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Clausole di clawback e indebito retributivo: chi sbaglia paga?


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Indebito retributivo. Qual'è il regime giuridico dei pagamenti non dovuti ai dipendenti in quanto non riconducibili a un  preesistente obbligo legale o contrattuale, e quindi corrisposti “per errore” ?

Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione offre lo spunto per alcune riflessioni in merito a un problema, quello dell'indebito retributivo , che non di rado si pone nella gestione del personale. Le clausole di " clawback " possono risolvere il problema ? 

1. Nel caso affrontato dalla sentenza n. 22387/2018 della S.C., un’azienda, obbligata contrattualmente a corrispondere a un dipendente distaccato dalla sede di Padova a quella di Vicenza, una particolare indennità - denominata “contributo mensile per spese di viaggio” - , aveva continuato a “imputare in busta paga” l’emolumento anche dopo che il distacco, nel 2004, era cessato ed erano venute meno le esigenze di viaggio, fino alla cessazione del rapporto avvenuta nel marzo 2008. Poiché l’azienda non aveva incluso l’emolumento nella base di calcolo del TFR e della pensione integrativa aziendale, il lavoratore aveva agito in giudizio domandando si tenesse conto del contributo per spese di viaggio corrisposto dal 2004 al 2008 ai fini del calcolo del t.f.r. e della determinazione della pensione integrativa aziendale. La Corte d’Appello di Torino, riformando con sentenza n. 1164/2012 la contraria pronuncia del Tribunale della stessa sede, aveva respinto le domande del lavoratore, accogliendo al contempo la domanda riconvenzionale con cui l’azienda aveva chiesto la restituzione dei pagamenti eseguiti, in quanto indebiti.

La S.C. è stata di diverso avviso, giudicando sussistente il diritto del lavoratore al computo dell’emolumento nel TFR e nella pensione integrativa, e insussistente la pretesa restitutoria dell’azienda. La S.C. ha preso le mosse dal rilievo che “spetti al solvens che agisca per ripetizione di indebito dimostrare l’assenza di causa debendi (Cass. 10 novembre 2010 n. 22872; Cass. 13 novembre 2003, n. 17146; Cass. 23 agosto 2000, n. 11029), il che è ineludibile conseguenza della evidente presunzione di giuridicità, in sé, del pagamento, quale effetto del fatto stesso che esso sia avvenuto. Sicché - osserva la Corte - il fatto “che la causa originaria del pagamento, cui nelle buste paga ha continuato ad imputarsi l’erogazione dell’indennità in questione, … era venuta meno dal 1.9.2004” – osserva la Corte - , “non può però significare che, per i pagamenti intervenuti successivamente, mese per mese, fino alla cessazione del rapporto in data 31.3.2008, spetti all’accipiens dimostrare una diversa causa debendi. Se infatti è vero che quel titolo originario era venuto meno, è altrettanto vero che l’erogazione è proseguita costantemente per anni”. Tale conclusione è coerente con la “necessità che la regula iuris si adegui rispetto agli affidamenti che … necessariamente si creano all’interno del rapporto stesso”, e con il “parallelo e più generale principio, secondo cui la corresponsione continuativa di un assegno al dipendente è generalmente sufficiente a farlo considerare, salvo prova contraria, come elemento della retribuzione” (Cass. 9 maggio 2003, n. 7154). Ad avviso della Corte di Cassazione, insomma, va presunta la natura retributiva di un reiterato e costante pagamento che si verifichi nell’ambito di un rapporto di lavoro, spettando al solvens dimostrare l’insussistenza di essa. Quindi, non potendo la dimostrazione che fare leva su elementi contrari rispetto all’esistenza di quel titolo, dovrebbe provarsi l’effettivo e concreto verificarsi di un errore oppure l’insussistenza o l’inidoneità giuridica dei fatti che la stessa controparte in concreto abbia addotto quale fondamento della persistente attribuzione retributiva”. La decisione sopra riportata riguarda, invero, un caso peculiare, caratterizzato dalla duratura corresponsione di un emolumento indebito; e lo tratta, a ben vedere, non tanto sotto il profilo sostanziale (se e quando l’indebito deve essere restituito) quanto sotto il profilo dell’onere della prova (spetta al datore di lavoro dimostrare la natura non retributiva del pagamento che si considera indebito, o spetta al lavoratore dimostrare la sussistenza di una causa retributiva diversa da quella originaria ?). Ma essa, proprio a cagione della sua ellitticità, costituisce un’ottima occasione per inquadrare i problemi giuridici che insorgono a fronte della corresponsione di emolumenti (asseritamente) indebiti.

