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Dimissioni per fatti concludenti. Incertezze superabili?


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Assenza prolungata dal lavoro come dimissioni - Fin dal 2015, l’art. 26 del decreto legislativo n. 151/2015 disciplina la procedura telematica  da seguire in caso di dimissioni e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro (disciplina che ha sostituito quella precedentemente approntata dalla cosiddetta legge Fornero: l. n.92/2012).

Solo  dal 2024, lo stesso art. 26, grazie al suo comma 7-bis introdotto  dalla l. n.203/2024, disciplina una situazione diversa: il lavoratore, vincolato a rendere la prestazione lavorativa  in esecuzione del contratto di lavoro sottoscritto, non si presenta in azienda e, inoltre, si guarda bene dal formalizzare (per via telematica) le dimissioni.

 Situazione che l’art.26 disciplina nei seguenti termini: se l’assenza non giustificata si protrae oltre il periodo indicato dal contratto collettivo nazionale di lavoro o, in mancanza di una diversa indicazione del contratto, supera i 15 giorni, il datore di lavoro può darne comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato, così innescando l’effetto della estinzione del rapporto  “per volontà del lavoratore”.

Diversi orientamenti anche in giurisprudenza - Una volta entrata in vigore la predetta normativa, il primo e più rilevante problema che si è posto ha riguardato il rapporto fra la stessa e la normativa - legislativa e, al tempo stesso, di contrattazione collettiva - in tema di “codice disciplinare”.

In assenza di cause di giustificazione dell’assenza, il mancato inadempimento dell’obbligazione lavorativa, ossia della principale obbligazione gravante sul lavoratore, rappresenta tipico illecito disciplinare, cosicché un po' tutti i contratti collettivi annoverano espressamente le assenze ingiustificate fra gli illeciti disciplinari capaci di giustificare anche il licenziamento se protratte per un certo numero di giornate (ad esempio, più di quattro giornate consecutive di assenza secondo il ccnl industria metalmeccanica).

Da qui la domanda: la disciplina di cui all’art. 7-bis e  quella dei contratti collettivi in materia disciplinare operano su terreni diversi e distinti oppure si integrano potendosi  combinare?

Seconda una tesi emersa anche in giurisprudenza (Trib. Milano, n.4935/2025), il citato comma 7-bis, per il fatto che rinvia al contratto collettivo nazionale di lavoro, farebbe propria la soglia di tolleranza individuata dal contratto stesso in termini di numero di giornate di assenza sufficienti a  giustificare il licenziamento.

In tale prospettiva,  la durata dell’assenza assunta dal contratto collettivo come presupposto del licenziamento verrebbe a rilevare, sempre in virtù del comma 7-bis, come comportamento indicativo della  volontà del lavoratore di recedere (nell’esempio di disciplina contrattuale richiamata sopra,  già cinque giornate di assenza rileverebbero  come dimissioni tacite).

Con buona pace dell’autonomia collettiva, la manipolazione della disciplina contrattuale/collettiva risulterebbe così evidente: quanto pensato per il licenziamento verrebbe a rilevare per le dimissioni.

Un orientamento diverso è quello che afferma l’incomunicabilità delle due discipline: quella disciplinare che considera l’assenza ingiustificata come giustificato motivo soggettivo o giusta causa del recesso del datore di lavoro e l’altra - quella di cui al comma 7-bis  , riguardante il recesso tacito del lavoratore.

Espressiva di questo secondo orientamento è la decisione del Tribunale di Bergamo n.546/2025, nella quale fra l’altro si legge:

“e)il CCNL applicato al rapporto di lavoro in esame (CCNL Gomma Plastica Industria) non prevede una disciplina specifica in tema di “dimissioni volontarie per assenza ingiustificata”;

f) non è applicabile – contrariamente a quanto ritenuto dalla datrice di lavoro - il termine previsto dal CCNL  al fine di legittimare il datore di lavoro alla sanzione del licenziamento per assenza ingiustificata;

g) la previsione del CCNL riguarda infatti un istituto del tutto diverso, ii licenziamento disciplinare; il termine ivi previsto ha la funzione di individuare la misura della gravità dell’inadempimento che le parti collettive ritengono sufficiente a rendere intollerabile la prosecuzione del rapporto lavorativo, con conseguente possibilità per il datore di lavoro di procedere alla sanzione disciplinare, con le garanzie procedurali ex l.  300/1970; nel caso disciplinato dall’art. 26 c. 7 bis d.lgs. 151/2015, invece, il termine …  ha la funzione di individuare la misura in cui il comportamento del lavoratore, che continuativamente non si presenti a rendere la prestazione per la giornata lavorativa, possa generare la presunzione di una volontà del lavoratore di sciogliere il rapporto …”.

Un tentativo di sistemazione - A fronte dei predetti orientamenti, può essere utile qualche considerazione di carattere generale.

Il procedimento disciplinare e il contraddittorio fra le parti che ne qualifica il contenuto, effettuati prima dell’irrogazione del licenziamento, vengono visti come espressione di principi di civiltà giuridica.

