Una doverosa premessa sulla “complessa bellezza”[1] dello strumento referendario: la scelta del male minore - Il presente contributo mira a fornire – senza alcuna pretesa o ambizione di esaustività e completezza – alcuni spunti di riflessione ragionata su quattro dei cinque quesiti referendari che chiameranno gli italiani e le italiane alle urne l’8 e il 9 giugno 2025. In particolare, la presente riflessione si concentra sui quattro referendum abrogativi attinenti a specifiche norme, a vario titolo, connesse con il mondo del lavoro.
Prima di addentrarci nel merito dei quesiti referendari mi siano permesse alcune considerazioni di carattere generale e sistemico su questa (ennesima) tornata referendaria.
Dal 1974 (anno del primo storico referendum sul divorzio) al 2022 (anno dell’ultimo referendum su quattro quesiti attinenti a differenti questioni anche di natura squisitamente politica – su cui amplius infra), si sono svolte 72 consultazioni referendarie di natura abrogativa[2], a fronte di un numero quasi doppio di quesiti sottoposti al sindacato della Corte costituzionale[3]. Dei referendum giunti alle urne, solo 39 hanno superato il quorum di validità (a fronte di 33 invalidi). Di questi, 23 hanno visto prevalere il sì all’abrogazione (a fronte di 16 quesiti bocciati dagli elettori). Con la sola eccezione dei quesiti del 2011 (in tema di acqua pubblica, nucleare, legittimo impedimento), nelle ultime tornate referendarie (1997, 1999, 2000, 2003, 2005, 2009, 2016, ma già era accaduto nel 1990) ha sempre prevalso il non voto (con l’effetto del mancato raggiungimento del quorum previsto)[4]. Le cifre – specialmente degli ultimi venticinque anni – misurano una parabola che sembra aver preso una china discendente inarrestabile. Quella di quest’anno è, però, la prima tornata referendaria in cui è ammesso il cd. “voto fuorisede” che potrebbe riservare importanti sorprese sul raggiungimento del quorum.
Costituzionalmente, “il referendum integra la funzione legislativa”[5] ma si badi bene che “è la “seconda scheda” di cui l’elettore dispone per imporre una scelta normativa erga omnes: la decisione popolare, infatti, può abrogare una legge votata in Parlamento ma non condivisa dalla maggioranza del corpo elettorale”[6]. In un certo senso, dunque, con il voto referendario il cittadino “si fa legislatore”[7] in quanto l’esito del voto mira direttamente a riscrivere una norma con l’effetto, finale, che in esito all’abrogazione vi sarà una normativa diversa da quella precedentemente in vigore.
L’art. 75 della Costituzione, ultimo comma, prevede che sia la legge a determinare “le modalità di attuazione del referendum”[8]. In ossequio alla disposizione in parola è stata emanata la L. n. 352/1970, il cui art. 2 ha disposto che “spetta alla Corte costituzionale giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell’art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell’articolo stesso. Le modalità di tale giudizio saranno stabilite dalla legge che disciplinerà lo svolgimento del referendum popolare”.
Senza disperdere argomentazioni sull’iter che la legge stabilisce per la celebrazione dei referendum abrogativi, ci concentreremo “ad osservare che il detto procedimento, pur nel suo carattere unitario, si articola in due fasi distinte, ma tra loro collegate”[9]. La prima fase, meno interessante ai nostri fini, si svolge davanti all’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di Cassazione (art. 12 della citata L. n. 352/1970). L’Ufficio centrale esercita varie funzioni dirette ad accertare sia la regolarità delle richieste referendarie sia la legittimità delle richieste stesse. L’Ufficio centrale assume le proprie determinazioni con ordinanza “immediatamente comunicata”[10] al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle Camere, al Presidente del Consiglio dei ministri e al Presidente della Corte costituzionale.
Con tale atto “ha inizio la fase procedimentale dinanzi alla Corte Costituzionale medesima”[11] che è chiamata a vagliare l’ammissibilità – rectius, per quanto si dirà di seguito, la potenziale conformità costituzionale – dei quesiti[12]. È tale fase la più rilevante ai fini della presente analisi. Sebbene il parametro costituzionale di riferimento è – id est dovrebbe essere – costituito (solo) dall’art. 75 Cost., il cui secondo comma stabilisce che “non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”, la giurisprudenza costituzionale in tema di ammissibilità referendaria è stata definita “tendenzialmente unprincipled”[13] ovvero “retta da un mosaico di micro-regole e sottili dissociazioni che accentuano l’occasionalità del giudizio e, con essa, una valutazione indirizzata dal contesto e dalla composizione del Collegio giudicante”.
Dunque, alla luce di una diversa applicazione dell’art. 75 Cost. – “sostanzialmente riscritto dalla creativa giurisprudenza costituzionale, nell’ambito di un giudizio privo di una reale controversia giuridica, e cioè di un caso da cui possano essere ermeneuticamente desunte le proprietà rilevanti”[14] – l’ammissibilità del referendum dipende quindi da “una alchimia di fattori giuridicamente fuzzy che esaltano la politicità della decisione”[15]. Tali fattori, esterni al sindacato stricto iure, hanno contribuito alla trasformazione del giudizio di ammissibilità “in uno stringente esame di costituzionalità anticipato, avente ad oggetto ora il quesito ora la normativa di risulta”[16]. In altre e diverse parole, la Corte si è avocata il diritto/dovere di plasmare i limiti del referendum abrogativo sinanche arrivando alla “creazione di limiti su cui è lecito dibattere”[17]. Ciò viene svolto dalla Corte facendo applicazione del “principio di ragionevolezza, sorto e sedimentatosi nel giudizio in via incidentale, [che] viene così trapiantato nel controllo di ammissibilità [ove] esso ha espresso la necessità di adeguare la «forma del diritto alla consistenza dei rapporti di fatto», legittimando un «controllo degli atti legislativi sotto il profilo della mancata corrispondenza della disciplina alle esigenze di equità imposte dai contesti»”[18].
A ciò devono anche “essere ricondotti il sindacato di eguaglianza, ragionevolezza […] il controllo di razionalità […]; il ragionevole bilanciamento tra beni omogenei sotto il profilo del rango materiale”[19]. E, dunque, in sintesi “non solo […] la richiesta referendaria non può investire le leggi indicate nell’art. 75 Cost. o comunque riconducibili ad esse, ma il quesito da sottoporre al giudizio del corpo elettorale deve consentire una scelta libera e consapevole, richiedendosi che esso presenti i caratteri della chiarezza, dell’omogeneità, dell’univocità, nonché una matrice razionalmente unitaria”[20].
Dietro a questo modus operandi della Corte Costituzionale – sicuramente discusso e discutibile tant’ che si è affermato che nelle pronunce è ravvisabile una “ostinata insufficienza e continua (per non dire patologica) contraddittorietà”[21] – risiede la necessità di un equilibrio di sistema per il mezzo del quale “il giudizio di coerenza tra mezzo e fine referendario non riguarda solo il quesito e il suo oggetto normativo, ma si estende anche all’intenzione dei promotori rispetto alla formulazione letterale della richiesta”; in questo senso, “nella giurisprudenza costituzionale si trova infatti una progressiva valorizzazione dello scopo soggettivo nella determinazione della portata e degli effetti dell’abrogazione referendaria”[22].
