Stampa

Dimissioni volontarie : sintomatologia del malessere?


icona

Sempre più persone stanno lasciando il proprio lavoro, alla ricerca di una collocazione più adeguata alle proprie conoscenze - non necessariamente meglio retribuita – ma con condizioni complessive di impiego migliori per sfuggire al “ burn out “, ossia l’esaurimento generato da una professione fin troppo logorante. 

In U.s.a. il fenomeno sta assumendo dimensioni considerevoli tanto da ribattezzarlo “ Great Resignation ” o “ Big Quit ”. Nel mese di settembre i lavoratori dimessi sono arrivati a 4,4 milioni. Coloro che si aspettavano un ritorno al lavoro in massa, con il venir meno dei sussidi di disoccupazione, hanno dovuto prendere atto di una realtà ben diversa. Nonostante l’aumento dei posti di lavoro di oltre mezzo milione nel mese di ottobre, ci sono più di 4 milioni di lavoratori in meno nel mercato del lavoro americano con 10,4 milioni di ricerche di personale attive e 7,4 milioni di disoccupati. 

In Italia il fenomeno è stato avvertito senza raggiungere le considerevoli dimensioni d’oltre oceano. Da noi la rigidità del mercato del lavoro, in assenza di un’ offerta qualificata, unito al malfunzionamento delle politiche attive che dovrebbero gestire proprio le transizioni occupazionali, ha reso più complessa la ricerca di alternative lavorative. Nonostante ciò il fenomeno non deve essere sottovalutato e rappresenta un campanello di allarme : nel secondo trimestre del 2021, tramite i dati delle comunicazioni obbligatorie, è stato osservata una forte ripresa delle dimissioni volontarie , pari a poco meno di mezzo milione di persone ( 292mila lavoratori e 191 mila lavoratrici ).

L’incremento c’è stato anche se la lettura dei dati del sistema delle comunicazioni obbligatorie è diversificata anche in relazione al periodo di riferimento per il confronto, ed infatti : 

• Nel confronto tra secondo trimestre del 2020 e quello del 2021, in piena pandemia, l’andamento delle dimissioni si è attestato a + 85%, ma sulla rilevazione hanno inciso le misure messe in campo per tutelare i posti di lavoro durante la pandemia;

• Ad un diverso risultato porta il confronto con il secondo trimestre 2019. In questo caso si osserva un incremento molto più contenuto e più realistico pari a +10,1%, in linea con le precedenti rilevazioni ( nel 2018, sempre in riferimento al secondo trimestre, si registrava un +14,8% rispetto al 2017 ). 

Il fenomeno è quindi circoscritto ma resta comunque da non sottovalutare se si considera che circa 480mila lavoratori dimettendosi hanno messo in conto di dover affrontare periodi di disoccupazione ,o addirittura di inattività, più o meno lunghi in momento assai particolare come quello attuale. 

Uno sguardo andrebbe dato anche alle motivazioni che hanno spinto a lasciare il proprio posto di lavoro. In attesa che il sistema delle comunicazioni obbligatorie fornisca ulteriori dati da confrontare, si possono fare alcune ipotesi concorrenti. 

Una prima motivazione potrebbe essere rintracciata tra coloro che riducono l’incremento delle dimissioni a semplice effetto della pandemia. Le privazioni del periodo pandemico e le regole riscritte, specie in tema di smart working, potrebbero aver spinto i lavoratori verso la scelta del cambiamento, alla ricerca di condizioni di lavoro migliorative non solo sotto il profilo economico ma anche per quanto riguarda la conciliazione con la vita privata. E’ un ipotesi plausibile questa, vista la concentrazione delle dimissioni in settori come il commercio e la ristorazione con paghe basse, condizioni di lavoro a rischio covid che non offrono la possibilità del lavoro da remoto. 

Una seconda possibilità tiene conto dei vari incentivi all’uscita proposti dalle imprese ai propri lavoratori mentre una terza ipotesi, forse la più consistente vista l’ampia percentuale di rapide ricollocazioni, tiene conto dell’intensità della ripresa economica e della conseguente ricerca da parte delle aziende di professionalità mancanti tra gli occupati.

Nel frattempo l’occupazione nell’ultimo anno è cresciuta ma resta ancora distante dai livelli pre-Covid, soprattutto per quanto riguarda i dipendenti permanenti, mentre è fortemente cresciuta l’occupazione a termine e quella part-time ritornata ai livelli pre-covid. 

Questo potrebbe far propendere per un’ulteriore tesi che, però, come tutte le altre resta da verificare, ossia che l’aumento delle dimissioni rappresenti l’indice di un mercato del lavoro in salute. In realtà, se è vero che le transizioni da un lavoro all’altro tendono ad aumentare quando riparte la domanda di lavoro, è altrettanto vero che la ripartenza della domanda non è stata così solida come ci si aspettava, considerato l’ampio ricorso ai contratti a termine e di quelli a tempo parziale ( involontari ), espressione di un atteggiamento quanto meno prudente da parte delle imprese.

Ci troviamo in una fase di transizione e ripresa che non consente ancora di decifrare in modo agevole le dinamiche e le criticità del nostro mercato del lavoro. La Commissione Europea ha d'altronde fatto notare come l’occupazione in Italia cresca molto più lentamente del PIL vuoi anche per una grave carenza di manodopera qualifciata che potrebbe creare seri problemi alla ripresa.

S.P.