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Cassazione: licenziamento per superamento del periodo di comporto, quando può ritenersi tardivo?


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Con l’ordinanza n. 18960 del 11.09.2020, la Cassazione afferma che il licenziamento per superamento del periodo di comporto non può dirsi tardivo quando il datore, prima di irrogare il recesso, si prenda un periodo di tempo congruo per valutare la compatibilità della malattia del dipendente con gli interessi aziendali.

Il fatto affrontato

Il lavoratore impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli, in data 25.09.2015, per superamento del periodo di comporto, a fronte delle assenze per malattia accumulatesi dal 19.11.2013 al 17.09.2015.
A fondamento della predetta domanda, il medesimo deduce la tardività del recesso, essendo il termine di conservazione del posto previsto dal CCNL scaduto nell’aprile 2015.
La Corte d’Appello respinge il ricorso, osservando che il tempo trascorso tra la maturazione del periodo di comporto e l'intimazione del licenziamento era giustificato dalla volontà della società datrice di verificare la compatibilità della malattia con la prosecuzione dell'attività che, tuttavia, era poi apparsa definitivamente compromessa.

L’ordinanza

La Cassazione - nel confermare la statuizione della Corte d’Appello - afferma, preliminarmente, che il requisito della tempestività del recesso per superamento del periodo di comporto non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, dovendo essere oggetto di una valutazione di congruità da operare nel concreto con riferimento all'intero contesto fattuale.

Secondo i Giudici di legittimità, infatti, in tali circostanze l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quello del datore a disporre di un ragionevole periodo di tempo, in cui valutare se le assenze per malattia del dipendente sono compatibili con gli interessi aziendali.

Per la sentenza è, quindi, il lavoratore a dover provare che l'intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione del licenziamento ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del datore di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dal lavoratore, confermando la no tardività e, quindi, la legittimità del recesso irrogatogli.

A cura di Fieldfisher