1. L’ambito di discussione
In giurisprudenza e dottrina è ampiamente discusso il tema della possibilità di derogare i termini massimi di preavviso in caso di dimissioni.
I principali temi in discussione sono:
a) legittimità del prolungamento: la condizione primaria per la validità di una clausola di prolungamento è che sussista l’accordo tra le parti;
b) interesse reciproco: deve essere concreto e contestuale;
c) effetti della proroga: il patto di prolungamento impegna le parti firmatarie;
d) conseguenze in caso di violazione: in assenza di regolamentazione volontaria delle conseguenze derivanti dalla violazione, in caso di contenzioso, sarà il giudice adito che stabilirà le conseguenze della violazione valutando tutti i fattori, nonchè avendo riguardo alle singole posizioni da tutelare.
2. L’interpretazione della Suprema Corte
Con la sentenza n. 4991 del 12 marzo 2015 la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla legittimità del patto con il quale il lavoratore si era obbligato, a fronte di un corrispettivo economico, a osservare un periodo di preavviso, in caso di dimissioni, più lungo rispetto a quello fissato dal CCNL. Nel detto specifico caso valutato dai giudici di legittimità il CCNL per il personale dipendente dalle imprese creditizie – applicato al caso giudicato – prevede espressamente la possibilità, in caso di dimissioni, di stabilire un differente termine di preavviso, concordato tra le parti.
A ciò si aggiunga però che la Suprema Corte – con la citata pronuncia – ha confermato l’orientamento per cui una pattuizione volta a regolamentare il periodo di preavviso sarebbe valida a prescindere dalla possibilità che tale "deroga" sia espressamente prevista dal CCNL. Secondo la Corte è, dunque, legittima la pattuizione individuale (nel caso esaminato, un patto a efficacia temporanea determinata, esaurita la quale i contraenti hanno la possibilità di disdetta, con preavviso, del patto stesso) con la quale è stabilito, a fronte di un vantaggio economico per il lavoratore, un periodo di preavviso più lungo rispetto a quello indicato dal CCNL: con la conseguenza che il datore di lavoro, nel caso in cui il lavoratore non rispetti il periodo di preavviso concordato, ha diritto di ottenere l'indennità sostitutiva.
Con sentenza n. 14457 del 9 giugno 2017 la Corte di Cassazione è tornata sull’argomento del patto di durata minima, affermandone la legittimità a condizione che esso, esaminato nel suo complesso, sia più favorevole per il lavoratore rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo: in sintesi le utilità che derivano dal contratto individuale debbono essere migliorative per il dipendente.
Occorre, infatti, avere a mente che l’art. 2118, primo comma, c. c. rinvia la fissazione del termine di preavviso non all’autonomia individuale, bensì alle norme corporative e, quindi, ora ai contratti collettivi di diritto comune, agli usi o all’equità giudiziale.
Inoltre, limitatamente alla categoria impiegatizia, sono ancora in vigore i termini di preavviso previsti dall’art. 10 del RDL n. 1825 del 1924 (c.d. legge sull’impiego privato), che per il licenziamento possono essere pattuiti “in misura più larga” (art.10, comma 1) onde favorire il lavoratore, mentre per le dimissioni il rinvio agli stessi termini (art.14, comma 1) non sembrerebbe comprendere anche la facoltà di ampliamento che qui svantaggerebbe il lavoratore.
In tal modo, a fronte di previsioni legali e contrattuali collettive, non derogabili in peius dall’autonomia privata, viene scongiurato il pericolo della imposizione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, di un preavviso di dimissioni eccessivamente lungo.
Infatti, l’art. 2118 c.c., nello stabilire la libertà di recesso dal contratto di lavoro, ha previsto che i contraenti diano un preavviso all’altra parte nei “termini” fissati dal CCNL. Di conseguenza, potrebbe concludersi che la modifica della clausola collettiva sui termini di preavviso sarebbe lecita soltanto se la legge o il CCNL ne preveda la possibilità o se essa faccia conseguire un trattamento più favorevole al lavoratore. Si ricorda, infatti, che, ai sensi dell’art. 2077 c.c., quanto previsto in un contratto individuale di lavoro deve essere uniforme alle disposizioni del CCNL di categoria e che “le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro”.