In questo ultimo senso, dunque, la Corte Costituzionale “ha esteso la propria area di indagine, in sede di giudizio di ammissione dei quesiti, ed ha cominciato ad esplorare l’assetto normativo di destinazione, ossia l’effetto del referendum, prima timidamente, poi in modo sempre più incisivo ed estensivo”[23].
Detto criterio d’indagine applicato dalla Consulta – vale a dire la verifica se “il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale”[24] – è stato indubbiamente applicato anche ai quesiti referendari del 2025 (cfr. amplius infra con riferimento alle sentenze della Consulta che hanno ammesso i singoli quesiti). Tutto ciò, vale a precisare che la coerenza delle norme di risulta con l’ordinamento giuridico è già stata preventivamente vagliata dalla Corte Costituzionale. Il cittadino, a cui viene richiesto di esprimere una scelta giuridica, è in realtà chiamato a confermare l’opinione politica dei promotori del referendum in esito all’avvallo della Corte Costituzionale. Invero in tale ottica, è innegabile che “le vicende legate all’origine della normativa del 1970 dimostrano che la compenetrazione tra sistema politico e referendum”[25] ma è massimamente necessario evitare che “il referendum abrogativo si trasformi – insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie”[26] trattandosi, in questo senso, di “un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento”[27].
Tentando di evitare l’ipocrisia di chi “camminerà forse sui carboni accesi, senza scottarsi i piedi”[28] e quindi di scadere in inflessioni politiche (quanto più personali e, anche solo per ciò, irrilevanti), l’odierno contributo vuole quindi offrire un’ottica diversa, strettamente giuridica, e aiutare i lettori a evitare di trasformare il voto in un “distorto strumento di democrazia […] nei confronti di scelte politiche dei partiti o [di] organizzazioni”[29].
Quanto ai temi di cui si discorre, i quattro quesiti proposti in materia giuslavoristica riguardano (i) la tutela applicabile avverso i licenziamenti illegittimi ex D.Lgs. n. 23/2015; (ii) la tutela prevista dalla L. n. 604/1966 per il caso di licenziamento illegittimo in imprese che impiegano fino a 15 dipendenti; (iii) la disciplina delle causali nel contratto a tempo determinato; e (iv) il regime della solidarietà tra appaltatore e committente negli appalti.
Le riflessioni svolte di seguito si fondano su una lettura combinata dei dati statistici, degli ultimi arresti giurisprudenziali unitamente ai contributi della dottrina e sono del tutto scevre da qualsiasi influsso e/o condizionamento politico, mirando unicamente a rendere il lettore consapevole delle tematiche sottese ai quesiti referendari.
Un’ultima precisazione per l’ultimo quesito, attinente alle norme sulla concessione della cittadinanza italiana, in ordine al quale alcuna valida e fondata riflessione può essere proposta. La scelta referendaria è quindi rimessa alla libera coscienza politica di ciascuno.
Il primo quesito: “c’era una volta il Jobs Act” referendum abrogativo del D.Lgs. n. 23/2015 - “Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?”
Il primo quesito referendario mira ad abrogare integralmente la disciplina in tema di risarcimento per i licenziamenti illegittimi prevista del cd. Jobs Act (fortemente voluto dall’allora Governo Renzi).
Va detto che il legislatore del Jobs Act aveva in allora compiuto quella che taluni commentatori avevano definito una “scelta epocale”[30] in quanto “da una parte riunifica[va] in un unico testo normativo la disciplina del licenziamento individuale nel suo complesso, quale che siano le dimensioni occupazionali del datore di lavoro, superando così la separazione tra le discipline basata sul requisito dimensionale, dall’altra […] capovolge[va] la prospettiva statutaria per i lavoratori assunti da datori medio-grandi dopo il 7 marzo 2015: la tutela riconosciuta dalla legge per il licenziamento individuale privo di giustificazione o affetto da vizi formali o procedurali è per tutti i lavoratori, anche se dipendenti da datori di lavoro con un maggior numero di occupati, una tutela esclusivamente economica”[31]. In questo senso, gli obiettivi della Legge delega[32] erano perfettamente chiari e trasversali: “in primo luogo “fluidificare” il mercato del lavoro, rendendo meno costoso il turn over fra i lavoratori occupati e quelli in cerca di occupazione; in secondo luogo, ridurre la “segmentazione” (realizzatasi in particolare in conseguenza della “riforma Biagi”, D. Lgs. 276/2003) fra i lavoratori più tutelati assunti con il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e quelli meno tutelati, soprattutto giovani, assunti, di regola, con una miriade di contratti atipici e flessibili”[33].
Nel nuovo sistema sul mondo del lavoro, dunque, la reintegrazione (prevista dall’art. 18 St. Lav.) doveva trovare applicazione solo nei casi più gravi in cui il licenziamento viene ritenuto (maggiormente) lesivo della dignità del lavoratore: il licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale. Invero, ben presto, la giurisprudenza – in particolare la Corte Costituzionale additata sinanche di “animus demolitorio”[34] – incomincia a picconare il sistema del Jobs Act sovvertendo, di fatto, questo proposito.
Un “primo fatale colpo alla filosofia su cui poggiava la stessa disciplina del c.d. contratto a tutele crescenti”[35] è stato inferto dalla Consulta con la sent. 194/2018 con cui è stata “demolita”[36] la disposizione che calibrava in modo uniforme, rigido ed automatico il calcolo dell’indennità prevista per il licenziamento ingiustificato[37]. Ad avviso della Corte si trattava di una “regolamentazione dichiaratamente squilibrata ed inidonea a realizzare un ragionevole contemperamento degli interessi in conflitto”[38].
Nel 2024, con la prima sentenza[39] di una triade, la Corte Costituzionale ha sancito l’illegittimità dell’art. 2, comma 1, del D.Lsg. n. 23/2015 con riferimento all’avverbio “espressamente” “che aveva l’effetto di restringere la platea dei casi di nullità sanzionabili con la reintegrazione, introducendo un’illegittima distinzione tra nullità testuali e nullità virtuali le quali ultime, nel regime dei contratti a tutele crescenti, erano così rimaste prive di disciplina”[40]; pertanto, come aveva ipotizzato la Corte di Cassazione nell’ordinanza di rimessione n. 83/2023 “la limitazione dell’applicabilità della tutela reintegratoria ai lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti nelle sole ipotesi di nullità del licenziamento previste espressamente come tali”[41] è stata ritenuta non conforme alla Costituzione in ragione della violazione del criterio contenuto nella legge di delega (art. 1, comma 7, lett. c, L. n. 183/2014).
