolgimento della prestazione di lavoro, in forma subordinata senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, grazie all'utilizzo di strumenti tecnologici che consentono di rendere la prestazione lavorativa a distanza. In questo contesto lo smart working appare come una formula da valorizzare ulteriormente.

1. Il lavoro agile nell’emergenza determinata dall’epidemia da COVID-19

La fonte di tali speciali normative è rappresentata dall’art. 2 del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 25 febbraio 2020 (G.U. 25.2.2020 n. 47). L’attività lavorativa da remoto, effettuata presso la propria abitazione e senza recarsi presso la sede dell’azienda o della pubblica amministrazione datrice di lavoro, è subito e spontaneamente apparsa come una soluzione utile a prevenire i contatti e, potenzialmente, il rischio di diffusione dell’infezione.

[Sull'argomento il Governo è intervento una terza volta con il DPCM 1 marzo 2020  apportando ulteriori modifiche alla disciplina speciale del lavoro agile ]http://www.lavorosi.it/rapporti-di-lavoro/tipologie-contrattuali/corona-virus-dpcm-1-marzo-2020-ulteriori-disposizioni-sul-lavoro-agile/

 

La predetta disposizione del DPCM è volta a favorire il lavoro agile di cui alla legge n. 81/2017, riguardando non solo la cosiddetta zona rossa (10 comuni della Lombardia e un comune del Veneto, destinatari delle misure restrittive) ma più ampiamente la cosiddetta zona gialla formata dalle Regioni considerate più a rischio: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Friuli, Piemonte, Liguria.

IL DPCM fa comprendere che la normativa speciale è applicabile anche nel caso di lavoratori che provengono dai predetti territori ma, ove non si ricorresse al lavoro agile, sarebbero tenuti a svolgere l’attività lavorativa al di fuori degli stessi. Al predetto scopo, le novità introdotte riguardano:

a) la possibilità di attivare lo smart working anche in assenza di accordo individuale (datore di lavoro/lavoratore), cosicché il lavoro agile sia attivabile anche per iniziativa unilaterale del datore di lavoro (la disposizione del DPCM relativa a questo aspetto prende il posto di quella contenuta nel precedente DPCM del 23 febbraio che parlava di applicazione delle disposizioni della l. n. 81/2017 “in via automatica”);

b) l’obbligo di consegnare “… al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un'informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di Lavoro” (art. 22 l. n. 81/2017) può essere assolto in via telematica utilizzando documentazione resa disponibile dall’INAIL).

L'accordo per lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità lavoro agile, come regola generale, è oggetto di comunicazione obbligatoria telematica a stregua dell’art. 9-bis del d.l. n. 510/1996.

Il Ministero del Lavoro ha chiarito che, nei casi in cui trova applicazione la normative speciale, l’accordo individuale è sostituito da una autocertificazione che il Lavoro agile si riferisce ad un soggetto appartente ad una delle aree a rischio e che, nel campo della “data di sottoscrizione dell’accordo”, va inserita la data di inizio dello smart working.

Il DPCM prevede che questa è una normativa provvisoria, applicabile fino al 15 marzo 2020 e, inoltre, ribadisce che per gli altri aspetti continuano a trovare applicazione “… i principi dettati …” dalla l. n.81.

A maggior ragione, è utile approfondire l’insieme delle disposizioni riguardanti il lavoro agile, ormai formato dalla combinazione di norme legislative e di norme di contrattazione collettiva, nella convinzione che si tratta di un istituto dotato di caratteristiche che lo fanno apparire utile ben al di là della fase di emergenza.

2. Grandi finalità per lo smart working: una regolamentazione all’altezza dei “tempi”

Nelle premesse degli accordi sindacali sul lavoro agile, che si stanno moltiplicando, è spesso citata la legge n. 81 del 2017, che fin dal titolo dichiara di recare “… misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.

Citazioni da parte degli accordi che danno conferma del fatto che la legge è percepita, in termini generali, come una fonte che concorre alla legittimazione di particolari modalità di collocazione del lavoro nelle organizzazioni aziendali, interessate, a loro volta, da profondi cambiamenti.

Modalità particolari che, peraltro, la contrattazione collettiva ha sperimentato ben prima dell’emanazione della legge, a conferma della superiore sensibilità dei contratti nel cogliere l’avanzata del nuovo e assecondarlo in una cornice di regole per esso appositamente concepite.

In termini generali, legge e accordi collettivi convergono nell’enunciare le finalità rimesse alla introduzione dello smart working o - secondo le parole della legge - del “lavoro agile”.

Conciliazione fra vita professionale e vita lavorativa, crescita della produttività e della “efficacia lavorativa”: si tratta di formule presenti nella legge e comuni, al di là di varianti terminologiche, agli accordi sul lavoro agile, a prescindere dal tipo di azienda e dal settore in cui gli accordi sono negoziati.