A fronte dell’orientamento della giurisprudenza, è bene, dunque, sapere che alcune delle decisioni aventi oggetto il patto di prolungamento del preavviso sono pervenute a conclusioni di legittimità dello stesso, giudicando su casi in cui il contratto collettivo consentiva alle parti di prolungare i termini di preavviso e valutando solo in via astratta la possibilità di estendere il preavviso anche in assenza di espressa previsione del CCNL.
Vi sono, infatti, alcuni contratti collettivi che espressamente prevedono la facoltà delle parti di derogare alla durata prevista dal CCNL: è il caso del CCNL del settore credito che prevede che il lavoratore sia tenuto a presentare le dimissioni per iscritto con un termine di preavviso determinato, salvo diverso termine concordato dalle parti (Art. 79 CCNL per i quadri direttivi e per il personale delle aree professionali dipendenti dalle imprese creditizie, finanziarie e strumentali e Art. 26 CCNL per i dirigenti dipendenti dalle imprese creditizie, finanziarie e strumentali). Ebbene una volta ammessa dalla contrattazione collettiva, non può che affermarsi la legittimità della disciplina individuale che, ad esempio, preveda il prolungamento del periodo di preavviso da uno a dodici mesi.
3. L’analisi della dottrina
Più dura è parte della dottrina, la quale in tema di durata del preavviso e di ammissibilità del prolungamento si è espressa negativamente ritenendo la normativa di riferimento protesa alla tutela del lavoratore e come tale inderogabile in pejus. Essa sostiene che il prolungamento del preavviso rappresenti un vincolo alla libertà aggravato dal fatto che l’indennità sostitutiva del preavviso a fronte del prolungamento equivarrebbe a una penale tanto elevata da impedire di fatto l’anticipata risoluzione.
Pertanto, alcuni autorevoli interpreti (Antonio Vallebona, “Preavviso di dimissioni e accordi individuali”, in Lav. giur., 2001, pag. 1120; Pietro Ichino, “Il contratto di lavoro”, Vol. III, 2000, pag. 390) sostengono che la durata del preavviso non può in genere costituire oggetto di pattuizioni individuali per esplicita previsione contenuta nell’art. 2118 c.c. che demanda espressamente alle norme contrattuali. Non mancano, però, voci dissonanti (Alberto Levi, “Contratto di lavoro e recesso del dipendente”, G. Giappichelli Ed., 2012, pag. 84; A Russo, “Problemi e prospettive nelle politiche di fidelizzazione del personale. Profili giuridici”, Milano 2004, pag.122) che sostengono che le clausole di prolungamento del preavviso possono essere considerate legittime in quanto anche il lavoratore, pur a fronte di un carattere di corrispettività consistente in un aumento monetario e nella garanzia di un percorso professionale, trae un beneficio dalla stabilità del rapporto pur a fronte della limitazione del proprio potere di recesso.
4. Requisiti di legittimità e spunti di riflessione
Perché le clausole di prolungamento del preavviso siano legittime è necessario un ulteriore requisito: il vincolo al potere di recesso del lavoratore deve necessariamente essere contenuto entro un congruo limite di ragionevolezza. La linea di confine tra legittimità e illegittimità in detto senso sembra essere quella della ragionevole temporaneità, da valutarsi caso per caso, comunque nei limiti di un termine massimo biennale (analogicamente rapportato dagli interpreti alla durata massima del contratto a tempo determinato) e, in particolare, da calibrarsi in relazione al bilanciamento tra lo specifico interesse del datore alla stabilità e il diritto del lavoratore alla libertà di recesso.