Successivamente a metà luglio 2024, la Corte costituzionale[42] ha riportato “definitivamente le lancette dell’orologio al 1970”[43] riassegnando alla reintegrazione (ex art. 18 St. Lav.) un ruolo centrale.
Nell’intento di uniformare la tutela “ingiustificatamente differenziata di situazioni del tutto identiche, o almeno omogenee”[44], la Consulta ha esteso la sanzione della reintegrazione – già prevista per le parallele ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo (per l’ipotesi manifesta infondatezza del fatto materiale posto a fondamento del recesso) – anche nei casi di (i) licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel caso in cui sia dimostrata l’insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso; (ii) licenziamento disciplinare ove il fatto posto a fondamento del recesso, pur disciplinarmente rilevante, sia punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione meramente conservativa.
Perciò, dopo le sentenze nn. 128 e 129/2024 della Corte Costituzionale “ci troviamo [quasi] esattamente al punto in cui ci trovavamo con l’art.18 novellato con la Legge n. 92/2012”[45].
La soluzione interpretativa della Corte Costituzionale si ricollega in maniera piuttosto evidente ai correttivi che erano stati già apportati alla categorica formula normativa dell’art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 81/2015 da parte della giurisprudenza di legittimità[46] che viene, infatti, richiamata dalla medesima Consulta quale “diritto vivente”[47]. Ciò aveva consentito una “progressiva espansione per via pretoria della tutela reintegratoria nei licenziamenti disciplinari”[48]. La Corte di Cassazione – sentenza n. 12174/2019 – fornice un’ampia ed approfondita motivazione delle “ragioni logiche, costituzionali e di concreta giustizia a sostegno della soluzione [offerta in sentenza] sostenendo che la diversa formula di legge si spiega invece soltanto se interpretata in connessione con la disciplina della proporzionalità”[49] sinanche spingendosi a una mera analisi ermeneutica secondo cui “non può tacersi che la diversa soluzione lessicale adottata dal legislatore del 2015 - che ha implementato la formula che limita i casi di reintegrazione con l'aggiunta dell'aggettivo “materiale” in stretta connessione con l'esplicita estraneità di “ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” - si spiega agevolmente con l'esigenza di dissipare per la nuova disciplina dubbi interpretativi che all'epoca erano ancora ben presenti nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale a proposito del comma 4 dell'art. 18 novellato”[50].
Di fatto, la Corte di Cassazione, nonostante l’intenzione del legislatore di limitare la previsione della reintegra alla sola mancanza degli elementi del “fatto materiale contestato”, aveva subito affermato il contrario[51].
Quanto sin qui tratteggiato dimostra, in buona sostanza, che ad oggi l’elaborazione giurisprudenziale ha fatto si che la disciplina del Jobs Act non sia così difforme rispetto alla (sola) applicazione dell’art. 18 L. n. 300/1970. L’abrogazione – o meno – del D.Lgs. n. 23/2015 non quindi inciderà in maniera così incisiva sulle tutele avverso il licenziamento illegittimo. Ciò che effettivamente muta, in applicazione del moltiplicatore dell’art. 3 D.Lgs. n. 23/2015 per i lavoratori cui è applicabile, è la tutela per i lavoratori con anzianità aziendale inferiore ai 5/6 anni (nei casi in cui anche l’art. 18 St. Lav. prevede l’indennizzo è vero che scende il tetto massimo, ma raddoppia il minimo). D’altro lato per le imprese che occupano più di 15 dipendenti, l’abrogazione del D.Lgs. n. 23/2015 porterebbe l’applicazione della reintegrazione in almeno due ipotesi oggi soggette solo ad indennizzo (id est <s>;</s> violazione dell'obbligo di repechage nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nonché in caso di violazione dei criteri di scelta sempre nell’ambito dei licenziamenti per motivi economici).
Per usare le parole del prof. Tommaso Nannicini “c’era una volta il Jobs act”[52]: il referendum vuole di fatto abolire “qualcosa che non esiste [quasi] più”[53].
L’eventuale abrogazione del D.Lgs. n. 23/2015 porterebbe altresì all’abrogazione dell’offerta di conciliazione ex art. 6 del medesimo decreto che consentiva l’erogazione di un incentivo all’esodo (calcolato al lordo, ma percepito dal lavoratore al netto) che ha rappresentato una sicuramente efficiente misura di definizione delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del licenziamento. Parimenti, per effetto dell’abrogazione del D.Lgs. n. 23/2015 troverebbe nuova applicazione il tentativo obbligatorio di conciliazione per i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art. 7 L. n. 604/1966) che nella prassi ha anch’esso rappresentato un efficace strumento deterrente del contenzioso.
Un’ultima chiosa. I dati dimostrano che le norme disciplinati la tutela avverso il licenziamento illegittimo sono ininfluenti sul numero delle controversie attivate e sul relativo, eventuale, ricorso ai Tribunali del Lavoro[54]. Le cause di lavoro e previdenza arrivate nei tribunali italiani nel 2023 (ultimo dato disponibile) sono state 281.306. Il 2022 e il 2023 hanno segnato un rialzo del numero di fascicoli dopo otto anni di continuo calo dal 2014 al 2021[55]. Se raffrontati al numero di licenziamenti, stabile attorno ai 740.000 l’anno, i licenziamenti impugnati in Tribunale o Corte d’Appello sono passati dal 2,9% al 3,3% tra il 2014 e il 2016 (dunque con una crescita di fatto minima)[56].
Il secondo quesito. Ipotesi (residuali) di licenziamento nelle imprese con meno di 15 dipendenti: alla ricerca (quasi) di un ago nel pagliaio - “Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro”?”
Il secondo quesito referendario mira ad abolire l’attuale tetto massimo previsto per l’indennizzo avverso licenziamento illegittimo previsto dalla L. n. 604/1966 per le imprese che impiegano fino a 15 dipendenti: “la normativa di risulta, in caso di esito positivo della consultazione referendaria, comporterebbe, per la menzionata categoria di lavoratori, il mantenimento della soglia minima (pari a 2,5 mensilità) e consentirebbe una liquidazione affidata al prudente apprezzamento del giudice che, nel quantificare un ristoro equo e dotato di un congruo effetto deterrente, non troverebbe più l’ostacolo dell’attuale limite massimo […] la determinazione dell’indennità rimane, comunque, legata all’applicazione dei criteri indicati dallo stesso art. 8 della legge n. 604 del 1966, non incisi dal quesito”[57].
Il quesito referendario è destinato a incidere su una larga platea di lavoratori del tessuto produttivo delle piccole/medie imprese italiane (circa 3 milioni e 700mila)[58] ma unicamente in relazione ai “lavoratori assunti presso datori di lavoro di “piccole” dimensioni prima del 7 marzo 2015”[59].
