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Cassazione: rapporto tra il mobbing ed il reato di maltrattamenti in famiglia


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Con la sentenza n. 7639 del 16.02.2018, la Cassazione penale afferma che le condotte mobbizanti tenute dal datore di lavoro possono integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 c.p., soltanto qualora sia provata la para-familiarità in ambito lavorativo ed il dipendente coinvolto si trovi in uno stato di subordinazione/soggezione tale da sfociare in un sostanziale “giogo” rispetto al datore.

Il fatto affrontato

Padre e figlia, titolari di una piccola azienda, vengono condannati dai Giudici di merito per aver commesso il reato di maltrattamenti in famiglia, ex art. 572 c.p., integrato dalla tenuta di condotte mobbizanti, culminate nel demansionamento di una dipendente al rientro dalla maternità.

La sentenza

La Corte d’Appello, essendo in presenza di un datore di lavoro coinvolto direttamente nelle più disparate dinamiche aziendali, tanto da essere a conoscenza di particolari della vita privata della dipendente mobbizzata, ha ravvisato la sussistenza di una situazione di para-familiarità all’interno dell’impresa, presupposto sufficiente per ritenere integrato il reato previsto e punito dall’art. 572 c.p.

La Cassazione, censurando tale pronuncia, afferma che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore e tese alla sua emarginazione possono integrare il citato delitto esclusivamente qualora il rapporto tra il datore ed il dipendente assuma natura para-familiare, e come tale sia caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra in un contesto di prossimità permanente, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.

Pertanto, per provare la sussistenza della circostanza de qua non è sufficiente il riferimento alla mera conoscenza di particolari della vita privata del lavoratore (condizione assai frequente nelle piccole imprese), essendo, invece, necessaria un’assidua comunanza di vita, che deve tradursi in una stretta ed intensa relazione tra i soggetti coinvolti, caratterizzata dalla condivisione di tutti i momenti tipici del contesto familiare (consumo comune dei pasti, pernottamento nei medesimi luoghi, ecc.).

I Giudici di legittimità aggiungono, inoltre, che ulteriore requisito necessario per l’integrazione del reato di maltrattamenti in famiglia è lo stato di subordinazione/soggezione del lavoratore “perseguitato”, il quale deve trovarsi in una situazione di sostanziale “giogo” rispetto al datore e deve essere costretto ad accettare il sopruso e le mortificazioni, senza poter esternare qualsivoglia forma di ribellione, in modo da scongiurare il pericolo di incorrere in possibili sanzioni, finendo con il subire la propria autosvalutazione come male minore.

Difettando i suddetti requisiti nel caso di specie, la Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto dai titolari dell’azienda, rinviando alla Corte d’Appello per un nuovo giudizio.

A cura di Fieldfisher