Infine per svincolare le clausole di prolungamento del preavviso potenziali valutazioni di legittimità, occorre operare affinchè il regime contrattuale predisposto non vada a incidere sull’assetto di interessi sotteso all’art. 2118 c.c. Il riferimento è all’ipotesi in cui si preveda che dalla violazione dell’obbligo contrattuale di estendere il preavviso non derivi alcuna conseguenza di tipo risarcitorio (ossia il pagamento di un’indennità sostitutiva del preavviso come prolungato), ma solo la restituzione del compenso aggiuntivo rimasto senza causa. In questo caso, infatti, “non è violata alcuna norma inderogabile, perché il lavoratore può liberarsi del rapporto senza rispettare il maggior preavviso semplicemente rinunziando al compenso superminimale pattuito ad hoc e senza ulteriori conseguenze pregiudizievoli” (Antonio Vallebona, opera citata).
Quanto, invece, alla a volte riscontrata definizione dell’emolumento corrispettivo del patto di prolungamento del preavviso quale “indennità straordinaria” ai fini della non incidenza sul TFR e istituti contrattuali indiretti, l’art. 2120 c.c., c. 2, stabilisce che, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, la retribuzione annua utile ai fini del calcolo del TFR comprende tutte le somme, incluso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese.
La Legge 29 maggio 1982, n. 297 “Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica” ha innovato la definizione di retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR contenuta nel testo previgente dell’art. 2120 c.c., introducendo il concetto di “non occasionalità” in luogo di quello di “continuità”.
La nuova nozione di retribuzione utile ai fini del TFR, che attiene alla natura e alla tipologia dell’emolumento, esclude solo le erogazioni sporadiche e occasionali, cioè collegate a ragioni aziendali del tutto imprevedibili e fortuite: così, ad esempio, sono state escluse dal computo le somme erogate “una tantum” a titolo di liberalità, non collegate al rendimento del lavoratore o all’andamento aziendale.
Tale novità comporta, secondo la prevalente giurisprudenza, che devono computarsi nella retribuzione utile tutti gli emolumenti riferiti a eventi collegati al rapporto lavorativo o connessi alla particolare organizzazione del lavoro o in diretta dipendenza con le mansioni stabilmente svolte dal lavoratore in seno all’azienda.
In buona sostanza, secondo quello che è oramai l’orientamento giurisprudenziale prevalente, ai fini dell’inclusione di un compenso nella retribuzione utile non è necessario che esso abbia assunto carattere di definitività, ma è sufficiente che di esso il lavoratore abbia goduto in modo normale nel corso e a causa del rapporto di lavoro, non avendo rilievo l’elemento temporale di percezione del compenso stesso, qualora questo sia da considerare come corrispettivo della prestazione normale perché inerente al valore professionale delle mansioni espletate.
Al di là dell’equivoco utilizzo del termine “indennità” che non maschera il reale valore di corrispettivo non occasionale, si ritiene che non possa essere considerata legittima una previsione secondo cui l’indennità del patto di prolungamento del preavviso non rientri tra gli emolumenti da considerare ai fini del calcolo del Trattamento di Fine Rapporto.
5. Conclusioni
In conclusione, dall’analisi letterale delle norme richiamate e dall’orientamento giurisprudenziale di legittimità, nonché dalle stesse opinioni della dottrina, risulta sicuramente chiara la facoltà di apporre clausole derogatorie della disciplina contrattuale, comunemente note come “patti di prolungamento del preavviso”, nell’ambito dei rapporti di lavoro intrattenuti con lavoratori appartenenti alla categoria impiegatizia o con dirigenti il cui CCNL preveda espressamente detta possibilità.
Le stesse clausole possono essere ritenute legittime anche in ambito di rapporti intrattenuti con lavoratori appartenenti alla categoria operaia o per dirigenti i cui CCNL non prevedono la facoltà delle parti di derogare alla durata prevista per il preavviso, purchè il lavoratore riceva, quale corrispettivo di un temine maggiore, un trattamento migliorativo rispetto a quello previsto dal CCNL (Cass. n. 19080 del 18.07.2018, di cui si veda il commento: Cassazione: termine di preavviso più lungo valido solo a fronte di un riconoscimento economico a favore del lavoratore).
Avv. Alessandro De Giobbi - Fieldfisher