Conciliazione fra vita professionale e vita lavorativa, crescita della produttività e della “efficacia lavorativa”: si tratta di formule presenti nella legge e comuni, al di là di varianti terminologiche, agli accordi sul lavoro agile, a prescindere dal tipo di azienda e dal settore in cui gli accordi di smart working sono negoziati.

Tralasciando una visione riduttiva dello smart working e concependolo come (possibile) espressione e, al tempo stesso, fattore di innovazione organizzativa, a maggior ragione non ci si può accontentare della mera enunciazione di grandi finalità.

La sola diffusione di una pratica, che ormai può procedere sulle gambe della contrattazione collettiva e anche della legge, non implica, come è stato giustamente osservato, la sua efficacia rispetto alle finalità dichiarate, cosicché si impongono verifiche sui concreti processi di implementazione e di attuazione.

Verifiche da effettuare anche a proposito delle normative legislative e contrattuali di dettaglio, con lo scopo di saggiarne il grado di rispondenza e funzionalità rispetto a lodevoli e, al tempo stesso, impegnative finalità.

Ciò che lo smart working evoca come modificato - ossia lo spazio e il tempo di lavoro - è parte tradizionale della concezione stessa del lavoro subordinato. 

Questo è emerso come riconoscibile e diffuso fenomeno sociale quando il tempo di vita è stato invaso e compresso dal tempo di lavoro, che per decenni ha quasi ridotto il primo ad una mera pausa fra prestazioni lavorative.

Quando lo stesso tempo di lavoro è risultato penetrato da rigide istruzioni e da macchine capaci di scandire i ritmi lavorativi, non solo la durata dell’orario di lavoro ma anche la sua densità sono emerse come problemi da affrontare.

Tutto ciò dentro processi di notevole cambiamento anche da un punto di vista spaziale, con la concentrazione di masse di lavoratori in specifici luoghi di lavoro pensati appositamente per la produzione.

Processi, riguardanti la geografia e i tempi del lavoro, che hanno sollecitato ed avuto una loro legislazione: quella sul potere direttivo e quella sui limiti massimi di lavoro possono citarsi come componenti di un ben più ampio complesso normativo sviluppatosi sugli stimoli del cambiamento nella sfera della produzione.

E’ impensabile che i processi in fieri - con la prima rivoluzione industriale ormai lontanissima ma anche con il taylorismo e il fordismo soppiantati e la rivoluzione digitale in atto - non siano accompagnati da normative - questo si spera - adeguate e capaci di assecondare il dinamismo di un nuovo che via via si trasforma.

Il punto è che, se in passato si sono affrontati soprattutto problemi quantitativi relativi all’orario di lavoro (come: quante ore di lavoro normale, quante ore di lavoro straordinario?), si tratta sempre più di affrontare problemi di carattere qualitativo, pure al di là di quanto è legato alla personalizzazione degli orari di lavoro.

Dal contratto di lavoro subordinato deriva un insieme di effetti e, sempre più, sull’insieme di effetti si riflettono anche spinte provenienti dai prestatori di lavoro interessati ad una migliore organizzazione e gestione dei tempi di vita. Una spinta, questa, non necessariamente in conflitto con le esigenze delle imprese nell’era dell’innovazione continua ma, in ipotesi, non in conflitto anche grazie alla costruzione (non facile) di normative all’altezza dei “tempi”.

3. Le fonti negoziali di regolazione del lavoro agile: accordi individuali e/o collettivi per lo smart working?

La legge n.81/2017, con una scelta non consueta, opera numerosi rinvii agli accordi individuali, fra il datore di lavoro e il singolo lavoratore, come fonte di regolazione di aspetti non secondari dell’attività svolta al di fuori dei locali aziendali.

Tali accordi vengono richiamati con riferimento ad una serie di aspetti e, in particolare, sollecitati ad affrontare gran parte delle peculiarità del lavoro prestato all’esterno dei locali aziendali: “esecuzione della prestazione lavorativa”; “forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro”; “strumenti utilizzati dal lavoratore”; “tempi di riposo del lavoratore”; “misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”; “diritto all’apprendimento permanente”; “esercizio del potere di controllo del datore di lavoro”; “condotte, connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa … , che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari” (art. 18, 19, 20 e 21 legge n. 81).

Gli accordi individuali sono necessari. La particolare “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato”, indicata dalla legge come “ lavoro agile ”, è opzione che richiede, a monte, il consenso di ambedue le parti del rapporto (ferma la possibilità del recesso unilaterale alle condizioni fissate dall’art. 19, comma 2, della legge).

Per il resto, la contrattazione collettiva ha fatto valere le sue generali prerogative, provvedendo con accordi aziendali o di gruppo a regolare, più o meno, i vari aspetti dello smart working evidenziati dalla legge, senza per questo entrare in conflitto con la scelta legislativa di far riferimento ai contratti individuali.