Dal punto di vista pratico, la norma di risulta avrebbe un impatto significativo e limitando fortemente qualsiasi possibilità di stima e/o previsione di un eventuale rischio di causa nonché rischiando di portare la valorizzazione di un licenziamento in parola a valori certamente importanti. A sostegno della richiesta referendaria viene proposta una lettura del“l’art. 24 della Carta sociale europea, insieme alla decisione del Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS) resa all’esito del reclamo collettivo n. 158 del 2017 (promosso con atto dell’11 febbraio 2020)” secondo cui “un tetto massimo che, senza un carattere sufficientemente
dissuasivo, svincoli l’indennità dal danno subìto è, in linea di principio, contrario alla Carta (punto 96)”[60]. Nella medesima direzione è richiamata anche “la decisione n. 106 del 2014, dello stesso CEDS, resa nel caso Finnish Society of Social Rights contro Finlandia, richiamato anche da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2018. A giudizio dei promotori, sulla scorta delle richiamate decisioni, dovrebbe concludersi che «il rimedio compensatorio, qualora previsto in via alternativa rispetto al rimedio reintegratorio, può essere considerato adeguata forma di riparazione soltanto quando sia di entità tale da garantire al lavoratore un ristoro tendenzialmente integrale del danno sofferto in conseguenza del licenziamento, e quindi tale da assorbire l’equivalente economico del valore del posto di lavoro illegittimamente perduto, senza esaurirsi necessariamente in esso»”[61]
Riguardo a detta ultima considerazione, è bene precisare che la questione relativa all’esclusione della tutela reintegratoria per i datori di lavoro di più piccole dimensioni è già stata affrontata in passato dalla Corte Costituzionale, più volte chiamata a valutare sotto questo profilo la legittimità costituzionale dell’art. 18 St. Lav.[62]. La Corte aveva in allora ritenuto ragionevole alla luce della Costituzione quella disparità di tutele – radicata nel numero di lavoratori occupati dal datore di lavoro – per svariate ragioni, tra cui, per esempio, non gravare i datori di più piccole dimensioni di oneri eccessivi, la natura fiduciaria dei rapporti di lavoro che caratterizza queste organizzazioni o le tensioni che un ordine di reintegrazione potrebbe ingenerare in tali contesti.
Invero, il rapido mutamento del contesto produttivo/industriale e sociale nel quale le imprese italiane sono chiamate ad operare ha indotto, più di recente, la Consulta a mutare orientamento e ad affermare lapidariamente[63] che il parametro del numero di occupati non può più costituire il criterio per escludere l’applicazione della tutela reintegratoria.
Anche sulla scia di quanto affermato dalla Corte, parte della dottrina coinvolta nel dibattito sul quesito referendario in parola[64] ha sollecitato l’intervento del legislatore sulla riforma di tale norma. In altro senso, occorre evidenziare che in caso di esito positivo del referendum “deriverebbe un potere del giudice di determinazione discrezionale dell’indennità, senza il precostituito confine delle sei mensilità [e ciò] creerebbe una evidente e irrazionale disparità di trattamento rispetto all’opposto tenore dell’art. 9, primo comma, del decreto n. 23 del 2015”[65].
Più in generale, al fine di meglio comprendere la portata del quesito referendario, occorre ragionare sulla proporzionalità di un diverso regime di tutela per i lavoratori di aziende che impiegano fino a 15 dipendenti.
In questo senso, la Corte Costituzionale con la citata pronuncia – che chiamava la Consulta a pronunciarsi sull’art. 9 D.Lgs. n. 23/2015 che ripropone, mutatis mutandis rispetto alla norma referendaria, un sistema sanzionatorio per le imprese che impiegano fino a 15 dipendenti diseguale rispetto a tutte le altre imprese – ha dichiarato inammissibile la remissione del Tribunale di Roma circa la citata indennità risarcitoria per il licenziamento illegittimo (fino a 6 mensilità), invitando il Parlamento a provvedere. I giudici hanno evidenziato come “un sistema siffatto non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi […] il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli”[66].
Da ultimo, la Corte “ha affermato che il protrarsi dell’inerzia legislativa in questa materia “non sarebbe tollerabile” e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà di una simile scelta”[67]. Di recente, il Tribunale di Torino (ord. n. 733/2024) e il Tribunale di Livorno (ord. n. 240/2024) hanno nuovamente investito la Corte della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, c. 1, D. Lgs. 23/2015.
Il quesito referendario così come proposto non si pone il problema dell’alea (ineliminabile) di vittoria del “no” al primo quesito e di vittoria del “si” al secondo. Ove così fosse si creerebbe una situazione di evidente disuguaglianza delle tutela nei confronti dei lavoratori assunti da imprese con meno di 15 dipendenti dopo il 7 marzo 2025 rispetto a quelli assunti prima (che rappresentano una platea sempre più ridotta).
Alcune conclusioni, in relazione ai due predetti quesiti, possono essere già tratteggiate.
L’obiettivo dei promotori del referendum, avallato dalla Corte Costituzionale, è quello di riscrivere integralmente il regime di tutela contro i licenziamenti illegittimi. Tale intento si scontra però con i limiti dell’istituto referendario che – seppur anche solo astrattamente – potrebbe portare all’approvazione anche di solo uno dei due predetti quesiti e alla conseguente creazione di nuove disuguaglianze. Sarebbe, dunque, opportuno (e sinanche necessario) meditare e realizzare una riforma organica e sistematica dell’intera legislazione in tema di recesso dal rapporto di lavoro subordinato. La giurisprudenza costituzionale[68] aveva già evidenziato come “gli effetti di una normativa sui licenziamenti non vanno guardati solamente in relazione alla specifica tutela introdotta nell’ordinamento a proposito dei licenziamenti medesimi […] ma in relazione agli effetti perniciosi che essa può generare su tutto il sistema di legalità del lavoro”[69]. E quindi, per ricordare le parole del prof. Riccardo Del Punta in uno dei suoi ultimi scritti “la palla dovrebbe tornare, a questo punto, alla politica e al legislatore”[70] in un contesto in cui “la nuova disciplina del c.d. Jobs Act non sembra ancora assorbita e tanto meno razionalizzata [e] con riguardo all’art. 18 St. lav., sembra poter essere pienamente garantito solo dalla autoconsunzione di detta norma, in ragione del progressivo ridursi della platea dei destinatari costituita dai lavoratori con rapporto di lavoro costituito prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015, platea oggi oscillante, pare, fra il 20% e il 30% della forza di lavoro occupata”[71].
Il terzo quesito che vuole il ritorno del contratto a tempo determinato causale. - “Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b bis)”; comma 1 -bis , limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “,in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?”
Il terzo quesito referendario punta all’eliminazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine al fine di ridurre “la precarietà del mondo del lavoro”[72]. L’intento di riconoscere “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”[73] è da anni ben chiarito dal legislatore e la disciplina dei contratti a termine, tempo per tempo, è emanata a corollario di detto principio.
