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DL PNRR-bis : Novità in materia di appalto e distacco


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1.Il trattamento economico dei dipendenti dall’appaltatore e dal subappaltatore

Il decreto legge n. 19 del 2 marzo 2024, in vigore da tale data, contiene diverse innovazioni in tema, in senso lato, di esternalizzazioni.

Le prime, su tale tema, riguardano l’appalto.

L’art. 29 del d.lgs. n. 276/2003 disciplina, per gli aspetti lavoristici e previdenziali, il contratto di appalto.

Il comma 1 dell’art. 29 fornisce i criteri da applicare per distinguere l’appalto dalla somministrazione di lavoro (l’organizzazione dei mezzi necessari  da parte dell’appaltatore, che può anche consistere nell’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto in considerazione, come viene detto, del carattere dematerializzato dell’organizzazione necessaria per l’esecuzione dell’appalto; l’assunzione del rischio di impresa da parte dell’appaltatore).     

Ora, il nuovo decreto legge arricchisce l’art. 29 di un comma 1-bis, completando la normativa previgente con lo scopo di tutelare i lavoratori dipendenti dall’appaltatore e dal subappaltatore.

 A questi lavoratori, come viene espressamente previsto, deve essere “…  corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto”.     

I profili di questa nuova normativa, che ad una prima lettura appaiono da   approfondire, sono diversi e problematici.  

Che nel definirla ci si sia ispirati in qualche modo a quello che il Codice  dei contratti pubblici prevede per gli appalti pubblici, appare evidente.

La differenza  fra le due normative è, tuttavia, sostanziale.

Quella del Codice dei contratti fa riferimento esplicito alla applicazione del contratto collettivo stipulato dalle associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale.

Questa del decreto legge fa riferimento solo al contratto collettivo maggiormente applicato e al “trattamento economico complessivo” previsto da tale contratto e,  dunque, non a tutto il contratto.

Ebbene, i profili problematici iniziano già dal riferimento al “trattamento economico complessivo”.  Non è, infatti, facile individuare all’interno di un qualsiasi contratto i confini delle erogazioni riconducibili a tale trattamento.

Inoltre, il decreto legge lascia cadere il riferimento alle associazioni comparativamente più rappresentative come ai soggetti che stipulano il contratto.

Il decreto impiega un criterio non consueto per individuare il contratto da cui trarre il “trattamento economico complessivo” da applicare ai lavoratori impegnati nell’esecuzione dell’appalto.

Vien fatto riferimento al contratto collettivo maggiormente applicato, ma chi è abilitato ad individuare il contratto  collettivo applicato più degli altri, peraltro non solo nel “settore” ma anche nella “zona” ? Ambito, quest’ultimo,   non sperimentato più di tanto nel delimitare l’area di applicazione dei contratti collettivi.

Ci si dovrà avvalere delle informazioni raccolte dall’Inps tramite la “denuncia obbligatoria che il datore di lavoro, che svolge la funzione di sostituto d'imposta, invia mensilmente all'INPS” (flusso Uniemens)?

In effetti, in tale denuncia compare il  contratto collettivo applicato, ma comunque resterebbe da chiarire se il contratto collettivo  è menzionato solo ai fini della individuazione della base imponibile ai fini contributivi o per indicare il contratto collettivo applicato a tutti gli effetti.

Poi, se in una “zona” è più applicato un contratto collettivo e in un’altra “zona” un altro contratto collettivo, lavoratori impegnati con le stesse mansioni in appalti analoghi avranno diritto a trattamenti economici diversi? 

Come risulta dalla formulazione del decreto legge, il “trattamento economico complessivo”, tratto dal contratto collettivo più applicato, viene previsto come un trattamento minimo, che non dà  affatto luogo ad un  tetto massimo non modificabile in melius a favore dei lavoratori.

Pertanto, un datore di lavoro - sia esso un appaltatore o subappaltatore -  che in ipotesi applica un contratto collettivo  (diverso da quello maggiormente applicato) può continuare ad applicarlo integralmente se più favorevole per la parte economica ai lavoratori.    

Al contrario, se la parte economica del medesimo contratto fosse meno favorevole per i lavoratori, allora il datore di lavoro (appaltatore o subappaltatore) dovrebbe applicare il trattamento economico di cui al contratto maggiormente applicato e per il resto quanto previsto dall’altro  contratto.

La complicazione emergente è, dunque, evidente.