Invero, una interpretazione che, ai fini della regolazione del lavoro agile attribuisse alla legge la fondazione di un monopolio a favore dei contratti individuali a scapito di quelli collettivi, non starebbe in piedi.

Anche i contratti collettivi che introducono/regolano lo smart working sono muniti della tipica funzione normativa e, quindi, in grado di predeterminare la disciplina della fase di lavoro all’esterno dei locali aziendali. La disciplina di origine contrattuale/collettiva, concernente tale fase, è voluta dal datore di lavoro che sottoscrive l’accordo sindacale, ma è voluta anche dal lavoratore che l’accetta nel momento in cui volontariamente concorda sulla modalità agile di esecuzione del rapporto come definita dall’accordo sindacale.

Si ha evidenza di schemi di accordo individuale allegati a contratti collettivi sottoscritti da aziende che hanno introdotto il lavoro agile, schemi ovviamente 5 conformi a quanto previsto dai contratti stipulati fra aziende e organizzazioni sindacali.

Nel preambolo degli schemi di accordo individuale predisposti a livello collettivo viene puntualmente menzionata la preesistenza dell’accordo sindacale riguardante lo smart working. Come evidenziato anche da tali schemi, gli accordi individuali, oltre a rilevare come atti che confermano la consensualità del ricorso all’esecuzione in modalità agile, conservano competenze che vanno oltre la predisposizione di norme generali e astratte.

Ad esempio, se l’accordo collettivo richiede che il lavoratore indichi preventivamente i luoghi in cui presterà l’attività lavorativa, è nell’accordo individuale che si avrà tale specificazione.

3.1. La disciplina contrattuale dello smart working: tutta negli accordi individuali?

Che pensare di ipotesi in cui imprese, che si mantengono estranee al sistema della contrattazione collettiva, ricorrano al lavoro agile senza una previa stipula di un accordo sindacale ad hoc?

Lo smart working ha come sua tipica funzione anche quella di favorire la realizzazione di interessi personali del lavoratore, ma questo non è sufficiente a far superare una valutazione perplessa della scelta legislativa, che affida ad accordi individuali materie ad essi non congeniali.

Come già sopra evidenziato, sono prefigurati interventi degli accordi individuali su poteri unilaterali del datore di lavoro, come il potere direttivo e il potere di controllo.

Ciò può far pensare che l’implementazione di tali rinvii non possa che portare ad una maggiore tutela dei lavoratori. Tuttavia, non si può escludere che possano risultare peggiorative per i lavoratori discipline definite tutte a livello individuale.

 

4. A proposito del potere direttivo: l’etero-direzione della prestazione lavorativa nella fase di lavoro esterno ai locali aziendali è attuale?

La legge non si pronuncia solo sull’allentamento dei vincoli spaziali e temporali della prestazione lavorativa in smart working, ma anche sul modo in cui essa è resa e, per l’appunto, non solo sul dove e sul quando della prestazione.

La legge, da una parte, conferma, con saggia decisione, che il lavoro agile si colloca nel perimetro del lavoro subordinato e, dall’altra, evoca modalità di svolgimento della prestazione lavorativa già pensate per l’esecuzione di rapporti di lavoro autonomo.

Fa, in particolare, riferimento alla collaborazione del lavoratore agile nell’ambito di “forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi”, formula che fa pensare all’oramai 6 superato “lavoro a progetto” della “ legge Biagi” (d.lgs. n. 276/2003) comunque appartenente all’area del lavoro autonomo.

Riguardo a questi ulteriori profili, continua, oppure no, il dialogo e la consonanza fra legge e contrattazione collettiva?

In concreto, che immagine e conseguente regolamentazione della prestazione lavorativa gli accordi sindacali fanno emergere?

La risposta a tale interrogativo è da ricercare leggendo i testi contrattuali sulla base di alcune premesse: non risulta più al passo con i tempi lo stereotipo gerarchico/esecutivo del lavoro subordinato; in sinergia con la trasformazione tecnologica ed organizzativa, è sempre più richiesta come qualità del capitale umano la capacità di essere maggiormente partecipi delle strategie aziendali, di collaborare all’impresa con più autonomia, di esercitare crescenti responsabilità operative.

Ebbene, se pure si trovano alcune clausole di accordi sindacali che, in termini generali, richiamano il potere direttivo del datore di lavoro anche con riferimento alla fase del rapporto attuata in modalità agile, si fa fatica a rinvenire normative volte a disciplinare “.. le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro …”: profilo, questo, che la legge indica come possibile contenuto degli accordi individuali e che, di certo, non è in astratto precluso agli accordi collettivi.