3. E’ allora opportuno ricordare che sulla questione della ripetibilità dei pagamenti effettuati a causa di un “errore” aziendale, si registrano in giurisprudenza due contrapposti orientamenti:

(a) il primo tendente ad applicare nella fattispecie la disciplina civilistica dell’”errore-vizio” della volontà, ai sensi dell’art. 1431 cod. civ.;

(b) il secondo, invece, tendente senz’altro e direttamente ad applicare la disciplina della ripetizione dell’indebito, di cui all’art. 2033 cod. civ.. In base alla disciplina dell’errore negoziale, è invalido l’atto negoziale concluso per effetto di un errore che ricada - tra l’altro - sull’oggetto del contratto (nel caso nostro, la retribuzione), e che sia riconoscibile dalla controparte. In forza dell’art. 2033 cod. civ., invece, il datore di lavoro che ha eseguito un pagamento non dovuto può sempre ripetere quanto corrisposto in eccesso. In entrambi i casi, la restituzione delle somme non dovute opera anche oltre il limite dalla pignorabilità, sequestrabilità e compensabilità del credito retributivo nella misura di un quinto, stabilito dall’art. 454 c.p.c..

(a) Il primo degli orientamenti giurisprudenziali citati afferma essere onere del datore di lavoro dimostrare che “… la corresponsione della maggiore retribuzione è frutto di un errore essenziale e riconoscibile dal dipendente stesso ex art. 1431 cod. civ.”. Tale orientamento trova fondamento nella presunta natura negoziale del pagamento, in quanto “ … il pagamento al lavoratore di una retribuzione superiore ai minimi del contratto collettivo” (caso al quale può ricondursi in generale la corresponsione di un emolumento aggiuntivo rispetto ai predetti minimi, anche dopo il venir meno della sua originaria causa giustificativa), “indica la volontà di derogare in meglio (art. 2077, 2° comma c.c.) tacitamente manifestata dal datore ed accettata dal lavoratore, mentre spetta al primo di dedurre e di provare l’invalidità di questa volontà contrattuale” (Cass. n. 818/2007). In altre e più semplici parole, l’orientamento che si sta illustrando si basa su una sorta di finzione o di presunzione: si finge o si presume, cioè, che il datore di lavoro abbia realmente “voluto” concedere un trattamento migliorativo (rispetto a quello già pattuito come emolumento premiale), ma che, nel contempo, tale “volontà” sia viziata da un errore, ai sensi dell’art. 1427 e ss. del codice civile, senza il quale detta volontà non si sarebbe formata. Rimanendo in tale scenario interpretativo, al fine di ripetere quanto pagato, occorre che l’errore commesso dalla Società sia riconoscibile da parte dell’accipiens: riconoscibilità che sussiste quando questi avrebbe potuto o dovuto riconoscere l’errore, secondo uno standard riferibile ad una persona di “normale diligenza” e “in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto e alla qualità dei contraenti” (art. 1431 cod. civ.). Per esempio: è riconoscibile l’errore da parte dello specialista o manager di una funzione di controllo di gestione, l’errore che ha determinato il riconoscimento di un premio basato su particolari indicatori economici aziendali; non lo è, se l’accipiens non è un tecnico della materia, o se i dati di bilancio sono a loro volta errati).

