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La decorrenza della prescrizione secondo i principi espressi dalla Cassazione, quali conseguenze applicative?


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La sentenza n. 26246/2022, pubblicata dalla Corte di Cassazione il 6 settembre scorso, ha sicuramente effetti e conseguenze dirompenti (sul punto si veda: Cassazione: la prescrizione dei crediti decorre dalla cessazione del rapporto).
In particolare, la stessa ha espresso un importante principio in materia di prescrizione dei crediti da lavoro e, nello specifico, in merito alla decorrenza della stessa.
Da sempre discussa, invero, è stata la questione dell’individuazione del dies a quo della prescrizione, da collocare alternativamente al momento della maturazione del diritto (e, quindi, in costanza di rapporto) ovvero alla data di cessazione del rapporto.

Sul punto era intervenuta, in prima battuta, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 63/1966, nella quale aveva affermato che la prescrizione dei crediti da lavoro dovesse decorrere solo dalla data di cessazione del rapporto. Ciò, in ragione della particolare situazione psicologica del dipendente (il c.d. metus), che induceva lo stesso a non esercitare il proprio diritto per timore di essere, poi, licenziato.

All’esito dell’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori nel 1970 e dell’introduzione del celeberrimo art. 18, che aveva previsto l’applicazione generalizzata della tutela reintegratoria in caso di illegittimità del licenziamento, la Corte Costituzionale, con sentenza 174/1972, aveva modificato il proprio orientamento.
In particolare, la Consulta aveva sostenuto che, a fronte della stabilità reale del rapporto garantita dalla tutela reintegratoria, non era più giustificato un differimento della decorrenza della prescrizione al termine del rapporto.
Ciò ovviamente solo con riferimento ai lavoratori cui si applicava l’art. 18 della L. 300/1970, rimanendo invece immutata la posizione del personale delle aziende con requisito dimensionale inferiore ai 15 dipendenti.

Tale impostazione è stata confermata per decenni dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità.

In questo quadro ben delineato, si inseriscono le due riforme che hanno interessato il lavoro negli ultimi dieci anni.
In primis, infatti, la L. 92/2012 (c.d. Legge Fornero) ha modificato l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori - prevedendo la reintegra quale forma di tutela residuale - e, in seconda battuta, il Jobs Act con il D.Lgs. 23/2015, superando l’impianto originario dell’art. 18, ha riconosciuto alla tutela reintegratoria carattere di eccezionalità.

Alcune sentenze di merito hanno, quindi, interpretato l’introduzione delle nuove riforme come la fine della stabilità reale.
Conseguentemente, hanno affermato la necessità di ritornare all’impianto originariamente delineato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 63/1966.

La Suprema Corte chiamata ad esprimersi sul punto – pur dando atto delle recenti pronunce di legittimità e costituzionali che hanno riesteso la platea dei beneficiari della tutela reintegratoria (sul punto si veda: Una nuova riforma del lavoro ad opera delle giurisdizioni superiori?) – ha ritenuto di aderire a quest’ultimo orientamento, enucleando il seguente principio di diritto: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

Ciò comporta, ovviamente, un netto stravolgimento da un punto di vista applicativo.
Secondo i principi espressi dalla sentenza in commento, la Legge Fornero rappresenta, infatti, un vero e proprio atto interruttivo della prescrizione ed è, quindi, necessario tornare indietro di 5 anni rispetto all’entrata in vigore della stessa, avvenuta il 28.06.2012.

Tradotto da un punto di vista pratico, ciò significa che:

  • per i LAVORATORI SOGGETTI ALLA DISCIPLINA DELL’ART. 18 DELLA L. 300/1970

CREDITI ANTECEDENTI AL 28.06.2007
PRESCRITTI: stante la decorrenza della prescrizione in corso di rapporto, a meno che nel termine quinquennale non sia intervenuto un atto interruttivo della prescrizione

CREDITI SUCCESSIVI AL 28.06.2007
NON PRESCRITTI: a condizione che il rapporto di lavoro sia ancora in essere ovvero sia cessato da meno di 5 anni
PRESCRITTI: nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia cessato da più di 5 anni, senza che sia intervenuto alcun atto interruttivo della prescrizione 

 

  • per i LAVORATORI NON SOGGETTI ALLA DISCIPLINA DELL’ART. 18 DELLA L. 300/1970

CREDITI ANTECEDENTI AL 28.06.2007
NON PRESCRITTI: a condizione che il rapporto di lavoro sia ancora in essere ovvero sia cessato da meno di 5 anni
PRESCRITTI: nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia cessato da più di 5 anni, senza che sia intervenuto alcun atto interruttivo della prescrizione

CREDITI SUCCESSIVI AL 28.06.2007
NON PRESCRITTI: a condizione che il rapporto di lavoro sia ancora in essere ovvero sia cessato da meno di 5 anni
PRESCRITTI: nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia cessato da più di 5 anni, senza che sia intervenuto alcun atto interruttivo della prescrizione

Secondo i principi espressi dalla sentenza 26246/2022, il dies a quo della prescrizione dei crediti da lavoro è da ritenere decorrente dalla cessazione del rapporto anche per tutti i dipendenti cui non si applica l’art. 18 della L. 300/1970, perché sono stati assunti successivamente al 07.03.2015, sotto la vigenza del D.Lgs. 23/2015.

La nuova impostazione, oltre alle difficoltà applicative sopra delineate, sarà sicuramente foriera anche di potenziali contenziosi di difficile risoluzione, visto il notevole ampliamento del perimetro temporale delle rivendicazioni.

Avv. Matteo Farnetani - Fieldfisher