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L’intelligenza artificiale ci renderà più umani (se la usiamo nel modo giusto).


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C’è un timore che incontriamo sempre più spesso quando si parla di intelligenza artificiale: non solo la paura di usarla, ma la paura del futuro. È comprensibile. L’AI non sembra una semplice innovazione: sembra qualcosa che entra nel territorio che consideriamo “nostro”, quello del pensiero. E allora nasce una domanda silenziosa: “Se l’AI fa anche questo… che cosa resterà di me?”

La risposta può essere sorprendente: resta la parte più importante. Anzi, se la usiamo bene, l’AI può aiutarci a recuperarla. 

Siamo nati per ragionare, non per funzionare. 

Negli anni, il lavoro (anche quello intellettuale) ha spesso spinto molti verso una modalità “meccanica”: routine ripetitive e urgenze continue. Il rischio non è che l’AI ci “atrofizzi”. Il rischio vero è che in molti casi ci siamo disabituati a pensare in profondità. E allora forse la domanda non è “l’AI ci sostituirà?”, ma: “quale parte del mio lavoro era già diventata sostituibile?” 

L’AI non toglie umanità: toglie ripetizione. 

Se usata con metodo, l’AI può fare una cosa preziosa: restituirci tempo. Tempo per:

♦ pensare davvero, invece di reagire;

♦ scegliere priorità, invece di inseguire urgenze;

♦ ascoltare e capire le persone, non solo rispondere;

♦ ragionare, collegare informazioni, decidere;

♦ creare, comunicare, dare forma alle idee.

In altre parole: può spostare energia dalla ripetizione al valore. E il valore è umano.

La paura è naturale. Ma va messa al posto giusto. 

Molti temono che usare l’AI significhi delegare la testa, rinunciare alla professionalità, perdere identità. Possiamo vederla così: l’AI è un amplificatore. Amplifica ciò che le dai. Se le dai confusione, amplifica confusione. Se le dai superficialità, amplifica superficialità. Se le dai metodo e pensiero critico, amplifica metodo e pensiero critico.

Quindi non è una questione di “AI sì o AI no”. È: che tipo di persona e professionista voglio diventare con l’AI?

Il punto non è usarla. Il punto è incorporarla bene. 

L’AI entrerà nei flussi quotidiani come internet, email, smartphone. Non sarà “un tool in più”. Sarà una presenza costante. Ma l’impatto dipende da come la incorporiamo: 

♦ come stampella (e allora ci indebolisce),

♦ come palestra (e allora ci potenzia )

Usarla come palestra significa: farle fare il primo giro (bozze, schemi, alternative, sintesi) e poi mettere sopra la parte umana: giudizio, responsabilità, sensibilità, etica, contesto, visione. 

Una grande occasione per tornare all’essenza. 

C’è una cosa che l’AI non può sostituire davvero: il significato. Capire cosa conta. Capire una persona. Capire le conseguenze. Capire quando è il momento di parlare e quando è il momento di ascoltare. Capire cosa è giusto fare, non solo cosa è possibile fare. Se l’AI ci libera da rumore e ripetizione, può succedere qualcosa di utile: possiamo tornare a essere creativi, lucidi, presenti. Più umani. 

La speranza non è ingenuità: è una scelta. 

Il futuro non è scritto dall’AI. È scritto da come noi decideremo di usarla. Possiamo subirla con paura. Oppure guidarla con metodo. E se la guideremo bene, l’AI non sarà la fine del lavoro umano. Potrebbe essere, paradossalmente, l’inizio di un lavoro più umano. 

Avv. Andrea Lucà – Senior Associate WST Law & Tax Firm