(b) Alla stregua di un diverso orientamento giurisprudenziale, più risalente nel tempo e tipico del pubblico impiego, il datore di lavoro potrebbe invece sempre ripetere quanto corrisposto in eccesso rispetto a quanto dovuto: si configurerebbe nella fattispecie un “indebito oggettivo” ex art. 2033 cod. civ., che richiede soltanto la prova dell’indebito pagamento, e quindi dell’inesistenza di una legittima causa del pagamento, rimanendo irrilevante la riconoscibilità dell’errore commesso dal datore di lavoro, da parte del lavoratore. In pratica, questo secondo orientamento, invece di “fingere” o “presumere” che il datore di lavoro abbia “voluto” riconoscere un maggiore beneficio, ma a causa di una volontà viziata da un errore, nega semplicemente e in radice che il datore abbia realmente voluto pagare di più, e parte dal diverso presupposto che il pagamento effettuato era privo di una ragione giustificativa (“causa solvendi”).

4. I principi sopra illustrati possono trovare applicazione anche con riferimento ad alcune clausole contrattuali, tipiche del mondo anglosassone, ma che si stanno diffondendo anche nel nostro Paese, miranti a neutralizzare gli emolumenti premiali che si rivelino basati su assunti economico-gestionali errate. Esemplare, in tal senso, è la clausola di “claw-back”.

Si tratta di una clausola contrattuale che prevede la possibilità di chiedere la restituzione, in tutto o in parte, dei compensi erogati sulla base di risultati che si siano rivelati non effettivi o duraturi per effetto di condotte dolose o colpose di altri dipendenti della Società, o dello stesso soggetto percipiente. Con questo strumento l’azienda può quindi rientrare in possesso di somme già erogate, a fronte di valutazioni negative – ex post – delle performances aziendali o individuali, coprendo anche i casi di comportamenti fraudolenti o colposi del personale. Essendo un istituto di origine pattizia, e non trovando alcuna specifica disciplina legale e/o contrattuale al di fuori del settore creditizio, la clausola di “clawback”, che può avere rilevanti impatti sulla retribuzione del personale interessato, dev’essere attentamente considerata sotto il profilo giuslavoristico.

(a) Va intanto riconosciuta la sua compatibilità con il principio di irriducibilità della retribuzione, comunemente desunto dall’art. 2103 cod. civ., perché nel caso della clausola di clawback a ben vedere, non viene in discussione la legittimità di pattuizioni peggiorative della retribuzione già concordata, ma piuttosto l’individuazione dei presupposti giustificativi del diritto della Società a rientrare nella disponibilità di importi, conferiti a titolo di parti variabili premiali rispetto alla normale retribuzione, pagati “indebitamente”, ovvero in maniera gravemente disallineata rispetto agli effettivi andamenti aziendali verificati ex post.

(b) Per attribuire alla clausola di clawback un significato che sia, nel contempo, utile e prudente dal punto di vista della tenuta giudiziaria, sembra preferibile intenderla alla stregua di una applicazione particolarmente rigorosa del principio dell’indebito oggettivo: una interpretazione, cioè, che fa carico al datore di lavoro, che intenda chiedere la restituzione dell’indebito, di dimostrare che il pagamento effettuato si fonda su un errore “manifesto”. Nello specifico, e facendo applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede tra le parti contraenti, la “manifesta erroneità” dei “dati”, su cui si fonda il pagamento, potrebbe intendersi sussistente laddove ricorrano almeno i seguenti elementi:

  • significatività apprezzabile dell’errore, ricorrente allorché quanto concretamente erogato sia, appunto, significativamente apprezzabile dal punto di vista quantitativo rispetto a quanto sarebbe spettato se non ci fosse stato l’”errore”;
  • oggettività dell’errore, ricorrente allorché esso possa ricostruirsi sulla base di elementi obiettivi e certi, e non si basi invece su valutazioni di natura discrezionale, e/o su valutazione qualitative dei dati, o ancora sulla interpretazione di norme legali o di disposizioni contrattuali.

Una volta accertati tali elementi costitutivi dell’“errore manifesto”, il datore di lavoro ben potrà pretendere, in base alla clausola di “clawback”, la ripetizione dell’indebito oggettivo ai sensi, proprio, dell’art. 2033 cod. civ., senza dover dimostrare che l’errore fosse riconoscibile da parte del dipendente.

Avv. Armando Tursi, Partner Fieldfisher Milano, 27 settembre 2018