L’attuale disciplina normativa[74] consente la stipulazione di tali contratti: (i) in assenza di qualsiasi causale giustificativa, nel caso di durata del rapporto di lavoro non superiore a dodici mesi (o anche di proroga o di rinnovo non oltre tale termine); (ii) nel caso di durata superiore a dodici mesi, ma compresa nel termine di ventiquattro mesi, con l’apposizione di causali che rispecchino “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti individuate dalle parti” ovvero stabilite “nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2024”[75] e/o “nei contratti collettivi applicati” e, infine, “in sostituzione di altri lavoratori”[76]
Per usare le parole della Corte Costituzionale “la richiesta abrogativa mira a espungere previsioni che favoriscono il lavoro temporaneo”[77], ma “per accertare più chiaramente la portata e l’incidenza dell’eventuale loro abrogazione sul tessuto normativo vigente, occorre richiamare il contesto in cui esse si collocano”[78] oltreché chiarire il substrato storico del ricorso al contratto a tempo determinato in Italia.
Fin dall’originaria formulazione dell’art. 2097 del codice civile (poi abrogato) si è affermato il principio secondo cui “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto”.
Questo principio è stato sostanzialmente confermato dapprima dalla L. n. 230/1962, che ha individuato tassativamente i casi riferiti a situazioni particolari in cui era possibile apporre un termine alla durata del contratto di lavoro, e poi dall’art. 23 della L. n. 56/1987 che ha esteso ai contratti collettivi stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative la possibilità di individuare ulteriori ipotesi di apposizione del termine al contratto. In genesi, si trattava, dunque, di ipotesi di contratto a termine che necessitavano necessariamente dell’apposizione di una causale.
Successivamente, con il D.Lgs. n. n. 368/2001 si è affermata, in linea con la direttiva europea 1999/70/CE, la necessità che la causale apposta al contratto fosse connessa con “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Il legislatore del tempo aveva, di fatto, normato una clausola generale (cd. “causalone”) adattabile camaleonticamente alle esigenze concrete.
L’intento del legislatore cambia però passo. E ciò avviene ben prima del Jobs Act in quanto il primo contratto integralmente acausale è stato introdotto dalla cd. Riforma Fornero (L. n. 92/2012). Il Jobs Act ha indubbiamente modificato in profondità la disciplina del contratto a termine[79]: la “tecnica normativa per clausole generali quali fondative di limiti per l’apposizione del termine al contratto di lavoro” lasciava spazio alla consacrazione del “rapporto fra regola (contratto a tempo indeterminato) e deroga o eccezione (contratto a tempo determinato)”[80].
Successivamente, il legislatore ha temperato detta scelta con la reintroduzione della previsione dell’obbligo di indicare le specifiche “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero [le] esigenze di sostituzione di altri lavoratori”, nonché le eventuali “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria” idonee a giustificare la stipulazione dei contratti di lavoro a tempo determinato di durata superiore a dodici mesi e sino a ventiquattro mesi (così l’art. 19 del D.Lgs. n. 81/2015, come modificato dall’art. 1 del D.L. 12 luglio 2018, n. 87, recante “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, convertito, con modificazioni, nella L. 9 agosto 2018, n. 96). Previsione, questa, successivamente estesa anche alle ulteriori specifiche esigenze individuate nei contratti collettivi di cui all’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015.
In sintesi, l’esito della richiesta referendaria mira dunque – al contempo – alla riespansione dell’obbligo della causale giustificativa anche per i contratti (e i rapporti) di lavoro di durata inferiore ai dodici mesi e all’esclusione del potere delle parti di individuare giustificazioni, a fondamento della stipulazione (o della proroga o del rinnovo) di tali contratti, diverse da quelle indicate dalla legge o dai contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi.
Alcuni dati sul ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato utili a comprendere se detta tipologia contrattuale sia veramente fonte di precarietà del mercato del lavoro. I dati provenienti dall’ISTAT certificano che in un contesto nel quale cresce il numero degli occupati si registra – fra il quarto trimestre 2023 e lo stesso trimestre del 2024 – un incremento dei contratti a tempo indeterminato del 3,1%, e di contro, una riduzione in doppia cifra del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato (- 10,0%)[81]. In particolare, l’ISTAT ha evidenziato che nel primo trimestre 2023, il numero complessivo di contratti di lavoro attivati è stato pari a 18.241 di cui 15.377 a tempo indeterminato e 2.864 a tempo determinato. Con dei semplici calcoli, possiamo dimostrare che l’84,30% dei contratti risulta a tempo indeterminato e il restante 15,70% a tempo determinato[82]. Con riferimento al secondo semestre 2023 invece, il totale dei contratti di lavoro attivati è pari a 18.586 – in lieve aumento rispetto al trimestre precedente – di cui 15.505 a tempo indeterminato e 3.082 a tempo determinato.
Dal punto di vista quantitativo le ricerche condotte dall’Osservatorio sul mercato del lavoro presso l’Università Roma Tre, coordinato dalla prof.ssa Silvia Ciucciovino, hanno messo in evidenza come la quota dei contratti a tempo determinato sulle attivazioni complessive nell’anno 2023 è tornata in media rispetto a quanto rilevato nel 2019, quando era pari a 2 milioni e 55 mila[83]. La quota dei tempi determinati rispetto agli assunti a tempo indeterminato si attesta comunque ampiamente al di sotto di quella soglia del 20% – in linea con i dati europei secondo cui i paesi dell’Unione Europea fanno, in media, ricorso al 13% di contratti a tempo determinato – che il legislatore italiano individua come una proporzione accettabile di ricorso al tempo determinato[84].
È interessante il dato offerto in relazione alla situazione occupazionale a 24 mesi degli assunti con contratto a termine. Tale dato dimostra che, considerando i lavoratori attivi con un contratto a termine nel primo trimestre del 2022 (tra i 25 e i 55 anni), dopo 24 mesi circa il 30% risultava non essere più occupato con un contratto di lavoro dipendente: ciò vale quantomeno a dimostrare che la precarietà riguarda lavoratori che scelgono di ‘abbandonare’ il rapporto di lavoro subordinato per altre opzioni.
Siamo, quindi, difronte a “un mercato del lavoro molto dinamico, ma non certo totalmente precarizzato”[85]. Dai dati offerti “emerge chiaramente che questi ultimi anni […] smentiscono nettamente le speculazioni prognostiche operate da coloro che ponevano in correlazione il grado di flessibilità esibito dalla normativa vigente, l’utilizzo opportunistico dello strumento e la paventata precarizzazione dell’impiego. Sotto questo profilo, se fosse vero che una norma che rimuove ostacoli al ricorso al lavoro a termine, ne altera l’equilibrio con il contratto a tempo indeterminato, a favore del primo, non si spiegherebbe la riduzione del 10% nell’ultimo anno del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato e il contestuale aumento dei contratti di lavoro a tempo indeterminato”[86].
Alla luce dei dati offerti, e assunto che come già detto “la richiesta abrogativa mira a espungere previsioni che favoriscono il lavoro temporaneo”[87], è necessario chiedersi se l’approvazione della richiesta referendaria genererebbe o meno “un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale”[88] e se, dunque, la normativa di risulta, sarebbe “pienamente in linea con i princìpi”[89] e “con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore”[90] e del quale “muterebbe i tratti caratterizzanti”[91].