Se ne ricava l’impressione che non sussista un particolare interesse a disciplinarlo direttamente: da una parte, è ben possibile che le indicazioni fornite al lavoratore per l’esecuzione del contratto di lavoro nei locali aziendali possano valere anche per la fase esterna a tali locali; dall’altra, l’autonomia del lavoratore agile nell’esecuzione della prestazione può costituire davvero una risorsa per l’azienda più che un cedimento rispetto alle prerogative proprie del datore di lavoro.

Dal punto di vista delle regolazioni apprestate, il lavoro agile si presenta, pertanto, come un ambito elettivo di sperimentazione di modalità di gestione dei rapporti di lavoro basate sulla fiducia e su particolari margini di autonomia del prestatore di lavoro.

Talora, gli accordi richiamano la diligenza professionale a cui il lavoratore è tenuto anche quando lavoro all’esterno in regime di smart working. Questa è una sottolineatura che conferma ciò che è di per sé scontato. Essa, inoltre, conferma che non è priva di forme di intervento l’impresa che si affida al modulo obiettivi/risultati e all’auto-responsabilità dei lavoratori al di fuori di valutazioni di conformità rispetto a condotte rigidamente predeterminate nell’esercizio del potere direttivo.

Nondimeno, appare eccessivo ritenere, come è stato prospettato, che dalla legge sul lavoro agile derivi una fattispecie speciale di lavoro subordinato. La “contrattualizzazione” del potere direttivo, caratteristico potere unilaterale del datore di lavoro, non risulta più di tanto realizzata dagli accordi, siano essi individuali o collettivi. 

La “contrattualizzazione” del potere direttivo, caratteristico potere unilaterale del datore di lavoro, non risulta più di tanto realizzata dagli accordi, siano essi individuali o collettivi.

Più in generale, l’autonomia nel lavoro agile risulta riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 2094 c.c., a fronte dell’orientamento disponibile a non considerare un ossimoro il riconoscere una maggiore autonomia nella subordinazione e, altresì, della disponibilità anche della giurisprudenza a considerare l’assoggettamento del prestatore di lavoro subordinato alle “ disposizioni per l’esecuzione del … del lavoro …” (art. 2104 c.c.) una variabile che può essere attenuata in ragione del contesto in cui la prestazione è da rendere (cfr., per tutte, Cass. n.23845/2017).

La prestazione lavorativa è, del resto, orientabile anche attraverso meccanismi diversi dalla fissazione di specifiche “istruzioni per l’esecuzione … del lavoro” e dalla connessa possibilità di sanzionare comportamenti difformi, già a partire dal quello presupposto proprio dalla legge sul lavoro agile: secondo la sua ratio ispiratrice, un assetto del rapporto in grado di assecondare maggiormente il soddisfacimento di esigenze del lavoratore grazie alla particolare collocazione dell’attività lavorativa nello spazio e nel tempo, può portare anche a migliori risultati per l’impresa per riflesso della più agevole realizzazione (degli interessi) della persona che lavora.

Nella legge è nascosto anche un altro meccanismo ugualmente utile al predetto scopo.

Il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato in attuazione dei contratti collettivi al lavoratore che lavora esclusivamente all’interno dell’azienda: è quanto prevede l’art. 20 della l. n. 81/2015.

Ne deriva che lo smart working non può comportare l’esclusione dalle forme di retribuzione incentivante legate ai risultati, sempre più importanti non solo nella composizione della struttura delle retribuzioni ma anche nell’orientare le collaborazioni lavorative verso fini aziendali. Nella prospettiva delineata, non si ha bisogno di costruzioni più spinte, volte ad attribuire alla disciplina del lavoro agile la fondazione di una fattispecie speciale, che trovano un ostacolo anche nella formulazione letterale della disposizione legislativa.

Questa, come si è già riportato, rimette ai contratti la definizione delle “forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro”. Si può intendere, pertanto, che alla fonte negoziale siano rimesse solo le modalità da seguire nell’impartire (eventuali) direttive da parte del datore di lavoro per l’esecuzione del lavoro al di fuori dei locali aziendali.

Ci potrebbe essere interesse a definire tali modalità, ove quelle consuete siano efficaci solo nei locali aziendali e non al di fuori di essi. Ciò non toglie che il rinvio legislativo, limitato a quanto appena prospettato, non dà elementi per la costruzione di una nuova figura di lavoro subordinato, ferma restando la capacità della fattispecie generale di adeguarsi al mutare degli assetti del lavoro.

5. Il potere di controllo.

A stregua dell’art. 21, comma 1, della legge, l’accordo individuale relativo alla modalità di lavoro agile disciplina l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali e ciò nel rispetto dell’articolo 4 dello Statuto dei diritti dei lavoratori.

Non si è avuto modo di consultare accordi individuali che trattino diffusamente di questi aspetti.

Gli stessi accordi sindacali, che trattano ampiamente dell’obbligo di salvaguardia della riservatezza dei dati e delle informazioni aziendali, fanno, in genere, solo qualche accenno alla tutela della privacy di chi lavora in  regime di smart working.

