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Corte Costituzionale: quali indennità sono dovute al dipendente pubblico per il periodo di lavoro all’estero?


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Con la sentenza n. 145 del 13.06.2022, la Corte Costituzionale dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, nella parte in cui dispone, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell’Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all’estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno, non include l’indennità di amministrazione”.

Il caso affrontato

Alcuni dipendenti del Ministero degli affari esteri ricorrono giudizialmente al fine di ottenere la corresponsione della indennità di amministrazione per i periodi in cui hanno prestato servizio fuori dall’Italia.
La Corte di Cassazione, investita del caso, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 1-bis, del DL 138/2011, in particolare nella parte in cui prevede che l’art. 170 del D.P.R. 18/1967 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri) “si interpreta nel senso che: a) il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell’Amministrazione degli affari esteri nel periodo di servizio all’estero, anche con riferimento a “stipendio” e “assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno”, non include né l’indennità di amministrazione né l’indennità integrativa speciale; b) durante il periodo di servizio all’estero al suddetto personale possono essere attribuite soltanto le indennità previste dal decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18”.

La sentenza

La Corte Costituzionale rileva, preliminarmente, che l’indennità di amministrazione - sorta come trattamento accessorio della retribuzione, collegata alla presenza in servizio e commisurata ai compensi mensili percepiti - è stata, poi, riconosciuta quale voce retributiva, corrisposta a tutti i dipendenti ministeriali in misura fissa e per dodici mensilità.

Venendo alla censurata disposizione, i Giudici ritengono che qualunque legge possa avere efficacia retroattiva solo in presenza di una comprovabile esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che devono costituire motivi imperativi di interesse generale.
I soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano, infatti, a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso.

Diversamente, continua la Consulta, le leggi retroattive o di interpretazione autentica che intervengono in pendenza di giudizi di cui lo Stato è parte, in modo tale da influenzarne l’esito, comportano un’ingerenza nella garanzia del diritto a un processo equo e violano un principio dello stato di diritto garantito dall’art. 6 della CEDU.

Su tali presupposti, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1-bis, del DL 138/2011, convertito, con modificazioni, nella L. 148/2011.

A cura di Fieldfisher