Il quarto quesito. La responsabilità solidale ex art. 26, co. 4, TUSL. - “Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”?”
Il quarto quesito referendario ha lo scopo di eliminare la limitazione della responsabilità che, secondo la normativa oggi in vigore esonera il committente, l’appaltatore e il subappaltatore, dal rispondere, sia in via diretta (art. 26, co. 3), sia in via solidale (art. 26, co. 4) del danno patito dal lavoratore infortunato, quando l’infortunio inerisca al “rischio specifico” dell’attività dell’appaltatore o del subappaltatore prescelti dai committenti e subcommittenti per l’esecuzione di un’opera o di un servizio.
L’obiettivo del referendum è quello di “garantire quanto meno l’integrale ed effettivo risarcimento del danno delle vittime (per la parte non indennizzata dall’assicuratore sociale INAIL o IPSEMA) e intende quindi promuovere il rafforzamento della sicurezza e della salute dei lavoratori, in quanto anche la responsabilità civile solidale può assolvere a una funzione di deterrenza, spingendo chi ha delegato ad altri i propri obblighi in materia - introducendoli nei luoghi dell’impresa - a non disinteressarsi del tutto della sicurezza del lavoro”[92]. Per usare le parole della Corte Costituzionale “dalla formulazione del quesito e dall’analisi della sua incidenza sul quadro normativo si evince in modo inequivocabile la finalità di rafforzare la responsabilità solidale per i danni non indennizzati dall’INAIL o dall’IPSEMA e di ripristinarne l’originaria ampiezza, nei termini definiti dall’art. 1, comma 910, della legge n. 296 del 2006, che non contemplava limitazioni di sorta. Con tale esito è coerente la struttura del quesito, che si rivela idonea a conseguire la finalità descritta. Abrogata la limitazione che il secondo periodo oggi prevede, il sistema si ricompone in modo armonico con il fine ispiratore della richiesta referendaria: l’imprenditore committente risponde in solido con appaltatori e subappaltatori per tutti i danni che l’INAIL o l’IPSEMA non devono indennizzare, a prescindere dall’eventuale inerenza di tali danni a rischi tipici delle attività degli appaltatori e subappaltatori. La previsione dettata dall’art. 26, comma 4, primo periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008 acquista così una portata onnicomprensiva e, per effetto dell’abrogazione referendaria, trovano compimento le virtualità espansive di una regola che già il sistema conosce”[93].
Il quesito referendario deve inevitabilmente essere letto nell’ambito di un “cambio di paradigma epocale che è avvenuto nel nostro diritto del lavoro […] in materia di esternalizzazione […] avvenuto ad opera di una normativa intesa a promuovere una organizzazione del lavoro e dell'impresa improntata alla massima flessibilità e alla più estrema frantumazione del processo produttivo”[94]. Infatti, la disposizione che il quesito referendario mira ad abrogare assume maggiore – rectius, esclusivo – rilievo “di una situazione di appalto vero e proprio [in cui] l’appaltatore è dotato di una propria autonomia organizzativa” da cui deriva la “tradizione affermazione del divieto di ingerenza del committente nei lavori dell’appaltatore”[95].
La specifica regolamentazione degli “obblighi informativi” previsti ai sensi dell’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008 si muove proprio in tal senso. Senza entrare in un grado di dettaglio specifico che ci porterebbe fuori tema, merita però ricordare che la ratio dell’art. 26 è quella di imporre “al datore di lavoro che si avvale di soggetti terzi obblighi informativi, di verifica e di prevenzione per la sicurezza sui luoghi di lavoro, è di fare in modo che si prevengano i rischi derivati dall'interferenza di più imprese nel medesimo luogo di lavoro”[96]. In questo contesto, il committente svolge un ruolo di player principale senza però un’eccessiva ingenerenza tale da generare un travaso di responsabilità: in questo senso è utile osservare che “l’utilizzo nella norma dell’espressione “promuove il coordinamento” anziché del più semplice “coordina” chiarisce che non si tratta di un obbligo facente capo al solo committente, il quale deve piuttosto dare l’input iniziale”[97] alle attività. Si tratta di obblighi che possono addirittura sussistere anche se non vi è stata la stipula di un contratto di appalto e per il solo fatto che si è realizzata un’interferenza tra le attività delle imprese[98].
Tale premessa sistematica è utile a cogliere l’interpretazione giurisprudenziale in tema di responsabilità del committente ex art. 26, co. 4, D.Lgs. n. 81/2008 che ben delimita i confini di detta responsabilità alla luce sia dell’autonomia che caratterizza il contratto di appalto sia la necessità di coordinamento imposta dalla medesima norma. In questo senso, è stato affermato che è “fonte di responsabilità per il committente, in ogni caso […] la sua ingerenza nelle attività dell’appaltatore”[99] e, in altre parole, “tale responsabilità è stata accertata quando le richieste del committente erano tali da “compromettere ogni libertà e autonomia dell’appaltatore” che sarebbe così ridotto a un nudus minister”[100]. Ciò vale a dire che il “rischio specifico”
citato dalla norma in relazione a cui sorge una responsabilità solidale del committente dev’essere letto non solo in relazione alle attività specifiche svolte dall’appaltatore ma, invero, in un’ottica complessiva del contratto di appalto e del ruolo svolto dal committente[101].
In quest’ottica, la Corte di Cassazione (sezione penale) ha ritenuto che “l’esclusione relativa ai rischi specifici fosse riferita non alle generiche precauzioni da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti, ma alle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale - generalmente mancante in chi opera in settori diversi - nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine”[102]. In particolare, secondo gli Ermellini un’esclusione di responsabilità era configurabile “qualora l’appaltatore avesse seguito lavori determinati e circoscritti, in piena e assoluta autonomia”[103]. È stato ritenuto, quindi, che “il committente risponda soltanto ove il rischio sia palese e percepibile”[104] e, quindi, quando non abbia esercitato “il necessario controllo consentendo l’inizio dei lavori in presenza di situazioni di fatto pericolose, e in mancanza di idonee misure di prevenzione”[105].
In conclusione, si tratta dunque di un particolare regime di responsabilità del committente che “non è configurabile […] in re ipsa e, cioè, per il solo fatto di aver affidato determinati lavori ovvero un servizio a un'impresa appaltatrice”[106]. Ciò, come accennato in premessa, nell’ottica in cui “un’eventuale chiamata in causa”[107] tout court del committente finirebbe per costituire una sorta di responsabilità oggettiva (se non addirittura una vera e propria posizione di garanzia) che comporterebbe “una preoccupante erosione del principio di autonomia delle parti del contratto di appalto”[108].
[1] S. Faga, “Il vincolo referendario. Analisi del rapporto tra il referendum abrogativo e la legge ordinaria”, 2011.
[2] Dati estratti da elezionistorico.interno.gov.it/index.php.
[3] R. Lungarella, “Dal 1946 a oggi: i referendum in cinque grafici”, 3 giugno 2025.
[4] R. Lungarella, op. cit.