L’assenza di una disciplina contrattuale per il lavoro agile, tuttavia, non impedisce la praticabilità del controllo a distanza nei termini previsti in generale. Non resta, pertanto, che valutare con attenzione il rinvio all’art. 4 dello Statuto effettuato dall’art. 21 della legge e gli effetti che ne derivano.

L’art. 4 è una tipica norma che non lascia più di tanto spazi all’autonomia privata. Come si è già osservato, al riguardo non si registra un particolare attivismo delle parti private (individuali e collettive), ma è anche vero che le stesse non avrebbero potuto, come non potrebbero, dettare regole difformi rispetto a quanto previsto dall’ art.4, a meno che non si immagini la produzione di regole più garantiste a favore dei lavoratori interessati.

Nel lavoro agile, come lavoro da remoto, il controllo a distanza può apparire come un strumento particolarmente utile se non necessario. Il rispetto dell’art. 4 dello Statuto, ribadito espressamente per la fase di lavoro in regime di smart working, non consente di accantonare principi e cautele valevoli per il lavoro prestato nei locali aziendali.

Quanto affermato e consolidatosi nell’ interpretazione/applicazione dell’art. 4 rimane, pertanto fermo, anche per la fase di esecuzione del contratto di lavoro in modalità agile. 

La legge sul lavoro agile tratta degli “strumenti tecnologici” come di strumenti “assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa” (art. 18, comma 9 2). In genere, gli accordi collettivi individuano tali strumenti nel computer portatile e nello smartphone.

Per questo, si può ritenere che tali strumenti rientrino nell’eccezione alla regola dell’accordo sindacale preventivo o dell’autorizzazione amministrativa. Tornando all’art. 21, il rinvio che esso opera è solo all’art. 4, senza alcun riferimento espresso alla normativa sulla privacy di cui al relativo codice (ora adeguato al GDPR). Ciò non toglie che anche nella fase di esecuzione del contratto di lavoro in modalità agile sia da dare seguito a tale normativa.

Dopo la riforma dovuta al d.lgs. n. 151/2015, è già l’art. 4, comma 3, a richiedere espressamente ai datori di lavoro di operare anche “nel rispetto” di quanto previsto dal codice privacy.

6. Dentro e fuori i locali aziendali

Per definizione legislativa, il lavoro agile, o smart working che dir si voglia, ricorre quando almeno una parte della prestazione lavorativa è resa all’esterno dei “locali aziendali” e, peraltro, “senza una postazione fissa”.

Cambiano, dunque, i “locali aziendali”, interessati dalla tendenza a riprogettarli secondo modelli di activity based workspace. Si deroga, altresì, alla normale identificazione del luogo di esecuzione del lavoro con i locali aziendali, considerando anche un altrove (inizialmente indefinito) come luogo di svolgimento della prestazione la cui identificazione è lasciata alquanto libera dalla legge. Un altrove, si badi, che non solo è esterno ai locali aziendali, ma che può essere anche variabile.

La legge dà, infatti, a vedere che, all’esterno della azienda, l’agilità del lavoro può legittimamente esprimersi come collocazione della attività lavorativa ora in un luogo ora in un altro.

Considerando l’ipotesi dell’infortunio in itinere nel lavoro agile, la legge fornisce qualche suggestione sul luogo esterno, mostrando di privilegiare “… la scelta del luogo della prestazione … dettata da esigenze connesse dalla prestazione stessa o dalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative e … [rispondente] a criteri di ragionevolezza”.

Formulazione legislativa che non piace per la congiunzione disgiuntiva, che sembra presupporre una rigida alternatività nel soddisfacimento degli interessi in gioco in contraddizione con la logica (che talora diviene retorica) win-win dello smart working, ma che per altri versi è interessante.

E’ interessante, ad esempio, che venga espressamente considerata l’ipotesi in cui, ai fini aziendali, la collocazione all’esterno dell’attività lavorativa può risultare particolarmente utile rispetto alla permanenza all’interno.

Ipotesi che, anche nella prospettiva della open innovation, tende a moltiplicarsi e che, fra l’altro, offre indirettamente, ma significativamente, anche una base legislativa alle soluzioni di coworking, non inteso semplicemente come un lavorare l’uno accanto all’altro al di fuori dei locali aziendali ma come un possibile e più avanzato modo di far vivere l’esperienza della proficuità del lavoro, se non della creatività, come risultato dell’interazione fra più soggetti.

Chi sceglie il luogo dello svolgimento del lavoro al di fuori dei locali aziendali?

Rileva a conferma della discrezionalità salvaguardata dalla legge, il fatto che questa non si pronunci espressamente al riguardo, fermo restando che la ratio complessiva dell’intervento legislativo non è al riguardo neutrale e gioca a favore del lavoro agile.