Risulta, pertanto, difficile pensare che il comma 7-bis ne legittimi  una compromissione fino al punto che un periodo di assenza, considerato dal contratto collettivo sanzionabile disciplinarmente ma solo dopo che il lavoratore ha preventivamente  esercitato il suo diritto di difesa,  possa condurre “automaticamente” all’estinzione del rapporto di lavoro con l’etichetta delle dimissioni.   

Si potrebbe osservare: a garanzia del lavoratore può operare la “… verifica di veridicità   della comunicazione …”  del datore di lavoro affidata dal comma 7-bis all’Ispettorato del lavoro, ma certamente tale verifica non costituisce un adeguato equivalente del procedimento disciplinare.

Il comma 7-bis allude, inoltre, alla dimostrazione che il lavoro può dare della forza maggiore o del fatto imputabile al datore di lavoro che gli ha impedito di comunicare i motivi che giustificano l’assenza.

Previsione, a sua volta, niente affatto chiara: l’impedimento incontrato dal lavoratore, se dimostrato, eviterebbe  l’estinzione del rapporto di lavoro o interverrebbe a rapporto di lavoro già estinto?

Dimostrazione dell’impedimento: ma secondo quale procedura? Nemmeno questo è chiaro.

Nell’orientamento favorevole alla commistione fra le due discipline, sono insite, a ben vedere, una deroga all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori  e anche al ruolo della contrattazione che collettiva che, peraltro, nella materia disciplinare fruisce di un riconoscimento di competenza  formalizzato proprio dall’art. 7.

Attribuire al comma 7-bis una portata così dirompente appare problematico anche perché alla sua base c’è stata solo l’intenzione di evitare comportamenti  in cui si voleva la cessazione del rapporto ma si cercava di conseguire l’effetto tramite il licenziamento e non le dimissioni.

Detto questo,  il comma 7-bis non è costruito in un modo che consenta di pervenire ad una sistemazione pacifica in tutti i suoi passaggi.

Il termine di assenza superiore a 15 giorni è evocato in assenza di un’indicazione diversa da parte del contratto collettivo. 

Ebbene, si è sostenuto che sia senza precisi limiti la delega data alla contrattazione collettiva circa il periodo di assenza che fa considerare dimissionario il lavoratore.

La sentenza del Tribunale di Bergamo ha, invece, ritenuto che l’operatività  della presunzione di dimissioni “ …, peraltro non assistita dalle penetranti garanzie ex l. 300/1970, richieda un termine ben più lungo di quello generalmente previsto dai CCNL al fini del licenziamento disciplinare, che sia idonea rendere inequivocabile il disinteresse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro … ”.

La circolare n.6/2025 del Ministero del lavoro, a sua volta, ha sostenuto che “ nel caso in cui il CCNL applicato preveda …  un termine diverso da quello contemplato dalla norma in esame [almeno i 16  giorni di assenza considerati direttamente dal comma 7-bis], lo stesso troverà senz’altro applicazione ove sia superiore a quello legale, in ossequio al già richiamato principio generale per cui l’autonomia contrattuale può derogare solo in melius le disposizioni di legge. Se, viceversa, sia previsto un termine inferiore, per il medesimo principio, dovrà farsi riferimento al termine legale”.

Opinioni, dunque, non coincidenti, a fronte di una formulazione letterale del comma 7-bis che, dal punto di vista della formulazione letterale, si presenta come molto aperta verso l’intervento della contrattazione collettiva.  

Due considerazioni appaiono utili per tentare di orientarsi al meglio.

Una volta accettata l’autonomia delle due normative, è ragionevole ritenere che anche i relativi termini restino distinti: quello rilevante ai fini del licenziamento disciplinare fissato dal contratto collettivo; quello che può essere fissato dal contratto collettivo ai fini delle dimissioni “tacite”.

Se quest’ultimo fosse ridotto e, per così dire, concorrenziale rispetto a quello definito nell’ambito disciplinare, potrebbero innescarsi tensioni, se non conflitti giudiziari.

Potrebbe, infatti, essere eccepito che si vanificherebbero le garanzie che accompagnano il recesso datoriale conseguendo comunque, sia pure per altra via, lo stesso effetto tipico del licenziamento: l’estinzione del rapporto di lavoro.   

In ogni caso, il riferimento ad un periodo di assenza inferiore a quello indicato direttamente dal comma 7-bis dovrebbe essere individuato, sempre stregua di tale comma, da parte del ccnl, ossia da parte della stessa fonte che disciplina l’assenza come illecito disciplinare meritevole del licenziamento.

E’ facile, pertanto, prevedere difficoltà a negoziare sulle dimensioni tacite, tanto più se con un termine inferiore a quello   fissato direttamente a livello legislativo.

Domanda: non è opportuno, per le ragioni appena dette, tralasciare la possibilità di intervento del contratto collettivo prefigurata dal comma 7-bis, lasciando distinte e distanti le due fattispecie?     

A cura di Angelo Pandolfo, Partner Labour & Consultancy di WST LAW & TAX