[5] A. Pugiotto, “Vita, morte e miracolosa resurrezione del referendum abrogativo popolare”, in Studium Iuris, n. 12, 1° dicembre 2021, p. 1449 e ss.
[6] A. Pugiotto op. ult. cit.
[7] A. Pugiotto, op. ult. cit.
[8] Cost. art. cit.
[9] A. Criscuolo, “La Corte costituzionale e i referendum abrogativi d’iniziativa popolare”, in cortecostituzionale.it, p. 2 e ss.
[10] A. Criscuolo op. ult. cit.
[11] A. Criscuolo op. ult. cit.
[12] Il discorso sull’ammissibilità referendaria deve indubbiamente rifarsi alla sentenza della Corte Costituzionale n. 16/1978, la quale segna il punto di partenza della giurisprudenza che, in via pretoria, ha conformato l’istituto referendario. Sul punto, in dottrina, E. Bettinelli, “Itinerari della razionalizzazione della convenzione antireferendaria”, in Pol. dir., 1978, p. 519, con riferimento non solo ai limiti di cui all’art. 75 Cost. ma anche alle scansioni procedimentali di cui alla l. n. 352/1970.
[13] C. Caruso, “La ragione referendaria e i suoi giudici”, in Rivista AIC, n. 1/2024, p. 115 e ss.
[14] C. Caruso op. ult. cit.
[15] C. Caruso op. ult. cit.
[16] C. Caruso op. ult. cit.
[17] P. Adami, “Referendum e ruolo della Corte Costituzionale”, in Questione Giustizia, p. 4.
[18] A. Morrone, “Il custode della ragionevolezza”, Milano, Giuffrè, 2001, p. 433, ma nello stesso senso già L. Paladin, “Il principio costituzionale di eguaglianza”, Milano, Giuffrè, 1965, p. 194.
[19] C. Caruso, op. ult. cit., p. 119.
[20] C. Cost. n. 56/2022.
[21] Emblematico, a questo riguardo, R. Bin, “Potremmo mai avere sentenze sui referendum del tutto soddisfacenti? Una considerazione d’insieme sulle decisioni «referendarie» del 2000”, in Giur. cost., 2000, 222 ss., secondo il quale il lavoro della Corte in tema referendario è soprattutto il riflesso di uno scarno apparato normativo (il riferimento è all’art. 75 Cost., all’art. 2 della legge costituzionale n. 1 del 1953, ma soprattutto alla legge n. 352 del 1970) che costringe la stessa a dover “recitare una parte decisiva nello stesso momento in cui scrive il suo copione. È una recita a soggetto che pone la Corte in palese difficoltà nel difendere la sua credibilità”.
[22] V.T.F. Giupponi, “I referendum, la Corte e il sistema politico. Riflessioni a partire dai quesiti sulla giustizia”, in Federalismi.it, Paper – 11 maggio 2022, p. 4.
[23] P. Adami, op. ult. cit.
[24] C. Cost. nn. 24/2011, 16-15/2008 e 45/2005.
[25] S. Faga, “Il vincolo referendario. Analisi del rapporto tra il referendum abrogativo e la legge ordinaria”, 2011.
[26] C. Cost. n. 16/1978.
[27] C. Cost. n. 36/1997.
[28] Proverbi 6, 28.
[29] Cfr. de relato C. Cost. n. 16/1978.
[30] M.T. Carinci, “Il referendum sul Jobs Act”, in giustiziainsieme.it.
[31] M.T. Carinci op. cit.
[32] Cfr. art. 1, co. 7, L. n. 183/2014.
[33] M.T. Carinci op. cit.
[34] A. Zambelli, “Il jobs act cambiato dai giudici: la reintegra torna il rimedio per i licenziamenti illegittimi”, in Norme e Tributi Plus Lavoro, 10 settembre 2024.
[35] R. Riverso, “Note di mezza estate sul Jobs act annegato in un mare di incostituzionalità: il caso del licenziamento disciplinare”, in Questione Giustizia, 10 settembre 2024.
[36] R. Riverso, “Note di mezza estate sul Jobs act annegato in un mare di incostituzionalità: il caso del licenziamento disciplinare”, in Questione Giustizia, 10 settembre 2024.
[37] Sul punto, amplius ex multis, M.T. Carinci, “La Corte costituzionale n. 194/2018 ridisegna le tutele economiche per il licenziamento individuale ingiustificato nel “Jobs Act”, e oltre”, in WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona".IT – 378/2018 e F. Ghera, “La tutela contro il licenziamento secondo la sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale”, in Dirittifondamentali.it - Fascicolo 1/2019.
[38] C. Cost. n. 194/2018 e, analogamente applicandone i principi, n. 150/2020 con cui la Corte Costituzionale ha affermato l’illegittimità della norma che ancora il risarcimento previsto per il licenziamento affetto da vizi formali e procedurali unicamente all’anzianità di servizio. Detta disciplina, infatti, “non compensa il pregiudizio arrecato dall’inosservanza di garanzie fondamentali e non rappresenta una sanzione efficace, atta a dissuadere il datore dal violare le garanzie prescritte dalla legge”.
[39] C. Cost. n. 22/2024.
[40] C. Colosimo, “Licenziamenti e Jobs Act. L’intervento della Corte Costituzionale sui casi di nullità”, in Questione Giustizia.
[41] Cass. ord. n. 83/2023.
[42] Cfr. C. Cost. nn. 128/2024 e 129/2024.
[43] A. Zambelli, “Il jobs act cambiato dai giudici: la reintegra torna il rimedio per i licenziamenti illegittimi”, in Norme e Tributi Plus Lavoro, 10 settembre 2024.
[44] C. Cost. n. 128/2024.
[45] R. Riverso, “Note di mezza estate sul Jobs act annegato in un mare di incostituzionalità: il caso del licenziamento disciplinare”, in Questione Giustizia, 10 settembre 2024.
[46] Sul tema si richiama il principio di diritto affermato da Cass. n. 12174/2019 secondo cui “ai fini della pronuncia di cui all’art. 3, comma 2, D. Lgs. nr. 23 del 2015, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”. In dottrina, ex multis, si richiama M. Volpes, “Dal «fatto contestato» al «fatto materiale contestato»: cambiare tutto per non cambiare niente?”, in Massimario di giurisprudenza del lavoro n. 2/2019, p. 423.
[47] Ex multis Cass. n. 19578/2019; n. 13533/2019 e n. 12365/2019.
[48] Si rimanda all’articolo di L. Antonetto, G. Paone, “La progressiva espansione per via pretoria della tutela reintegratoria nei licenziamenti disciplinari”, in LavoroSi.
[49] R. Riverso, “Note di mezza estate sul Jobs act annegato in un mare di incostituzionalità: il caso del licenziamento disciplinare”, in Questione Giustizia, 10 settembre 2024.
[50] Cass. n. n. 12174/2019.
[51] Cass. n. 12174/2019 e ord. n. 30469/2023.
[52] T. Nannicini, “Un referendum per abolire qualcosa che non esiste più”, HuffPost Italia, 2 giugno 2025.