La lettura degli accordi conferma che il lavoratore è abilitato a far valere le sue scelte, nell’ambito di indicazioni degli accordi più o meno dettagliate: in smart working “la prestazione è da rendere scegliendo luoghi idonei che consentano il pieno esercizio della propria attività lavorativa in condizioni di sicurezza dal punto di vista dell’integrità fisica propria e degli altri”; a parte la quota di prestazione lavorativa da rendere nei locali aziendali, la prestazione è da collocare “presso altro luogo idoneo”; “i dipendenti dovranno in ogni caso, per poter effettuare la prestazione lavorativa al di fuori della sede aziendale, attestare la sussistenza delle idonee condizioni lavorative mediante apposito modulo individuale”.

E’ così confermata la possibilità del lavoratore di individuare il luogo in cui rendere la prestazione di lavoro agile. Non mancano discipline contrattuali che appaiono più prescrittive di altre, ma comunque considerano tipologie di luoghi - come “proprio domicilio/propria residenza; altro luogo chiuso” - che continuano a consentire diverse opzioni. Qualche accordo, oltre a dare un’elencazione di particolari luoghi in cui il lavoratore potrà svolgere la sua prestazione, richiede che il lavoratore indichi di volta in volta il luogo in cui svolgerà la prestazione lavorativa. Resta che, in generale, riguardo al profilo spaziale le regolamentazioni, come risultanti da legge e contratti, riconoscono al lavoratore margini di discrezionalità in grado di determinare un ampliamento della possibilità di utilizzare il tempo libero in modo di fatto più proficuo per il soddisfacimento di esigenze personali.

6.1. La questione della sicurezza del lavoro

Come abbiamo visto, i contratti collegano la scelta del luogo di lavoro da parte del lavoratore alla questione della sicurezza. Collegamento non inopportuno, che peraltro si colloca all’interno di normative legislative e contrattuali che tuttora lasciano incertezze sulla distribuzione delle responsabilità riguardo alla sicurezza.

Interpretazione della legge sul lavoro agile e, in particolare, del suo art. 22 tendono ad accentuare la auto-responsabilità del lavoratore nell’attuazione delle misure di sicurezza e a circoscrivere il “dovere di sicurezza” gravante sul datore di lavoro alla consegna, almeno annuale, dell’informativa scritta sui rischi generali e specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro in regime di smart working oltre all’obbligo specifico di assegnare ai lavoratori “strumenti tecnologici” sicuri e di “buon funzionamento” (art. 18, comma 2) .

Interpretazioni del genere hanno dalla loro un fatto innegabile: nel periodo di lavoro all’esterno dei locali aziendali, il datore di lavoro non ha la disponibilità del luogo di lavoro. Questa è anche l’impostazione interpretativa che, in genere, sembra presupposta dagli accordi sindacali sul lavoro agile.

E’ opportuno, tuttavia, avere consapevolezza di interpretazioni maggiormente disposte a valorizzare canali di più esteso collegamento con il TU sulla sicurezza, secondo cui la legge sullo smart working aggiungerebbe delle prescrizioni lasciando inalterati altri obblighi del datore di lavoro derivanti dal TU.

In tale prospettiva, viene sottolineato come la particolare e restrittiva nozione di “luoghi di lavoro” data dall’art. 62 del TU - “si intendono per luoghi di lavoro … luoghi destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o delle unità produttiva accessibile a lavoratore nell’ambito del proprio lavoro” - valga esclusivamente ai fini (dell’applicazione) di alcune disposizioni dello stesso TU e, quindi, non possa essere utilizzata per affermare l’estraneità del lavoro agile ad altre normative sulla sicurezza.

C’è poi da aver presente la conclusione tratta dall’art. 3, comma 10, dello TU, relativo al “Campo di applicazione” dello stesso, che fa riferimento a “… tutti i lavoratori subordinati che effettuano una prestazione continuativa di lavoro a distanza, mediante collegamento informatico e telematico, compresi quelli di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999 numero 70, e di cui all’accordo quadro europeo sul telelavoro concluso il 16 luglio 2002 …”.

Anche se non mancano ragioni per considerare il lavoro agile - fattispecie diversa dal telelavoro – non ricompreso nell’ambito circoscritto dall.3, comma 10, questa disposizione ha fatto da catalizzatore di opinioni secondo cui anche per lo smart working, come lavoro prestato normalmente (non occasionalmente) a distanza, varrebbe quanto previsto per chi lavora fuori dai locali aziendali utilizzando “attrezzature munite di videoterminali” (artt. 172/177 TU), con conseguenti corollari in termini di valutazione dei rischi ex art. 28 circa l’utilizzo di videoterminali da parte dei lavoratori agili e di possibilità di accesso di vigilanza nei luoghi in cui è svolto il lavoro all’esterno dei locali aziendali (quarto periodo dell’art. 3, comma 10).