Anche per questo, è da ipotizzare che la nuova normativa, all’atto pratico, potrebbe determinare una ulteriore moltiplicazione dei contratti collettivi, laddove gli appaltatori e i subappaltatori decidano di applicare a tutti gli effetti il contratto maggiormente applicato (che così risulterà ancora più applicato) e ciò quanto più lo stesso comporti un costo retributivo del lavoro meno oneroso.

Non si può escludere il rischio che il decreto possa far avvertire la possibilità  di  contratti maggiormente applicati nell’ambito di categorie appositamente ritagliate.   

Tutto questo, peraltro, in quadro niente affatto semplice.

Ancora oggi, per previsione dell’art. del d.l. 338/1989 (l. conv. 389/1989),   “la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”.

Di riflesso, se il contratto maggiormente applicato prevede un retribuzione imponibile inferiore a quella di cui al contratto stipulato dalle associazioni maggiormente rappresentative, comunque il datore dovrà calcolare e  versare la contribuzione sulla base dell’imponibile ricavabile dal secondo contratto.

Inoltre, lo stesso nuovo decreto modifica l’art 1, comma 1175, della l. n. 296/2006, ma lo lascia fermo laddove afferma che “…il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” è condizione  richiesta per la fruizione dei “benefici normativi e contributivi”.

Pertanto, se il contratto collettivo maggiormente applicato prevede una retribuzione inferiore a quella di cui al contratto sottoscritto dai sindacati comparativamente più rappresentativi, il datore di lavoro sarebbe destinato a  perdere i predetti benefici qualora applicasse il trattamento economico previsto dal primo contratto. 

Dunque, spinte e controspinte ad applicare ora l’uno, ora l’altro contratto collettivo, cosicché c’è da augurarsi che venga considerata  con grande disponibilità l’esigenza di rivedere sostanzialmente, in sede di conversione in legge, la normativa prevista dal decreto.

Notizie di stampa danno conto di una disponibilità del Governo e della maggioranza parlamentare a calibrare meglio la nuova normativa, anche per quanto riguarda la considerazione dei contratti maggiormente applicati.  

1.1. Sanzioni penali per l’appalto privo delle condizioni richieste dall’art. 29 

Come si è accennato, il già citato art. 29 del d.lgs. n. 276/2003 tratta dell’appalto e, per  quanto ora interessa, puntualizza quanto si ricava dalla disciplina del contratto di appalto  data dal codice civile.

In pratica, a stregua dell’art. 29, comma 1, per avere un contratto di appalto devono ricorrere le condizioni di cui si è già detto prima: organizzazione dei mezzi necessari per l’esecuzione dell’appalto da parte dell’appaltatore; rischio di impresa gravante sull’appaltatore.

In mancanza di tali condizioni, non si ha un appalto e si ricade nella somministrazione di lavoro illegittima in quanto si tratta di una attività riservata ad agenzie di lavoro a tanto autorizzate.    

Inizialmente, quando l’art. 29 fu varato nel 2003, l’esecuzione di un contratto qualificato dalle parti come un contratto di appalto, ma in realtà privo delle  predette condizioni, non era considerata come una fattispecie di rilevanza penale.

Successivamente, il d.lgs. 251/2004 configurò la medesima fattispecie come un illecito penale, sanzionato con la pena dell’ammenda di euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione[1].

Nel 2016, per previsione dell’art.1, comma 1, del d.lgs. 8/2016, la medesima fattispecie veniva depenalizzata, prevedendosi una sanzione di carattere amministrativo.

Ebbene, è su quest’ultimo assetto che il decreto legge interviene, riprendendo in sostanza la formulazione che era stata superata.

Dalla data di entrata in vigore del decreto, “nei casi di appalto privo dei requisiti [le condizioni di cui si è detto prima] di cui all’articolo 29, comma 1, … l’utilizzatore e il somministratore [ossia, i soggetti che erroneamente si sono auto-qualificati come appaltante e appaltatore] sono puniti con la pena dell’arresto fino ad un mese o dell’ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione”[2]


[1] La pena era dell’arresto fino a 18 mesi e l’ammenda aumentata fino ad un sestuplo in caso di sfruttamento di minori.

[2] E’ ripreso negli stessi termini anche l’aggravamento delle pene nel caso in cui allo pseudo appalto si sia accompagnato lo “sfruttamento di minori”. 


a cura di Angelo Pandolfo Partner WST Legal & Tax