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Cassazione: ha diritto al risarcimento del danno il dipendente privato dei propri compiti


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Con la sentenza n. 9901 del 20.04.2018, la Cassazione afferma che ai sensi dell’art. 2103 c.c., nella sua formulazione ante Jobs Act, il dipendente privato dei propri compiti ha il diritto a vedersi riconosciuto il risarcimento del danno da parte della società.

Il fatto affrontato

La lavoratrice ricorre giudizialmente al fine di richiedere il risarcimento del danno subito, essendo rimasta, al suo rientro in servizio dopo un periodo di cassa integrazione, totalmente inattiva.
La società si costituisce sostenendo che tale inattività era da imputare unicamente alla crisi, che aveva determinato una riduzione dell'organico, incidendo fortemente sull'assetto produttivo.
La Corte d’Appello, confermando la pronuncia di primo grado, condanna l’azienda, non avendo la stessa dimostrato in concreto l’impossibilità di reperire un’attività alternativa da assegnare alla dipendente, anche in considerazione della natura non altamente professionalizzata delle mansioni in precedenza svolte.

La sentenza

La Cassazione afferma, preliminarmente, che il lavoratore, cui l'art. 2103 c.c. (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal Jobs Act) riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte, ha a fortiori il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti.
In capo al prestatore sussiste, dunque, non solo il dovere, ma anche il diritto all'esecuzione della propria prestazione lavorativa, cui il datore ha il correlato obbligo di adibirlo.

La violazione del suddetto obbligo è, secondo la sentenza, fonte di una responsabilità risarcitoria per il datore, che deriva dall'inadempimento di un'obbligazione consistente nel dovere di protezione del prestatore ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema.

I Giudici di legittimità sostengono, pertanto, che la responsabilità datoriale in tema di demansionamento quale illecito contrattuale prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti.
Per la risarcibilità del danno non patrimoniale è, infatti, sufficiente che la condotta illecita del datore abbia violato, in modo grave, i diritti del dipendente, oggetto di tutela costituzionale, mediante una gestione non corretta del rapporto di lavoro.

Alla luce di quanto sopra, la Corte conclude delineando il principio di diritto secondo cui determinati comportamenti, imputabili a scelte del datore, pur se non caratterizzati da uno specifico intento persecutorio, laddove suscettibili di considerazione in termini di idoneità offensiva per il lavoratore soggetto a privazione e mortificazione, possono, come tali, essere ascritti a responsabilità del datore stesso, chiamato conseguentemente a rispondere dei danni dai medesimi derivati.

A cura di Fieldfisher