La ricaduta pratica che si trae da tale impostazione è che andrebbe formato un elenco dei luoghi in cui il lavoratore svolgerà la sua prestazione, con la realizzazione della flessibilità spaziale fra i luoghi indicati nell’elenco (conclusione che, peraltro, riconduce agli accordi individuali. Solo questi sono in grado di indicare i luoghi di impegno di ciascun lavoratore al di fuori dei locali aziendali).

In conclusione, ancora sussiste l’esigenza di una affidabile messa a punto del quadro normativo di riferimento sullo smart working, in grado di offrire alla contrattazione collettiva precisi riferimenti sulla base di una lettura critica dell’insieme delle normative legislative e non solo di quelle che si ritrovano direttamente nella legge riguardante il lavoro agile.

6.2. La tutela infortunistica

Con un certo disordine, ma così spingendo a prestare attenzione al rischio professionale, l’articolo 23, intitolato a “Assicurazione obbligatoria per gli infortuni e le malattie professionali”, prevede che l’accordo per lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile e le sue eventuali modificazioni costituiscono oggetto di comunicazione obbligatoria al Ministero del lavoro che, fra gli altri, la inoltra all’INAIL.

In questo modo, l’Istituto assicuratore riceve informazioni che gli consentono di monitorare la concreta diffusione della specifica modalità di esecuzione del rapporto di lavoro e sugli effetti che essa produce sul piano assicurativo. Subito dopo, lo stesso art. 23 ribadisce che l’assicurazione per gli infortuni e le malattie professionali resta attuale anche per i “… rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all’esterno dei locali aziendali”.

Di questo non ci si può certo meravigliare. Il lavoratore, che presta la sua opera al di fuori dei locali aziendali, è un lavoratore subordinato e, di conseguenza, rientra fra le persone da assicurare come previsto dal TU sull’assicurazione INAIL; d’altro canto, può ben essere che effettui lavorazioni pericolose ai sensi del medesimo TU, in particolare legate all’utilizzo di impianti e apparecchi elettrici esplicitamente considerati dall’art. 1 del TU fra le “attività protette”.

Ai fini della determinazione dei premi da versare, la classificazione dell’attività svolta all’esterno dell’azienda può essere quella propria della medesima lavorazione effettuata in azienda: è quanto afferma la circolare INAIL n. 48/2017 che sottolinea come, sia per l’attività all’interno come per quella all’esterno dell’azienda, gli strumenti tecnologici sono ugualmente forniti dal datore di lavoro. Sul versante delle prestazioni, è evidenziato dalla predetta circolare che “… gli infortuni occorsi mentre il lavoratore presta la propria attività lavorativa all’esterno dei locali aziendali e nel luogo prescelto dal lavoratore stesso sono tutelati se causati da un rischio connesso con la prestazione lavorativa”.

Negli eventi professionali - infortunio e malattia professionale - è sempre richiesta una relazione con l’attività lavorativa. Per questo, non si vede perché da parte della circolare si debba adottare una formula particolare di incerta interpretazione - connessione con la prestazione lavorativa - quando può sovvenire la normativa generale sull’occasione di lavoro e la causa di lavoro (peraltro, richiamata dall’art. 23 quando tratta dell’infortunio in itinere).

Una esplicita regolamentazione legislativa, ad opera dell’art. 23, è dettata per quanto attiene all’infortunio in itinere, ammesso anche con riferimento al “… normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali …”. L’ammissione non è senza condizioni.

Il diritto all’indennizzo viene, infatti, legato alla scelta del luogo della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, richiedendosi che sia “… dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa o dalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenza di vita con quelle lavorative e risponda a criteri di ragionevolezza”.

Per riflesso di tale previsione, emerge uno spazio di valutazione dell’INAIL, foriero di incertezze e possibile contenzioso. La formulazione legislativa - dall’abitazione al luogo esterno all’azienda - non sembra idonea a far escludere la rilevanza dell’infortunio occorso nel tragitto dai locali aziendali al luogo di lavoro esterno all’azienda o all’abitazione come luogo di lavoro.

La ratio complessiva dell’intervento legislativo spinge in tal senso. Infine, la circolare INAIL considera gli accordi individuali “… come strumento utile per l’Individuazione dei rischi lavorativi ai quali il lavoratore è esposto e dei riferimenti spazio temporali…”

Accordi che forniscono indicazioni del genere possono favorire un più rapido riconoscimento delle prestazioni infortunistiche, ma per lo steso INAIL la mancanza delle stesse non preclude senz’altro l’indennizzabilità dell’infortunio richiedendo solamente specifici accertamenti.

7. Flessibilità e limiti dell’orario

Una definizione meno rigida degli orari, con l’orario standard che tende a divenire un riferimento solo formale, è fenomeno diffuso già per quanto riguarda il lavoro svolto tutto nei locali aziendali e coerente con i modelli organizzativi più avanzati e al passo con la trasformazione tecnologica.

