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Corte Costituzionale: è incostituzionale la norma che prevede che l’indennità per i licenziamenti con vizi formali si basi solo sull’anzianità di servizio


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Con la sentenza n. 150 del 16.07.2020, la Corte Costituzionale afferma l’illegittimità della norma che ancora il risarcimento previsto per il licenziamento affetto da vizi formali e procedurali unicamente all’anzianità di servizio. Detta disciplina, infatti, non compensa il pregiudizio arrecato dall’inosservanza di garanzie fondamentali e non rappresenta una sanzione efficace, atta a dissuadere il datore dal violare le garanzie prescritte dalla legge (sul punto si veda anche il commento al comunicato stampa: Corte Costituzionale: l’indennità per i licenziamenti con vizi formali non può basarsi solo sull’anzianità di servizio).

Il caso affrontato

Il Tribunale di Bari e quello di Roma - nel corso di procedimenti inerenti all’impugnativa giudiziale di licenziamenti irrogati a lavoratori assunti con il c.d. contratto a tutele crescenti - sollevano una questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del D.Lgs. 23/2015, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 24 e 35, primo comma, della Costituzione.
In particolare, i Giudici chiedono che la Consulta valuti la legittimità della predetta norma, nella parte in cui prevede che la quantificazione dell’indennità risarcitoria, da corrispondere in caso di recesso viziato nella forma o nella procedura, debba basarsi esclusivamente sull’anzianità di servizio del dipendente illegittimamente licenziato.

La sentenza

La Corte Costituzionale rileva, preliminarmente, che le prescrizioni formali, tutelate dalla disposizione censurata, rivestono una essenziale funzione di garanzia ispirata a valori di civiltà giuridica, dal momento che, nella disciplina dei licenziamenti, il rispetto della forma e delle procedure assume un rilievo preminente.

Per i Giudici, il rispetto della forma e della procedura nelle procedure di licenziamento è riconducibile al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost., che impone al legislatore di circondare di doverose garanzie e di opportuni temperamenti il recesso datoriale.

Secondo la sentenza, la disciplina introdotta dal Jobs Act non attua un equilibrato contemperamento tra i diversi interessi in gioco, tanto da potersi considerare lesiva dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza.
L’anzianità di servizio, svincolata da ogni criterio correttivo, è, infatti, inidonea ad esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore e non presenta neppure una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore ha inteso sanzionare.
Tale disvalore non può esaurirsi nel mero calcolo aritmetico della anzianità di servizio, ma deve, quantomeno, tenere in considerazione ulteriore fattori quali: la diversa gravità delle violazioni ascrivibili al datore od ancora i più flessibili criteri del numero degli occupati, delle dimensioni dell’impresa, del comportamento e delle condizioni delle parti.

Per la Consulta, dunque, nell’appiattire la valutazione del giudice sulla verifica della sola anzianità di servizio, la disposizione in esame determina un’indebita omologazione di situazioni che, nell’esperienza concreta, sono profondamente diverse e, così, entra in conflitto con il principio di eguaglianza e ragionevolezza.

Su tali presupposti, la Corte Costituzionale - seguendo la strada già intrapresa con la pronuncia n. 194/2018 (Corte Costituzionale: incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità di licenziamento basato solo sull’anzianità di servizio) - dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del D.Lgs. 23/2015, limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».

A cura di Fieldfisher