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La lista clienti: un patrimonio da tutelare


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Il portafoglio o lista clienti, come gli aziendalisti sottolineano, costituisce un importante asset per ciascuna azienda, non esaurendosi in una mera elencazione di nominativi.

Ad esso, infatti, si accompagnano ulteriori informazioni, cosicché il patrimonio di clientela rappresenta un elemento strategico anche al fine del monitoraggio dell’andamento aziendale e del politiche commerciali e di marketing.

Asset - la lista clienti - ricompreso nel concetto di avviamento, anche in correlazione con altre risorse immateriali. Si comprende facilmente, pertanto, che questo asset rivesta grande interesse per ciascuna azienda - sia essa industriale, commerciale, finanziaria o di altro qualsiasi settore - e, al tempo stesso, sia valore aziendale soggetto al rischio di comportamenti volti a trasferire in un modo più o meno scorretto ad altre imprese la lista clienti e quanto ad essa è connesso.

La concretezza di tale rischio è comprovata da numerose decisioni della magistratura del lavoro e delle sezioni specializzate in materia di impresa. Circostanza che conferma quanto si è appena prospettato. Il contenzioso in materia mette in luce anche un altro aspetto. La tutela delle informazioni aziendali, ivi comprese le informazioni commerciali, rientra nel campo di applicazione di diverse nuclei normativi: disciplina dell’obbligo di fedeltà e riservatezza nell’ambito della regolazione del rapporto di lavoro subordinato; codice della proprietà industriale in particolare in tema di tutela dei “segreti commerciali”; normativa del codice civile di regolazione dell’attività delle imprese da sempre recante il divieto di concorrenza sleale.

Avere presente il macro-insieme di tali normative, considerato in tutte le sue diverse componenti, costituisce una condizione necessaria per poter scorgere sinergie fra disposizioni pur appartenenti a diverse aree disciplinari e per essere in grado di avvalersene al meglio.

Sull'argomento leggi anche: Il patto di non concorrenza nell’art. 2125 c.c

2. Le tutele in costanza di rapporto di lavoro

L’art. 2105 c.c. prevede come effetto essenziale del contratto di lavoro subordinato l’obbligo del prestatore di lavoro di non divulgare notizie attinenti all’impresa da cui dipende. Notizie che, secondo una interpretazione diffusa, abbracciano anche quelle di carattere commerciale.

Fin dall’entrata in vigore del codice civile, l’art. 2598, significativamente intitolato “Atti di concorrenza sleale”, prevede che “… compie atti di concorrenza sleale chiunque … 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi di concorrenza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui impresa”.

A sua volta, il codice della proprietà industriale (C.P.I.), perfezionato dal recente d.lgs. n. 63/2018 (attuativo della direttiva (UE) 2016/943 dell'8 giugno 2016 sulla protezione del know-how riservato e delle informazioni commerciali riservate), configura come diritti di proprietà industriale i “segreti commerciali” con disposizioni contenute in particolare negli artt. 98 e 99.

Ebbene, la divulgazione della “lista clienti” e, in particolare, il suo trasferimento ad un’impresa concorrente è da valutare alla luce delle predette normative, a partire da una distinzione. Ove il trasferimento delle informazioni sia effettuato quando è ancora in atto il rapporto di lavoro, sussiste un presupposto per poter valutare la condotta del dipendente in primo luogo sulla base dell’art. 2105 c.c. che, per l’appunto, fonda un obbligo di segretezza a suo carico.

Considerando tale ipotesi - divulgazione di notizie aziendali di tipo commerciale da parte di un soggetto ancora legato all’azienda da un rapporto di lavoro - l’art. 2105 c.c. e gli artt. 98 e 99 C.P.I. non risultano affatto in contraddizione e, anzi, possono concorrere a colpire comportamenti illeciti. Invero, l’art. 2105 non circoscrive in maniera restrittiva la divulgazione delle notizie che il lavoratore non può divulgare; a loro volta, gli artt. 98 e 99 - nelle parole del Tribunale di Bologna-Sezione speciale imprese n.6535/2017 - assicurano la tutela “di tutto ciò che può rientrare nella nozione di know-how; quindi: informazioni di natura tecnica o commerciale (a tal fine apparendo indifferente la natura, potendo trattarsi di esperienze aziendali tecnico-industriali o informazioni di carattere commerciale, o, ancora, informazioni relative alla organizzazione, o, infine, informazioni finanziarie, di gestione o di marketing)”.