[53] T. Nannicini, Id.
[54] P. Iacci, “Cosa ci insegna la riduzione del contenzioso del lavoro” secondo cui “la riforma riguardante i licenziamenti (2012 e 2015) a suo tempo aveva determinato grandi polemiche. Il timore era quello di un’ondata di licenziamenti. Questa non c’è stata, al contrario”.
[55] V. Melis, “Cause di lavoro, la corsa è ripartita”, in Norme Tributi Plus Lavoro, 3 giugno 2024.
[56] F. D’Amuri, R. Nizzi, “Tendenze recenti nel contenzioso in materia di lavoro privato”, in Bollettino ADAPT del 26 febbraio 2018, n. 8.
[57] C. Cost. n. 13/2025.
[58] Cfr. dati del comitato promotore del referendum.
[59] C. Cost. n. 13/2025.
[60] C. Cost. n. 13/2025.
[61] C. Cost. ult. cit.
[62] C. Cost. nn. 2/1986,189/1973,152/1975.
[63] C. Cost. n. 183/2022 su cui si veda amplius infra.
[64] Cfr. P. Ichino e Franco Scarpelli, “Referendum in materia di lavoro: le ragioni del sì e le ragioni del no”, in lavoce.info
[65] E. Gragnoli, “Brevi considerazioni sui quesiti per quattro referendum”, in Lav. dir. eur., 20 novembre 2024.
[66] C. Cost. n. 183/2022.
[67] A. Perulli, “La disciplina del licenziamento e le Alte Corti”, in Lav. dir. eur., 2, 2023, p. 6-7.
[68] C. Cost. n. 63/1966.
[69] R. Riverso, “Note di mezza estate sul Jobs act annegato in un mare di incostituzionalità: il caso del licenziamento disciplinare”, in Questione Giustizia, 10 settembre 2024.
[70] R. Del Punta, “Genesi e destini della riforma dell’art. 18”, in Lav. dir. eur., n. 2/2022, p. 15.
[71] C. Cester, “La disciplina rimediale dei licenziamenti illegittimi: una risistemazione sempre più problematica”, in Variazioni su temi di Diritto del Lavoro, n. 3/2024, p. 475.
[72] C. Cost. n. 14/2025.
[73] comma 1 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001, come introdotto dall’art. 1, comma 39, della legge 24 dicembre 2007, n. 247, recante “Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale”.
[74] Esito della novella dell’art. 24 D.L n. 48/2023.
[75] Termine prorogato al 31 dicembre 2025 dall’art. 14, comma 3, del D.L. n. 202/2024 recante “Disposizioni urgenti in materia di termini normativi”.
[76] Cfr. art. 19 D.Lgs. n. 81/2015.
[77] C. Cost. n. 14/2025.
[78] C. Cost. ult. cit.
[79] Il D.L. n. 34/2014 convertito in L. n. 78/2015 aveva apportato radicali modifiche al D.Lgs. n. 368/2001 (già novellato dalla L. n. 92/2012 e per larga parte riprese) e dette modifiche erano poi confluite nl testo del D.Lgs. n. 81/2015 (poi oggetto di novella da parte del cd. Decreto Dignità). In dottrina, tale stream of consciousness giuridica in relazione al
[79]contratto a tempo determinato è stato analizzato da A. Pandolfo, P. Passalacqua, “Il contratto di lavoro a tempo determinato” in “I contratti di lavoro – commentario al d.lgs. 15 giugno 2025, m. 81 […]”, Torino, 2016, p. 109 e ss.
[80] P. Albi, “Commento agli artt.19 – 29 D.Lgs. 81/2015”, in R. De Luca Tamajo – O. Mazzotta, in “Commentario breve alle leggi sul lavoro”, CEDAM, 2022, p. 2223.
[81] F. Rotondi, “Contratto a termine: i dati ISTAT riportano a vecchie contrapposizioni di politica legislativa?”, in IPSOA, 18 aprile 2025.
[82] Cfr. dati elaborati dal Centro Studi Conflavoro PMI.
[83] Rapporto Annuale delle comunicazioni obbligatorie – Ministero del Lavoro 2022.
[84] Cfr. art. 23, D.Lgs. n. 81/2015.
[85] Il referendum sui contratti a termine. Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Valerio Speziale, Silvia Ciucciovino e Andrea Morrone su giustiziainsieme.it
[86] F. Rotondi, “Contratto a termine: i dati ISTAT riportano a vecchie contrapposizioni di politica legislativa?”, in IPSOA, 18 aprile 2025.
[87] C. Cost. n. 14/2025.
[88] C. Cost. n. 26/2017.
[89] C. Cost. n. 49/2022.
[90] C. Cost. n. 13/1999.
[91] C. Cost. n. 10/2020.
[92] R. Riverso, “Il referendum in materia di sicurezza sul lavoro negli appalti per estendere la responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore”, in Questione Giustizia, 24 aprile 2025.
[93] C. Cost. n. 15/2025.
[94] R. Riverso, op. ult. cit.
[95] G. Morgante, “Commento all’art. 26 D.Lgs. 81/2008 – i precedenti della disposizione”, in R. De Luca Tamajo – O. Mazzotta, in “Commentario breve alle leggi sul lavoro”, CEDAM, 2022, p. 1850.
[96] C. Scognamiglio, “Il referendum su infortuni e appalti”, in giusitiziainsieme.it
[97] O. Bonardi, “La sicurezza sul lavoro nel sistema degli appalti”, Working Papers Olympus, n. 26/2013, p. 30.
[98] Cfr. ex multis Cass. pen. n. 28616/2015.
[99] O. Bonardi, “La sicurezza sul lavoro nel sistema degli appalti”, Working Papers Olympus, n. 26/2013, p. 32.
[100] Cass. pen., 2 maggio 1988 commentata da Catalano, in Rivista penale, 1989, p. 630.
[101] Per una sintesi delle ipotesi in cui la giurisprudenza riconosce la responsabilità solidale del committente cfr. M. Arena, “La responsabilità penale del committente per l’infortunio del dipendente dell’appaltatore”, in Filodiritto (https://www.filodiritto.com).
[102] Cass. pen. n. 32204/2009, Cass. pen. n. 36857/2009.
[103] Cass. pen. n. 6857/2009.
[104] Cass. n. 3784/2009.
[105] Cass. ult. cit.
[106] Cass. n. 2991/2023.
[107] G. Morgante, “Commento all’art. 26 D.Lgs. 81/2008 – i precedenti della disposizione”, in R. De Luca Tamajo – O. Mazzotta, in “Commentario breve alle leggi sul lavoro”, CEDAM, 2022, p. 1850.
[108] S. Bertocco, “Gli appalti interni”, in F. Carinci, E. Gragnoli, “Codice commentato della sicurezza del lavoro”, Torino, 2010, p. 277; F. Bacchini, “Committenti e appaltatori”, in M. Tiraboschi (a cura di), “Il testo unico della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro”, Milano, 2008, p. 187.
A cura di Marco Casetti WST Law & Tax