Fenomeno, questo, che nel caso del lavoro agile assume caratteristiche particolari e, in generale, di più accentuata flessibilizzazione. Anche la flessibilizzazione dell’orario nello smart working può guardarsi considerando i due elementi tipici della strutturazione degli orari e sui quali, nella prospettiva della de-standardizzazione, può intervenirsi: quello quantitativo della durata dell’orario di lavoro e quello della collocazione dell’orario nel tempo complessivo. Per quanto riguarda la durata, si deve prendere atto del fatto che la legge, da una parte, precisa che il lavoro agile procede “senza precisi limiti di orario” e, dall’altra, evoca limiti massimi invalicabili, che essa stessa individua nel “…limiti di durata massima dell’orario giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva” (art. 18, comma 1), di fatto non particolarmente significativi in primo luogo perché lontani dalla durata dell’impegno lavorativo esigibile.

La stessa legge precisa che i limiti massimi sono “i soli” che il lavoro agile incontra. Non di meno, in tema di durata, più accordi di smart working fanno riferimento all’orario ordinario di cui ai contratti collettivi, dando l’idea che così si è inteso confermare l’esigenza di non eccedere nel protrarre l’attività lavorativa (non è da dimenticare che, per la legge, gli orari massimi giornalieri e settimanali sono rispettivamente di 13 e 48 ore).

L’esternalizzazione del lavoro tende a sottrarre la durata dell’attività lavorativa delle predeterminazioni di cui ai contratti collettivi sull’orario e a rimetterla all’auto-responsabilità, tanto che un po’ tutti gli accordi sul lavoro agile avvertono la necessità di precisare che nelle giornate di smart working non si riconosce lavoro supplementare e straordinario.

Nel lavoro agile, dunque, l’orario perde la capacità di misurare la quantità del lavoro prestato, cosicché ancor di più si impongono sistemi di coordinamento e controllo fondati su obiettivi e risultati. Sull’estensione temporale della prestazione lavorativa si riflette anche la “disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro” (19, comma 1).

La legge rinvia per la disciplina della disconnessione all’accordo individuale, fra il datore di lavoro e il lavoratore agile, e non prevede particolari sanzioni ove il rinvio non abbia seguito. Come su altri aspetti dello smart working, sono gli accordi collettivi che si sono posti come fonte della regolamentazione con soluzioni diverse, come l’individuazione di una fascia oraria di connessione (ad esempio, 9/18) e disconnessione oltre tale fascia oppure fissazione di una fascia di disconnessione (ad esempio, 20/8, 30) o, ancora, connessione fatta espressamente coincidere con l’orario normale di lavoro e conseguente diritto alla disconnessione per tutto il successivo periodo.

Si tratta di soluzioni che comportano periodi di connessione più o meno ampi, che comunque conservano la possibilità di disconnessione di svolgere una duplice funzione, da una parte come limite alla protrazione dell’attività lavorativa, (almeno di quella che necessita degli strumenti tecnologici) e, dall’altra, come limite alla possibilità di incidenza sulla vita privata del lavoratore astrattamente realizzabile attraverso gli strumenti tecnologici di lavoro.

Gli stessi accordi indicano espressamente fasce orarie entro cui il lavoratore dovrà rendere la prestazione, facendole coincidere con il periodo di connessione oppure posizionandole all’interno di un periodo di connessione più ampio. In ogni caso, rimane ampia la discrezionalità del lavoratore di collocare l’attività lavorativa all’interno della fascia che lo riguarda, anche perché gli accordi ribadiscono che il lavoratore che esegue il contratto di lavoro agile può adempiere anche in maniera discontinua all’obbligazione lavorativa.

La conciliazione è una delle grandi finalità perseguite. Nella complessiva regolamentazione che si ha modo di osservare, il lavoratore ha apprezzabili margini per collocare l’attività nei momenti che più gli consentono di avere tempo utile per soddisfare le sue personali esigenze. Al riguardo, è interessante fare un confronto con la disciplina della flessibilità nel rapporto a tempo parziale che, come è noto, prevede la “variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa” (art. 6, comma 4, d.lgs. n. 81/2015).

Ebbene, quella del lavoro a tempo parziale è una flessibilità di interesse delle aziende e, assumendo tale presupposto la legge la circonda di cautele e limiti. La flessibilità di cui al lavoro agile è una flessibilità nell’interesse dei lavoratori e, per questo, la legge e i contratti collettivi la lasciano molto più libera, sulla base dell’assunto che non è in grado di pregiudicare le attese delle imprese datrici di lavoro e, magari, di assicurarne un maggiore soddisfacimento. 

Prof. Avv. Angelo Pandolfo – Partner Fieldfisher