Ben può accadere, pertanto, che lo stesso comportamento del lavoratore, autore della divulgazione delle informazioni commerciali, risulti sanzionabile a stregua dell’art. 2105 c.c. e degli artt. 98 e 99 del C.P.I, con conseguenze diverse dato che, in particolare, la violazione dell’art. 2105 è tipicamente fonte di responsabilità disciplinare.

La sovrapponibilità della regolamentazione dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro, che in questa sede interessa per quanto previsto come obbligo di riservatezza sulle informazioni di carattere commerciale, non deve far dimenticare che la possibilità di tutelare tali informazioni a stregua degli artt. 98 e 99 è legato a particolari condizioni.

Ne derivano almeno due considerazioni:

La tutela delle informazioni commerciali derivante dall’art. 2105 c.c. ha un ampio campo di applicazione e può operare anche in casi in cui non è in grado di operare quella prevista dal C.P.I. Possono, infatti, risultare carenti le particolari condizioni richieste da tale Codice ed essere presenti quelle richieste ai fini dell’applicazione dell’art. 2105 c.c. Per quest’ultimo, infatti, può considerarsi sufficiente la divulgazione di notizie attinenti all’azienda anche solo potenzialmente per essa dannose e senza la necessità che le stesse siano state dichiarate formalmente riservate.

La seconda e, in verità, prioritaria considerazione riguarda l’esigenza di predisporre, per quanto nella disponibilità di ogni singola azienda, le condizioni idonee a rendere applicabili anche la tutela predisposta dagli artt. 98 e 99 del C.P.I., di modo che possano trovare applicazione, ciascuno con le proprie caratteristiche e conseguenze, ambedue i nuclei normativi: art. 2105 c.c., che richiama le sanzioni disciplinari di cui all’art. 2106 c.c., e i predetti artt. 98 e 99, la cui applicabilità è legata alle condizioni che più in particolare si richiamano nel seguente paragrafo.

3. Dopo il rapporto di lavoro: il divieto di concorrenza sleale; la tutela di diritti di proprietà industriale

Una volta intervenuta la cessazione del contratto di lavoro, qualunque ne sia la causa, le normative propriamente lavoristiche, in primis l’art. 2105, sono fuori causa, a meno che non venga sottoscritto un patto di non concorrenza in base all’art. 2125 c.c. destinato ad operare “per il tempo successivo alla cessazione del contratto” e tale da confermare l’obbligo di non trasmettere le informazioni riguardanti l’azienda di cui si è stati dipendenti.

In ogni caso, anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, non vengono meno efficaci forme di tutela delle informazioni commerciali.

In giurisprudenza, è diffuso l’orientamento secondo cui la sottrazione e poi l’utilizzo di informazioni riguardanti la clientela altrui costituisce un atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c. (“… compie atti di concorrenza sleale chiunque …3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”).

La normativa sulla concorrenza sleale è, infatti, tesa anche a salvaguardare le informazioni aziendali, sanzionando i comportamenti che consentono a concorrenti sleali di disporre di informazioni idonee ad agevolare la conoscenza il rapporto con nuovi clienti.

Il comportamento illecito a stregua dell’art. 2598 c.c., peraltro, presuppone che l’autore dello stesso sia un imprenditore commerciale, come richiede che sia provato il rapporto di concorrenza fra imprenditori.

Tutto ciò non impedisce che un ex dipendente possa essere chiamato in giudizio a titolo di concorso all’atto di concorrenza sleale nell’ambito dell’azione contro l’imprenditore che si è scorrettamente avvalso delle informazioni aziendali messe a sua disposizione (ferma restando la libera piena legittimità dell’utilizzo delle capacità professionali dell’ex dipendente: cfr., fra tante, Cass. n.14479/2002).

La frequenza di ipotesi in cui vengono divulgate informazioni aziendali, acquisite grazie alla partecipazione alla vita aziendale in veste di dipendente, ha portato alla tipizzazione di condotte del genere nell’ambito del codice della proprietà industriale (d.lgs. n. 30/2005), che dopo le ultime modifiche espressamente si occupa della tutela dei “segreti commerciali” fra cui rientrano anche le informazioni di carattere commerciale: artt. 98-99.

Ove le informazioni presentino le caratteristiche di cui alle predette disposizioni - siano segrete, dotate di valore economico in quanto segrete e, inoltre, sottoposte a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete - l’ex dipendente, che le trasferisca, risponde direttamente e in proprio quale autore di un illecito autonomo che non richiede necessariamente la concorrenza degli elementi che devono ricorrere perché possa parlarsi di concorrenza sleale.

Prof. Avv. Angelo Pandolfo Fieldfisher