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Corte d’Appello di Venezia: le caratteristiche del licenziamento discriminatorio


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Con la sentenza n. 200 del 02.04.2019, la Corte d’Appello di Venezia afferma che un licenziamento può essere dichiarato discriminatorio, anche laddove, accanto ad una violazione delle norme che tutelano un particolare status, sia presente una diversa causa od un diverso motivo su cui si fonda il recesso.

Il fatto affrontato

Il lavoratore, avente mansioni di facchino all’interno di una società cooperativa, impugna giudizialmente il licenziamento disciplinare irrogatogli per essersi rifiutato, in due distinte occasioni, di svolgere la prestazione richiesta.
A fondamento della propria domanda, il medesimo deduce il carattere discriminatorio del recesso, sul presupposto che l’attività richiesta, nelle due circostanze oggetto di contestazione, consisteva nella movimentazione di pacchi contenenti soltanto bevande alcoliche e, come tale, risultava lesiva della sua dignità religiosa di fedele musulmano.

La sentenza

La Corte d’Appello, confermando quanto statuito dal Tribunale, afferma, preliminarmente, che la discriminazione opera in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (con conseguente autonomia del licenziamento discriminatorio dal motivo illecito determinante).

Sotto questo profilo, secondo i Giudici, vi è una netta distinzione tra licenziamento discriminatorio e licenziamento ritorsivo: il primo può accompagnarsi, infatti, ad un altro legittimo motivo di recesso e discende direttamente dalla violazione di specifiche norme interne ed europee a tutela dello “status” o della “condizione” soggettiva protetta dalla normativa.
Il secondo, invece, deve necessariamente passare attraverso la mediazione dell’art. 1345 c.c., con esclusione dell’applicazione della norma in presenza di altra ragione - fondata o meno che sia - riconducibile alla giusta causa.

Per la sentenza, nel recesso discriminatorio, il bene tutelato è uno status (quali ad esempio: l’appartenenza al sindacato, il credo religioso, il sesso, il genere, ecc.) che, in quanto tale, è elemento fondante il licenziamento: in tal caso passa in secondo piano e diviene irrilevante l’elemento intenzionale che spinge il datore ad irrogare la sanzione espulsiva (c.d. oggettività della situazione protetta).
Tuttavia il carattere oggettivo della tutela non implica un’inversione dell’onere della prova, incombendo sul lavoratore l’onere di dimostrare, quanto meno attraverso presunzioni gravi e rilevanti, la natura discriminatoria del licenziamento.

Su tali presupposti, dal momento che il dipendente non è riuscito ad assolvere detto onere, la Corte d’Appello respinge il ricorso dal medesimo avanzato, confermando la legittimità del licenziamento irrogatogli.

A cura di Fieldfisher